Corpi differentemente razzializzati

Una recensione a Cultura, razza, potere, di Stuart Hall, introduzione e cura di Miguel Mellino, Verona, Ombre Corte, 2015

Nell’ottobre 2014 alcuni scienziati e ricercatori italiani appartenenti al “Gruppo 2003”, attraverso il loro portale “Scienza in rete”, hanno lanciato la proposta di eliminare la parola ‘razza’ dalla Costituzione Italiana e dagli atti ufficiali della Repubblica, con la motivazione che il concetto è ormai considerato di nessuna validità scientifica per quanto riguarda la specie homo sapiens; sollecitazione che riecheggia, forse inavvertitamente, una posizione a lungo sostenuta nell’ambito degli studi culturali da ben prima che Stuart Hall, in una famosa lezione del 1997 (Race: the Floating Signifier), affermasse citando Anthony Appiah che “è arrivato il momento per il concetto biologico di razza di scomparire senza lasciare traccia”. Tuttavia, la lezione del padre degli studi culturali (per quanto egli abbia sempre rifiutato questa definizione) mostra anche che questa consapevolezza non riduce ma anzi amplifica la centralità della razza come ‘significante fluido’ nelle politiche del potere contemporaneo: perché, prosegue Hall, se la razza è un linguaggio attraverso cui si interpreta il mondo, questo atto interpretativo ha avuto e continua ad avere conseguenze devastanti sulla materialità dei corpi differentemente razzializzati.

Il pensiero che Hall ha tracciato nei decenni sulla razza, disseminato generosamente tra conferenze, articoli e miscellanee, trova oggi una introduzione per lettrici e lettori italiani nel volume Cultura, razza e potere, grazie al nuovo sforzo curatoriale di Miguel Mellino (qui un estratto apparso su Alfabeta2). La raccolta ripropone il dialogo tra Mellino e Hall già pubblicato in La cultura e il potere, innestando però tra i due termini del titolo precedente la razza come perno metodologico per indagare i complessi rapporti tra cultura, economia e politica. È una sfida su più fronti, quella di Mellino, di ripubblicare integralmente l’intervista contenuta nel precedente volume pubblicato nel 2007, insieme a due fondamentali saggi precedentemente inclusi in Il soggetto e la differenza e ad altri due saggi dalla traduzione inedita. Si tratta infatti di una scelta editoriale che rende merito all’impegno che la casa editrice Meltemi ha portato avanti per la diffusione degli studi culturali in Italia fino alla sua definitiva chiusura nel 2010. Questa raccolta però non si limita al rimettere in disponibilità testi ormai difficili da reperire, perché si pone l’obiettivo anche e soprattutto di rimettere in circolo il pensiero di Hall, a poco più di un anno dalla sua morte, per interrogarlo sul tempo presente o meglio, come scrive Mellino nell’introduzione, per “ripensare razza, razzismo e antirazzismo nell’attuale contesto postcoloniale europeo a partire dall’approccio degli studi culturali” (p. 7).

Il volume mostra la necessità di indagare la razza come dispositivo di conoscenza con radici profonde e funzionalità diverse nelle strutture di potere del neocapitalismo contemporaneo, e fa emergere la complessità dell’intreccio tra economia e cultura che ha caratterizzato il costante ‘teorizzare’ di Hall rispetto alle formazioni sociali razzializzate. A questo scopo, la raccolta affianca saggi scritti in momenti e con intenti diversi per far emergere le molte sfaccettature di questo nucleo tematico attraverso un complesso gioco di riecheggiamenti e rimandi: così, ad esempio, troviamo qui il saggio su “L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità” (che ne Il soggetto e la differenza era collocato in una sezione su postfordismo e tatcherismo) incuneato tra l’inedito contributo sulle società strutturate a dominante e il noto “Identità culturale e diaspora” (nel precedente volume collocato nella sezione “Globalizzazione e differenza”), trascinandoci in una lettura affiancata che mostra in trasparenza il ruolo della razza come dispositivo socio-culturale nella definizione dei rapporti di potere, nodo centrale che unisce struttura e sovrastruttura, rapporti economici e strutture del sapere.

