Sulla mostra “Des pouvoirs des écrans”.
La XIV Biennale d’arte contemporanea di Lione, Mondes Flottants (Mondi fluttuanti), indaga il tema della fluidità. In risonanza con questa manifestazione, la galleria lionese Françoise Besson ha invitato il filosofo Mauro Carbone a curare una mostra dal titolo Des pouvoirs des écrans (Dei poteri degli schermi).
Carbone convoca quattro artisti — Bruno Metra, Laurent Mulot, Marta Nijhuis e Thaïva Ouaki — a misurarsi con le riflessioni del suo testo Filosofia-Schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (Cortina, 2016).
“L’esperienza schermica” presentata in questa mostra ci consente di interrogare quella medialità che rende decisivo il nostro rapporto al reale oggi. Il percorso artistico proposto dal curatore, Mauro Carbone, non è dunque pausa dalla realtà, copia di originale situato altrove, ma immersione nelle pratiche del nostro quotidiano, che oggi non possono che costituirsi nell’esperienza degli schermi. Nel percorrere la mostra, il dispositivo dello schermo emerge, secondo un nuovo paradigma, come ambiente mediale che struttura e modifica l’umano agire, la coscienza, la memoria, il vivere insieme.
La capacità dello schermo di nascondere — schermare — e di mostrare a un tempo è elemento essenziale della sua lunga e diversificata storia culturale. Ed è proprio il ricorso a questa ambiguità fondamentale a dispiegarsi nell’opera realizzata da Bruno Metra in collaborazione con Stéphane Durand ed esposta all’ingresso della galleria. Si tratta di una serie di fotografie dal titolo Cour interdite (2017), che denuncia il problema dell’inquinamento urbano. Metra fotografa un alcuni bambini in un cortile scolastico. I ritratti sono poi stampati su tela e decorati da Durand con ornamenti invisibili realizzati con una colla a lentissima essiccazione. Le opere vengono esposte all’aperto per alcune settimane, lasciando che le polveri sottili disperse nell’aria si depositino sullo strato di colla, rendendo così visibili i meandri di Durand. La colla diventa allora schermo; schermo che nasconde le vite ritratte e schermo che allo stesso tempo rivela le condizioni problematiche in cui si danno quelle vite.
Bruno Metra / Stéphane Durand, Cour interdite, 2017
Per Carbone la relazione fra il potere di nascondimento e di mostrazione dello schermo produce un effetto d’insieme che è costitutivo di un medesimo paradigma : la figura ontologica inedita dell'”archi-schermo”, ossia la condizione di possibilità del nostro fare e vivere tra e secondo gli schermi, che si dà nelle variazioni empiriche delle nostre esperienze schermiche. Questa la direzione di indagine che l’autore propone e la sfida che lancia agli artisti perché ogni opera esposta nella galleria Françoise Besson si mostri proprio nel suo essere una variazione dell’archi-schermo.
Della genealogia più mitica che storica che Carbone traccia nel delineare la nozione di archi-schermo, fa parte il dispositivo ottico della finestra, introdotto dal teorico della prospettiva rinascimentale Leon Battista Alberti e assurto a medium del regime scopico della modernità, oggigiorno rivisitata nella sua valenza schermica dalle nuove tecnologie — dal sistema operativo Windows alla Smart Window brevettata da Samsung. Nella sua installazione Le monde flottant des écrans (2017), realizzata sulla vetrina esterna della galleria, Marta Nijhuis propone una riflessione sullo sconfinamento della finestra nello schermo e sulle conseguenze che questo produce. Nata per rispondere alla necessità tecnica di trasformare lo spazio espositivo in black box, l’installazione oscura la vetrina della galleria mediante un sottilissimo strato di vinile nero, rendendola black mirror sulla quale fluttuano, decontestualizzate e in tal senso de-rappresentative, una serie di parole-chiave tratte dal libro di Carbone. La vetrina, da finestra, si trasforma in schermo, giacché riflette la strada antistante ma non consente di vedere in trasparenza l’interno della galleria se non attraverso una piccola apertura quadrangolare situata in basso a destra. Ma l’artista confonde le attese dello spettatore: quella che sembra una visione diretta dell’interno della galleria è in realtà ancora una volta schermata. Dietro a questa finestra apparente si nasconde un tablet la cui telecamera scruta l’interno della galleria, in una mise en abyme che gioca a confondere i dispositivi ottici della finestra e dello schermo. Lo spettatore finisce così per essere un osservatore osservato, com-preso nell’indecidibilità fra attuale e virtuale che la confusione di finestra e schermo mette in atto.
