Una recensione a “La fabbrica. Memoria e narrazione nella Taranto (post)industriale” di Marta Vignola, edito da Meltemi.
La fabbrica è un ulteriore tassello di quell’esercizio critico sulla storia dell’industrializzazione del Mezzogiorno condotto da un numero ormai cospicuo di sociologi, storici e antropologi collocati prevalentemente a Sud. È un’opera, dunque, che ripropone l’esigenza condivisa – insieme biografica e generazionale – di rilettura di vicende, categorie e ideologie pubbliche che stanno all’origine della fisionomia peculiarmente martoriata assunta da certi territori a partire soprattutto dal dopoguerra.
Questo libro fa dunque parte di una serie di scritti che certificano, se non la morte, lo stato comatoso di una certa maniera di immaginare la modernità, lo sviluppo e il lavoro. Oppure, se si preferisce, il volume in questione è un pezzo che si aggiunge alle riflessioni sin qui prodotte sulla “transizione” nel nostro Paese: narrazioni di un lento passaggio di testimone tra economie e forme di organizzazione che, però, non si compie mai davvero e viene anzi sempre rinviato. Verosimilmente perché non vi è nessuno e nulla a cui consegnare il futuro.
Ma va anche detto che La Fabbrica – così come Il silenzio della polvere a cura di Antonello Petrillo o Amianto di Alberto Prunetti, per citare solo un paio dei più recenti volumi sul tema della deindustrializzazione – è anche la storia di un disastro, lì ove – sbagliando – ci siamo abituati ad assegnare a questo termine una valenza temporale che si esplica nell’immediatezza e nella tangibilità degli effetti di un evento indesiderato. Il volume di Marta Vignola – così come gli altri appena menzionati – ci pone invece dinanzi al tempo lento che ha scandito il compiersi di eventi catastrofici immani, in quella Taranto posta al centro dello studio dell’autrice così come a Gela, Avellino, Piombino o Casale Monferrato. Eventi lenti che, per la persistenza degli effetti ambientali e sanitari connessi, potranno in alcuni casi ipotecare il futuro di almeno un paio di generazioni di residenti, esposti a riscritture del proprio Dna e destinati dunque a tramandare nel tempo le alterazioni a cui sono stati sottoposti. Il libro appare perciò come un ulteriore tassello anche nella prospettiva di quella nuova scienza sociale italiana dei disastri a cui, sempre sul focus Sismografie, si è fatto riferimento nelle settimane precedenti, a partire dalla discussione del recente volume di Irene Falconieri – Smottamenti – dedicato alle tragiche frane di Giampilieri e Scaletta Zanclea.
Tornando così a La Fabbrica, al centro del volume dell’autrice pugliese sta quella Taranto sospesa, sin dai primi del Novecento, tra “guerra e pace”: tra cantieri navali, arsenali della marina militare e, naturalmente, acciaierie. Quella Taranto, insomma, “sequestrata” per circa un secolo da quelli che potremmo chiamare i superiori interessi dello Stato: per l’appunto la difesa, la produzione di un materiale fondamentale tanto ai fini bellici quanto civili e, infine, l’imperativo dell’industrializzazione forzata delle aree sottosviluppate.
Quella della città pugliese, in altri termini, è la storia di un’“area di sacrificio nazionale”, per dirla con Naomi Klein. O, altrimenti, la storia di una città che si troverà al centro di una serie di “progetti” pubblici ispirati da esigenze contingenti legate al fabbisogno industriale nazionale, oppure da grandi teorizzazioni relative alla crescita economica. Come quella dei “poli di sviluppo” di Perroux, incentrata sul principio del “trascinamento”, in ragione del quale la concentrazione di ingenti investimenti industriali in aree depresse genererà, pressoché automaticamente, l’ampio sviluppo di imprese satelliti e, dunque, la diffusione di nuovi investimenti e la ridistribuzione sociale degli utili.
Vignola, insomma, scava in un secolo di investimenti, retoriche e conseguenti riscritture del territorio. La storia economica dei luoghi – sostanzialmente fatta dalla Marina Militare, dall’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri) e, infine, dall’Ilva della famiglia Riva – diventa così anche la storia dei quartieri e del territorio tarantino. Un territorio di volta in volta espropriato (per fini militari e di sicurezza, oppure produttivi), “scosso” (al fine di ridisegnare le demografie dei quartieri) e “riconnesso” (secondo logiche imperscrutabili, utili forse alla produzione ma non certo alla vita). E, naturalmente, inquinato oltre misura, nelle acque, nei suoli e nell’aria.
La fabbrica è così la storia soprattutto della “naturalizzazione” della polvere – quella dell’acciaieria, presenza “materna” in grado di occupare, negli anni della massima espansione, sino a 30.000 persone – e del suo rigetto. Si tratta dunque di una elaborata trama che, negli anni di costituzione di un nuovo patto sociale guidato dallo Stato democristiano o consociativo, vede dapprima l’inclusione di ingenti masse di ex contadini nella classe operaia, nella società dei consumi e nel progetto di una mobilità sociale diffusa. E, successivamente, con l’allentarsi della responsabilità pubblica e la privatizzazione della principale impresa cittadina (l’acciaieria), l’emersione dei termini in nota di quello stesso contratto, fondato essenzialmente sullo scambio tra salario e salute. Uno scambio compreso tardivamente, a distanza di decenni, allorché la “lentezza” a cui ho fatto riferimento poco sopra mostra con icastica chiarezza sia la gravità dei livelli epidemiologici sia la fragilità delle basi economiche su cui si reggeva quel modello di sviluppo ricercato dalle élite e dalle tecnocrazie nazionali e locali.
Il resto è, per così dire, una storia di aporie e poetiche del disincanto: la disperata determinazione a non fare andare via l’industria così come il rigetto delle nuove generazioni nei confronti del lavoro industriale e la delusione per la miopia dei padri. Oppure la ricerca di responsabilità per il disastro compiuto – rese comunque vane dalla vecchia legislazione in materia ambientale così come dai meccanismi della prescrizione – e l’impossibilità di trovare alternative minimamente convincenti. Una città in guerra – come nota Vignola – innanzitutto con sé stessa.
Dal punto di vista metodologico, il libro interseca efficacemente analisi storiografica e sociologica, fondate tanto su letteratura secondaria che su fonti giudiziarie, e testimonianze dirette, virando per lo meno a tratti in direzione della storia orale. Per quanto manchino in realtà tanto una dettagliata discussione teorica sul metodo quanto riferimento ad autori – in primis Alessandro Portelli – che hanno proficuamente impiegato questo metodo nell’indagine di spazi, come per esempio Terni, affini alla vicenda tarantina per temi e traiettorie. Allo stesso modo il testo rimane, per così dire, “concentrato sul caso”, rinunciando in tale maniera a qualsiasi comparazione diretta con vicende analoghe svoltesi anch’esse nel Meridione d’Italia (Gela o Augusta; peraltro anche quest’ultima caratterizzata dalla compresenza di basi militari e industriali). E, in realtà, attinge pochissimo anche dalla letteratura internazionale sui disastri – da Anthony Oliver-Smith a Ben Wisner, passando per Thomas Beamish o Javier Auyero, giusto per menzionare alcuni autori la cui ricerca appare particolarmente pertinente coi temi dello studio. Tuttavia, malgrado questo “isolazionismo teorico”, il libro sembra funzionare ugualmente molto bene. Ed è, pertanto, assolutamente consigliato.