Il saggio “Razza, articolazione e società strutturate a dominante” affronta infatti di petto, in apertura della seconda sezione, la vexata quaestio se venga prima l’economia o la cultura, ossia se, una volta determinata l’inammissibilità scientifica del concetto, la razza vada considerata come prodotta dalle strutture economiche per definire forme di lavoro subalterno, per essere solo in seguito sostenuta da un immaginario che definisce le relazioni gerarchiche tra diverse ‘razze’; o se viceversa si tratti di una formazione principalmente ideologica che solo in un secondo momento riverberi nei rapporti di produzione della ricchezza. La posizione di Hall in merito, sostenuta da un’argomentazione rigorosa che offre l’occasione per ripercorrere contributi fondamentali come quelli di Rex, Wolpe, Laclau e Althusser, è per l’interdipendenza profonda di questi due momenti, che devono diventare parte di un unico sforzo di teorizzazione. Se da una parte infatti “non possiamo dedurre a priori i rapporti e i meccanismi delle strutture politiche e ideologiche (in cui fenomeni come il razzismo ricompaiono in modo decisivo) esclusivamente dal livello della sfera economica” (p. 104), dall’altra “non abbiamo ancora un’adeguata teoria del razzismo in grado di affrontare le caratteristiche economiche e sovrastrutturali di tali società e di fornire, allo stesso tempo, un resoconto storicamente concreto e sociologicamente specifico dei diversi aspetti razziali” (p. 114).

I tentativi verso questa “teoria del razzismo e delle società razzialmente strutturate”, che chiudono il saggio, ci accompagnano quasi inevitabilmente verso Gramsci: già menzionato in precedenza per il suo contributo alla ‘svolta althusseriana’ verso una maggiore integrazione tra le condizioni economiche e il livello ideologico dell’elaborazione sociale, il filosofo italiano emerge nel saggio successivo come un punto di riferimento centrale per la riflessione di Hall e degli studi culturali sulla razza. E questo nonostante Hall metta in chiaro da principio che “Gramsci non ha scritto di razza, di etnicità o di razzismo nei loro significati o manifestazioni contemporanee. Né ha analizzato in profondità l’esperienza coloniale o l’imperialismo, da cui sono emerse la maggiore parte delle esperienze e relazioni tipicamente ‘razziste’ del mondo moderno” (p. 131). Nelle mani di Hall, il pensiero di Gramsci diventa però uno strumento, un utensile della ‘scatola degli attrezzi’ di foucaultiana memoria, che permette di leggere l’intreccio tra struttura e sovrastruttura, produzione economica e culturale, in maniera interdipendente, così che appaia evidente come per smontare la prima sia necessario scardinare allo stesso tempo la seconda.

Il saggio su Gramsci è del 1986, ma lo stesso tema riemerge vent’anni dopo, nell’intervista qui riproposta nella prima parte del volume, dove Hall ribadisce l’estraneità del filosofo sardo ad una teorizzazione diretta della razza ma allo stesso tempo ne rimarca l’imprescindibilità per una riflessione efficace sul nesso tra formazioni economiche e la produzione di soggetti culturalmente adatti a perpetuarle (p. 49). Risulta davvero stimolante rileggere questo dialogo nel contesto di questa raccolta: nella sua precedente collocazione solitaria in La cultura e il potere era già evidente la sua rilevanza per la chiarezza con cui espone il metodo degli studi culturali, smontando il pregiudizio secondo cui la nota ‘indisciplina’ di questo campo di studi equivalga alla mancanza di rigore metodologico; ma posto in apertura di questo volume ne emerge invece l’attualità rispetto al dibattito pubblico italiano ed europeo dove, come ha scritto Tatiana Petrovich Njegosh in Parlare di razza (altra raccolta edita da Ombre Corte), “molti stati europei (e non solo) sono impegnati non ad affrontare il fenomeno dell’immigrazione, ma a definirlo, e trattarlo, come problema, contribuendo così attivamente al razzismo e spostando l’attenzione dal vero problema (il razzismo stesso), al falso problema, l’immigrazione”. La stessa preoccupazione riecheggia nell’introduzione di Mellino, che sottolinea come le politiche europee che limitano la libertà di movimento di individui e popolazioni su base etnica siano le stesse che confinano il razzismo ad un passato di ideologie ormai fuori uso, sostenute in questo da un “antirazzismo ‘derazzializzato’ [che] finisce non solo per tradire un inconscio liberale (bianco, eurocentrico e coloniale), ma soprattutto per fraintendere i termini stessi di qualunque ricomposizione politica oggi in Europa”. (p. 9)

Davanti a questo paesaggio in cui anche le pratiche politiche più radicali sembrano depotenziate, ripercorrere il pensiero di Hall ci ricorda che il lavoro sulla cultura e sulla rappresentazione è imprescindibile per elaborare narrazioni e pratiche politiche sostenibili, perché “il capitalismo consumistico post-fordista deve necessariamente operare attraverso la cultura, deve rendere la cultura popolare di tutto il mondo sensibile ai suoi messaggi, deve produrre soggettività per immettere le persone nei propri circuiti, nelle proprie ‘strutture del sentire’” (p. 40). Nelle società razzialmente strutturate anche la produzione dell’identità di classe intesa in senso classicamente marxista passa attraverso la razza come dispositivo dominante in questa cooptazione dei soggetti, perché la soggettivazione su base razziale funziona “per l’intera classe, e quindi non soltanto per il suo segmento ‘razzialmente definito’” (p. 121): una conclusione pionieristica nel 1980 (anno di pubblicazione di “Razza, articolazione e società strutturate a dominante”) e ancora attuale in un contesto dove il dibattito sulla funzionalità della razza nella definizione dell’identità italiana – anche ma non solo rispetto all’eredità dell’impresa coloniale – sta vivendo un momento particolarmente fertile, testimoniato da raccolte come la summenzionata Parlare di razza a cura di Tatiana Petrovich Njegosh e Anna Scacchi, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, a cura di Cristina Lombardi-Diop e Gaia Giuliani (Le Monnier 2013) o L’Italia postcoloniale a cura di nuovo di Cristina Lombardi-Diop con Caterina Romeo (Le Monnier 2014).