Laurent Mulot, Dreamscreen, 2017, Fotogramma / video
Il video di Laurent Mulot proiettato nella black box, Dreamscreen, 2017, esplora le nuove tecnologie rendendo esplicito un altro aspetto del paradigma dello schermo: l’illusorietà della frontalità con cui ci rappresentiamo le informazioni, ancora una volta retaggio del dispositivo ottico della finestra, che, presupponendo una separazione fra esterno e interno, soggetto vedente e oggetto veduto, stabilisce un rapporto di frontalità fra l’occhio cogitante e il mondo cogitato. Mulot gioca con l’immagine di un immenso cielo stellato, non totalizzabile da un occhio esterno, percorso dalla dicitura « No Signal »: un messaggio dal sapore nichilista sul vuoto della nostra connettività, per il tramite del quale l’artista invita a pensare l’assenza e la presenza che si danno nell’esperienza potenziata, delegata e anestetizzata che i nostri sensi vivono attraverso le nuove tecnologie.
Dal canto suo, con l’installazione Attractions (2017), Bruno Metra ci obbliga ad una non meno notevole sovversione dello sguardo, che attua calando dal soffitto, ad una cinquantina di centimetri da terra, tre schermi rivolti verso il suolo, che trasmettono una serie di Instagram stories. Le immagini, riflesse e deformate grazie ad un foglio trasparente collocato sotto gli schermi stessi, chiedono l’esercizio di un decifrare destinato a fallire. Nella loro fluidità, ci seducono, invitandoci a osservarle come se dovessimo tuffarci in esse. Vederle nitidamente significherebbe doversi stendere sotto l’installazione, finendo letteralmente soggiogati dai poteri degli schermi.
Bruno Metra, Attraction, 2017
Lo schermo si configura, nell’esperienza prodotta da questa mostra, come “quasi-soggetto” dotato di un proprio punto di vista non solo percettivo ma anche affettivo. Lo schermo ci invita all’interattività; di conseguenza, come ricorda il curatore, “[gli schermi] producono un “quasi-agire” — un agire impersonale — che consente loro di sfuggire alla tradizionale opposizione, radicata nell’assetto scopico di frontalità contrapposte stabilito dal paradigma della finestra albertiana, secondo cui ai soggetti sono assegnati i caratteri dell’attività e agli oggetti quelli della passività. Gli schermi ci seducono e ci conducono verso un altrove, verso una realtà alterata dall’immaginario che essi stessi contribuiscono a produrre rendendo visibili per noi i nostri stessi sogni, desideri, paure. Una tale presa di coscienza implica un nuovo rapporto al reale. In un’epoca di crisi, di post-verità, di oscurantismo, le chiavi della nostra emancipazione sono affidate ad un immaginario capace di osservare la realtà e di trasformarla attraverso la reversibilità sempre imminente di emozioni e desideri legati alla nostra esperienza schermica, al loro fondamentale potere seduttivo.
In una poesia scritta tra il 1934 e il 1938, Brecht alludeva con questi versi alla difficoltà di un discorso lirico in un momento drammatico come quello della guerra : « discorrere d’alberi è quasi un delitto,/ perché su troppe stragi comporta silenzio! ». La mostra sembra rispondere proprio a questa sfida. In un tempo nel quale la catastrofe è sempre testimoniata da milioni di utenti in tempo reale, essa esprime un dialogo proficuo tra la riflessione sul vivere fra gli schermi oggi e un discorso lirico, in particolare nel lavoro di Laurent Mulot, nel minimalismo delle serie fotografiche “Merge” di Thaïva Ouaki — che ci propone immagini di schermi sospesi nel “mare innevato” dell’indecisione connettiva — e, appunto, nella poesia visiva di Marta Nijhuis, che proprio di quegli alberi evocati da Brecht sembra discorrere.
