Questa sera, alle ore 19:00, saremo ospiti dell’evento organizzato dalla Biosteria Sbarbacipolla, assieme a Mondomangione, Sonar live e Officina Solidale.
Una presentazione ed un concerto per tracciare la linea comune che unisce due libri: La meravigliosa vita di Jovica Jovic edito da Feltrinelli e scritto a quattro mani da Marco Rovelli e Moni Ovadia e Genuino clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere, un racconto ed un reportage fotografico edito da Terra Nuova Edizioni a cura di Michela Potito, Roberta Borghesi, Sara Casna e Michele Lapini. Due modi per raccontare pratiche e forme di esistenza in qualche modo periferiche ma che richiamano all’attenzione temi, valori e conflitti irrisolti al centro della nostra contemporaneità.
Di seguito la postfazione al libro Genuino clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti al tempo delle grandi opere
Dammi tre parole
Wu Ming 2
Ancor prima di leggere queste pagine, ho proposto di collocare le mie note in fondo al libro, perché sono convinto che un lavoro di questo genere non ha bisogno di un amico che lo presenti, ma di una comunità che lo discuta.
Non voglio far torto a chi ha scattato e scelto le fotografie, ma la mia riflessione avrà per oggetto le parole. Del resto, è proprio Mi.Mì Ro.Sa – l’autorial quartetto – a lanciare fin da subito una battaglia lessicale: parole contadine contro parole scippate, parole genuine contro parole intossicate, parole da evitare e parole da riscoprire.
La prima parola che vorrei masticare è un plurale femminile: pratiche. È un termine che nel libro ricorre spesso, con insistenza, soprattutto nelle sezioni di approfondimento, quasi a voler ancorare alla terra i pensieri più astratti. Gli etimologisti, che sono a volte assai pedanti, in questo caso ci danno qualche notizia gustosa: il termine risale a una radice *par, che indica il muoversi attraverso uno spazio, e che ritroviamo in esperienza, porta, poro, pericolo, così come nel greco peirao, tento, e di lì in pirata (cioè colui che attraversa i mari e tenta un assalto) e nel tedesco fahren, viaggiare. Una parola davvero azzeccata, per un viaggio che racconta le esperienze e i tentativi di un’agricoltura contadina e per certi versi pirata. Ma pratiche, al plurale, è anche una parola rivelatrice, fa parte del dialetto di una precisa tribù: al bar sotto casa è raro sentirla, e quando capita è perché si parla di burocrazia, le pratiche intese come i documenti che si devono presentare allo sportello taldeitali. Nel sito di un comune, di una cooperativa sociale o di un’associazione, puoi forse imbatterti nel concetto di “buone pratiche”, ma è solo se partecipi all’assemblea di un centro sociale, di uno spazio occupato o di un collettivo universitario, che sentirai ripetere più volte: “condividiamo le pratiche”, “pratiche di riappropriazione”, “tutti uniti, ma ognuno con le sue pratiche” eccetera.
Si sa che le parole, come le verità, corrono il rischio di logorarsi, specie quando diventano tappabuchi, ma la parola pratiche, in questo libro, è davvero la spezia che dà sapore al piatto. In mille occasioni abbiamo sentito evocare il sogno di un rapporto diverso tra città e campagna, tra uomo e natura, tra agricoltura e terra, tra paesaggio e comunità. E in mille occasioni ci siamo lasciati andare al cinismo, alla disillusione, all’ironia. Abbiamo fatto il verso ai sogni imitando la voce di Carlo Verdone in Un Sacco Bello: «Cioè allora, mentre le ragazze provvedono alla raccolta dei frutti naturali della terra, tipo carciofi, insalata, ravanelli, piselli – tutta roba vegetariana un sacco buona, no? – noi ragazzi provvediamo alla dimensione artigianale…». Come tanti Homer Simpson ci siamo ripetuti che “tentare è il primo passo verso il fallimento” e abbiamo mitragliato di pregiudizi chiunque provasse a sporgere la testa dalle trincee dell’abitudine. Abbiamo avvelenato le utopie, affinché invece di spronarci verso l’orizzonte, ci permettessero di restare dietro una tastiera. Massicce dosi di complottismo, repressione, vittimismo e speranza ci hanno reso incapaci di dare fiducia a un progetto: stai a chiappe strette, pensa per te, fatti i cazzi tuoi. Un antidoto efficace contro questa vaccinazione di massa sono appunto le pratiche, al plurale, cioè i diversi modi di trasformare in vita le idee che hai sdegnato e deriso.
Qualcuno pensa che le pratiche siano talmente efficaci da non aver bisogno di altro. “Fatti, non pugnette!”. “L’esempio è contagioso, il passaparola premia i virtuosi”. È una convinzione che, mi pare, ci arriva anche dal cristianesimo: il Vangelo insegna a non mettersi in mostra, a digiunare senza darlo a vedere, a pregare nel segreto, “e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Tempo fa mi è capitato di curare un libretto scritto da decine di attivisti contro le Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte. Durante una lunga discussione sul senso di una frase, uno dei partecipanti ha provato a tagliar corto dicendomi: “sai, in fondo a me interessa più la militanza della letteratura”. Io gli ho risposto con una citazione di William Morris, che compare in calce a tutte le e-pistole del mio socio Wu Ming 4: «Ci ho messo molti anni a capire che spesso le parole sono importanti quanto l’esperienza. Perché alla fine sono le parole che fanno l’esperienza». Ecco perché sono pienamente d’accordo con l‘assunto che sta alla base di questo libro: le pratiche vanno raccontate. Il cibo va raccontato. E infatti raccontare è la seconda parola che vorrei mettere a fuoco.