Rispetto alla riflessione italiana il percorso di Hall indica indubbiamente una strada, non per riprodurre pedissequamente il progetto degli studi culturali di matrice anglosassone in Italia, ma perché offre appunto degli strumenti di analisi e la spinta inesauribile ad un ‘teorizzare’ che non si risolve mai in una teoria unica e onnicomprensiva. Ed è in questo senso che i saggi necessariamente non più ‘datati’ (che sarebbe un giudizio ingeneroso), ma certo quelli più storicamente collocati sono i due che chiudono la raccolta, che esemplificano il ruolo della cultura non solo nel sostenere, ma anche nel rovesciare l’egemonia razziale attraverso una nuova rappresentazione della blackness da parte di artisti neri britannici e statunitensi nella cinematografia e nelle arti visuali. “Identità culturale e diaspora”, originariamente uscito nel 1990, rappresenta tutt’ora un esempio magistrale di riflessione sul soggetto dell’identità culturale, in cui Hall mette in gioco la propria storia personale (“l’‘io’ che scrive queste pagine”, p. 161) per enunciare il situarsi del soggetto storico caraibico al crocevia di tre ‘presenze’ culturali e identitarie fondanti (quella africana, quella europea e quella americana). Attraverso le intuizioni di Fanon da una parte, e i lavori del fotografo Armet Francis sui tre poli del Triangolo Nero e l’archivio documentario Garvey’s Legacy di Tony Sewell dall’altra, Hall racconta le premesse del “variegato cinema nero moderno” (176): un panorama in continua espansione, che negli ultimi anni ha visto la presenza sempre più autorevole di cineasti neri da entrambi i lati dell’Atlantico, dallo Spike Lee che dopo l’exploit di Do the Right Thing (1989) è diventato una figura di riferimento nel panorama cinematografico globale, ai più recenti successi del britannico Steve McQueen e della statunitense Ava DuVernay – per non parlare dell’emergere sul mercato mondiale dell’industria cinematografica nigeriana e della sua diffusione lungo i sentieri della diaspora.

Ma se il cinema come genere (inter)nazional-popolare appare ancora pieno di contraddizioni rispetto alla questione razziale, le arti visuali mostrano ancora più chiaramente quanto la visione di Hall fosse lungimirante davanti ad un movimento che ha visto negli anni un’intensa espansione e una molteplicità di sperimentazioni. Come si evince dal saggio di chiusura “L’arte della Black Diaspora nel Regno Unito”, le arti visuali sono uno dei linguaggi artistici più cari a Hall, che le ha sostenute promuovendo nel 2007 l’apertura di Rivington Place (di cui parla anche nell’intervista iniziale). Qui ci offre una carrellata di artisti delle avanguardie nere del dopoguerra britannico – corredata da un ricco apparato fotografico in appendice – tra i quali spiccano nomi che sono ormai parte del panorama dell’arte contemporanea, da Keith Piper a Mona Hatoum e Isaac Julien. Ed è proprio l’ultima opera di questo artista, ormai consacrato da personali in sedi prestigiose come il Centre Pompidou di Parigi e il MOMA di New York, che sembra rispondere a alle pagine conclusive di questa raccolta, proseguendone in qualche modo il percorso: Kapital, una video-istallazione su due schermi che racconta un recente scambio tra David Harvey e Stuart Hall, ma anche un ‘oratorio’ messo in scena alla Biennale di Venezia 2015, in cui l’opera di Marx verrà letta ad alta voce per i sette mesi della mostra. Un ritorno a Marx per ricordarci che la narrazione delle condizioni materiali di produzione è preoccupazione centrale di chiunque intenda occuparsi della rappresentazione socio-culturale dei rapporti di potere, inclusi quelli definiti dal ‘dispositivo’ della razza; e una messa in pratica dell’appello di Stuart Hall ad un continuo ‘teorizzare’, a “ridefinire costantemente i nostri concetti, smettere di pensare in un certo modo e cominciare a pensare in un altro, più adatto al proprio contesto” (p. 36).

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