Marta Nijhuis, Tableaux-écrans//L’écran positif-négatif, 2017, visione d’insieme
Il suo lavoro consiste in una grande installazione di luci, ombre e riflessi colorati che immerge lo spettatore in un universo pre-cinematografico richiamando a un tempo il teatro delle ombre e gli scenari fantastici delle lanterne magiche di proustiana memoria. Nijhuis affigge al muro della galleria la grande silouhette di un albero: un’ombra d’albero senza albero; un’ombra di Peter Pan, che se ne va in giro sola, seminando per dispetto il suo proprietario. Dinanzi alla silouhette, l’artista pone una scultura realizzata incastrando fra loro venti pannelli trasparenti in plexiglass, ciascuno dipinto con inchiostri dai colori vivaci che delineano forme arborescenti. Una coppia di luci opportunamente orientate attraversa e proietta tali disegni sul muro retrostante, andando a far interagire i reticoli rizomatici dipinti sulla scultura — quasi un cristallo composito, un prisma caleidoscopico — con la silouette in carta affissa al muro, in un gioco di riflessi infinito, colorato, avvolgente che seduce il nostro sguardo chiamandoci a esserne parte. Con quest’opera Nijhuis dialoga con l’intuizione di Carbone cui accennavamo più sopra, ossia che per ogni immagine proiettata si diano uno schermo positivo ed uno schermo negativo. La scultura di Nijhuis è di fatto un oggetto che al tempo stesso svolge la funzione di schermo positivo e negativo, di cui il titolo dell’installazione: Tableaux-écrans. L’écran positif-negatif (Quadri-schermo. Lo schermo positivo-negativo). Questa installazione ci sorprende seducendoci dal primo ingresso nella galleria e ci invita ad attraversarla creando un secondo effetto di sorpresa: il visitatore stesso si fa schermo positivo-negativo aggirandosi nello spazio dell’installazione, giacché il suo corpo si fa schermo delle luci e dei disegni della scultura mentre scherma la luce che lo investe, proiettando così sul muro retrostante la propria ombra in movimento.
Il 12 ottobre, in occasione del finissage della mostra, l’installazione di Marta Nijhuis è stata animata da una performance che completa la visione sinestetica evocata dalle ombre, il cui titolo richiama direttamente le parole di Carbone: « L’ombre comme proto-image, le corps comme proto-écran ». Per Carbone, infatti, l’ombra è la fase inaugurale di una riflessione sullo schermo, giacché si tratta di “riflettere sulla caratterizzazione dell’ombra come proto-immagine per inferirne quella del corpo come proto-schermo, che si collega ovviamente al tema del corpo quale proto-medium”.
Nijhuis ha coordinato un’improvvisazione di danza e di paesaggi sonori realizzata dalla ballerina lionese Sarah Lefevbre e dal musicista Le Jacobin. Avvolta in una tuta bianca, quale un abito-schermo mobile, fatto di muscoli e respiri sul quale le proiezioni dell’installazione si stagliavano, la ballerina ha dispiegato le braccia in lenti moti voluttuosi sui suoni ellittici disegnati dal musicista. L’ombra danzante ha trasportato il corpo nell’immagine, un immagine a sua volta in movimento, in una poesia che sovverte la relazione tra sensibile e intellegibile e pensa la condizione dei nostri schermi nel paradigma di una sensibilità originaria — un “originario in perenne esplosione”, direbbe Maurice Merleau-Ponty — enigma del rapporto tra gli uomini, nonché tra gli uomini e la natura. E la forza poetica nel lavoro di Nijhuis diventa sovversiva quando interessa un mondo di realtà storiche e politiche che, nell’immaginario degli schermi, trova i segnali della propria crisi e della propria rinascita possibile, possibile come un gioco di ombre fra gli alberi.
L’edificio teoretico elaborato da Mauro Carbone, nella visione degli artisti in mostra, dispiega per noi i molteplici poteri degli schermi, poteri destinati ad esprimersi storicamente in modi e contesti diversi, poteri che si estendono dal voyeurismo dei nostri dispositivi di sorveglianza alle infinite risorse del nostro immaginario, capaci di materializzare, o meglio, rendere visibili, quei sogni, desideri e paure che da tempo immemore popolano il nostro sentire collettivo e individuale.
Marta Nijhuis, L’ombre comme proto-image, le corps comme proto-écran,
performance con S. Lefevbre (ballerina) e Le Jacobin (musicista)