A maggio 2016 Cose d’Africa ha pubblicato, con la collaborazione di Savana Culture, Conchiglie, la raccolta poetica del giovane Abdel Kader Konate a cura di Pap Kan.
Cose d’Africa è una piccola casa editrice che da molto tempo si occupa, con grande intelligenza, di diffondere in Italia la cultura letteraria africana: si concentra in particolare sul tentativo di identificare una tradizione continentale, assieme a un discorso nero sovranazionale e contemporaneo; alla ricerca cioè del dialogo con l’altro, dopo avere conferito una linearità e una legittimazione alla propria storia culturale.
Della biografia del poeta senegalese Abdel Kader Konate non si sa quasi nulla, se non che è un «novello Ulisse, in viaggio per il mondo, da cui si fa penetrare per impadronirsi della sua essenza, anela alle sue origini e pensa ad Itaca, alle sue spiagge, ai suoi odori e sapori, facendosi travolgere e sommergere dalla nostalgia che non è un ricordo doloroso, ma una esperienza vitale e feconda» come scrive Carla Ricci in apertura.
Ma una testimonianza più fedele di questo spaesamento ce la fornisce lo stesso Abdel nella poesia Finestra nel nulla:
[…] Il mio sguardo, alla fine, si schiarì lentamente
con le onde del mare che nelle mie orecchie sbattono
e il mio risveglio si fece come la mia nascita
con l’unica differenza delle mie lacrime
essiccate dal vento, unico preoccupato della mia esistenza.
Abdel Konate si trova in quella particolare doppia assenza del migrante individuata dalla recente critica postcoloniale (Abdelmalek Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato): quella di chi lascia la propria casa per una terra nuova, ma che una volta arrivato si ritrova senza una precisa identità presente e nella condizione di perdere l’identità di partenza; con la necessità cioè di appartenere a un gruppo sociale, che si scontra con l’impossibilità di partecipare ancora alla cultura di provenienza e con la mancata integrazione di quella di arrivo. Konate si trova allora di fronte all’ibridismo della propria personalità, fino a subire come conseguenza diretta uno sradicamento dalla cultura di origine. Arriva anzi a domandare alla stessa Africa se potrà mai perdonargli di essere partito: «Mi vedi come un tuo figlio legittimo / oppure come uno straniero venuto con delle rime?» (da Madre Terra).
Allo stesso tempo, però, si affaccia positivamente (e improvvisamente) la possibilità di comunicare con una cultura diversa. A questo punto sorge il problema del linguaggio: non della lingua parlata, ma del rapporto tra significato e significante. Nel poeta si manifesta cioè una particolare sensazione, un sentire personale che riesce a travalicare il segno linguistico e che esiste quindi proprio perché sentito, ma che la poesia non riesce tuttavia a trasformare in una forma decodificabile linguisticamente:
[…] Non so come dirtelo
so solo che mi affascini
in una lingua che non si può tradurre
in un verbo di cui adoro la radice
(da Fiore d’Oriente).
La raccolta si trasforma subito in una ricerca più ampia: se esiste una lingua di base che partecipa nella e alla formazione del pensiero, è necessario che la globalità rintracci una forma di comunicazione ulteriore e comune: la facoltà stessa del linguaggio. Konate si rivolge cioè al passato, perché come sosteneva Senghor, il teorico principale assieme ad Aimé Césaire del movimento di emancipazione negra nella Francia coloniale, se l’Africa è la culla dell’umanità tutta, la poetica africana sarebbe in grado di risalire per via diretta a ciò che precede la formazione del linguaggio: l’immagine. Durante il discorso in occasione del conferimento del titolo di presidente dell’Académie française, Senghor aggiunge: «Pensate che proprio in Africa, circa due milioni di anni fa, sono cominciati ad apparire gli australopitechi (o preominidi o paraominidi, come dicono altri). L’ambiente era dunque favorevole. […] Là si è intessuta allora, fra gli uomini, gli animali e le piante, ossia fra gli elementi della natura, tutta una rete di legami e di corrispondenze che dormono nel fondo della nostra memoria in immagini archetipe» (Leopold Senghor, 1983). Konate scrive allo stesso modo in Illuminazione:
[…] nell’interiore bellezza dell’universo in canto
dove l’esteriore è la forza di una minoranza,
nella sofferenza nascosta della società nei loro discorsi.
Il saggio come il giudice
aveva lo stesso linguaggio alla mia età.
A partire da questa origine comune, l’immaginario poetico africano sembrerebbe agire quindi non sul rapporto formale tra significato e significante, ma sul tentativo di sostituire il significante linguistico con una ritmicità che, coinvolgendo l’intero organismo poetico come corpo musicabile e non come insieme di significati, partecipi extra-linguisticamente alla formazione dell’immagine: «Il negro ha i sensi aperti a tutti i contatti, alle più lievi sollecitazioni. “Sente” prima di vedere e reagisce immediatamente al contatto con l’oggetto, e cioè alle onde che esso emette dall’invisibile. E attraverso questa potenza di emozione egli prende conoscenza dell’oggetto. Qualcuno mi ha rimproverato di aver definito l’emozione come negra e la ragione come ellenica, cioè europea. Ed io mantengo fermamente questa mia tesi. Il fatto è che il bianco tiene l’oggetto a distanza. […] Il negro-africano intuisce l’oggetto ancor prima di sentirlo, ne assimila le onde invisibili e i contorni; poi, in un atto d’amore, lo incorpora a sé per conoscerlo profondamente».
Se ogni essere emette «dall’invisibile» in direzione dell’altro il proprio sistema di «onde», come sostiene Senghor, cioè la propria energia vitale, o una pulsione partecipativa verso l’esistere, allora l’unico modo di catturarlo linguisticamente è attraverso il ritmo: non esiste una decodificazione, ma il totale abbandono alla percussione del verso per lavorare alla formazione dell’immagine.
Bisognerebbe a questo proposito insistere sull’influenza che la «visione negra» ha pure avuto nella teorizzazione di una diversa poetica occidentale. Se si pensa infatti all’ultima grande avanguardia americana, la Beat Generation, si dovrà notare che, accanto alla mediazione della scrittura in prosa di Joyce o di Céline, siamo di fronte a una penetrazione del mondo molto simile a quella africana. Kerouac per esempio, in apertura alla raccolta poetica Mexico City Blues, (1959), scrive: «Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio». Una poesia che non imita il mondo, ma la musica, e in particolare il jazz, per comprendere quello stesso mondo: in sostanza, la Beat Generation ereditava la teoria nera del ritmo, filtrata in America dalla modernità del jazz, come strumento di conoscenza e insieme di liberazione della coscienza.
Anche Konate si pone all’interno di questo discorso. Accanto al tentativo di dialogo con la poesia occidentale però, il curatore Pap Kan sente l’esigenza di operare allo stesso tempo sulla costruzione di una tradizione poetica esclusivamente africana. Il titolo della raccolta significa infatti anche questo: «In Africa le conchiglie, grazie alla loro capacità di viaggiare nelle acque, di invecchiare e di rinnovarsi, vengono periodicamente interrogate, osservate e, come le poesie, lette». Se la conchiglia è metafora anzitutto di tradizione orale e locale, bisogna cercare di identificare una tradizione poetica continentale a posteriori, perché come dicevamo anche in apertura, benché esista una particolare influenza della poesia nera su una parte di quella occidentale, e viceversa, la prima deve anzi tutto identificarsi diacronicamente, per porsi poi in un dialogo sincronico con l’altro: senza la presenza di una accademia che di volta in volta sintetizzasse l’evolversi del fare poetico, la critica africana si trova oggi a dover ricostruire per intero la propria storia letteraria – e bisogna dire che il lavoro è a buon punto.
Ecco che accanto a Abdel Konate, Pap Kan inserisce quindi anche le poesie di Senghor, Nelson Mandela, Malick Fall, José Craveirinha, David Diop, Birago Diop e altri ancora. Conchiglie si trasforma così in una piccola antologia poetica che dialoga con il passato e con il presente, con l’Africa e con l’Europa, nella ricerca ancora attuale di quelle immagini archetipe che risalgono all’essere uomo:
Ma ho paura
ho sempre avuto paura
quella del bene e del male della guerra
e di cui chiedo a volte una possibilità
una sola richiesta
solo una volta per favore
vivere un giorno senza di lei, la morte.
(da La mia paura).