Anche in questo caso, il rischio di logoramento è piuttosto forte. Tutti raccontano e tutti vogliono che ci raccontiamo: da Facebook a Enel ai giudici di un tribunale. Ma ancora più pericoloso è il rischio del rifiuto: smettere di raccontare perché troppi lo fanno, compresi i guru del marketing e gli spin doctor della politica. Sarebbe come smettere di dire «Ti amo» perché quell’espressione compare in decine di soap opera, romanzi rosa e citazioni da Baci Perugina. Chissenefrega, io ti amo lo stesso. Anche raccontare, in fondo, è una pratica. E come per tutte le pratiche, la differenza sta in come lo si fa, perché lo si fa.
Partiamo dal come. Questo è, per sua stessa natura, un libro polifonico. Quattro autori, con diverse competenze. Due linguaggi, il testo e la fotografia. Dieci piccole realtà contadine che testimoniano le proprie scelte di lavoro e di vita. Approfondimenti che citano testi a loro volta collettivi, libri di altri autori, documenti, pagine in Rete. La propaganda, il racconto pubblicitario parlano invece con una sola voce. Oppure fingono di usare altre voci, ma in realtà cercano ventriloqui, teste diverse che proclamino lo stesso verbo. Ripulito, uniforme, senza contraddizioni. Ecco un’altra caratteristica che distingue questo libro da una brochure aziendale: Mi.Mì. Ro.Sa e i loro interlocutori non hanno nascosto i conflitti, le difficoltà, gli inciampi; ovvero l’uniforme che diventa molteplice, l’Uno che diventa Due. E poiché non esiste vera narrazione senza conflitto, il loro racconto è genuino, mentre il racconto pubblicitario è un simulacro.
I grandi marchi hanno scelto la via dello storytelling perché le storie nutrono l’immedesimazione, il senso di appartenenza, l’emotività. Sono un collante sociale e dunque possono appiccicare tra loro i consumatori e tenerli attaccati a un prodotto. I grandi marchi lanciano concorsi, forum e hashtag nel disperato tentativo di creare community. È il racconto che inventa l’esperienza, lo spettacolo che plasma la società. Tutto il contrario accade quando già esiste una comunità, come quella che parla in queste pagine. Allora è l’esperienza che dà voce alle parole di cui è fatta. L’esperienza che si fa conoscenza attraverso il racconto. Perché la narrazione è una mappa per comprendere il mondo: una mappa che si infila tra l’universale e il particolare, tra la teoria e il singolo esempio, tra uno e molti, tra comprendere e agire. Infatti, non si può raccontare senza dettagli, ma i dettagli di un racconto innescano l’astrazione. Il narratore mi parla di Don Abbondio e dei bravi di Don Rodrigo, e io, aldilà di quei personaggi, ma grazie a loro, ragiono di prepotenza, sbirraglia, servitù volontaria e codardia. Per questo la narrazione ci viene in soccorso quando non vogliamo “fare della teoria” – sterminando così molte differenze, – ma non vogliamo nemmeno “limitarci ai fatti” – recidendo i fili che danno un senso agli eventi.
Raccontare, dunque, per conoscere, e non solo per farsi conoscere. Per allargare una comunità che già esiste. Per evitare di eleggere la propria marginalità a garanzia di pensiero radicale. Raccontare per contare, cioè per censire, ma anche per conquistare autorevolezza. Per capire quali pratiche contano e quali invece non sono importanti. Ci interessa sapere se un contadino, oltre a escludere i pesticidi di sintesi, esclude anche il razzismo, oppure quella è tutta un’altra storia? Raccontare, quindi, per mettersi in discussione e chiarirsi le idee.
Sotto questo aspetto, è chiaro che un libro, da solo, può far poco. Molto di più possono fare i racconti quotidiani, quelli che germogliano dalle relazioni, e dunque molto di più va fatto nei luoghi dove le persone si incontrano. Parlando di cibo, i primi luoghi dove agire sono i mercati. E parlando di mercati, un elemento chiave della narrazione è il prezzo.
Prezzo è la terza parola che mi piacerebbe assaggiare. Nel libro non compare spesso, eppure molte riflessioni le ruotano attorno, perché le pratiche non sarebbero tali, se non fossero anche praticabili sul piano economico. La sfida che qui viene raccontata, in un certo senso, consiste proprio in questo: nel rendere praticabile l’agricoltura, senza passare da un abbattimento vizioso dei costi (sfruttamento della manodopera, della terra, degli animali; sofisticazioni alimentari, inquinamento ecc.) o da un innalzamento, altrettanto vizioso, dei prezzi (prodotti elitari, di lusso, scarsamente accessibili).
Eppure, fuori dagli ambiti dove pratiche è parola comune, quando parlo di CampiAperti, di Genuino Clandestino e dei loro mercati, una delle prime preoccupazioni riguarda proprio il portafogli. Nell’immaginario comune si tratta di luoghi costosi, non meno radical chic di Eataly o di Natura Sì. Ciò significa – al netto di quanti sparano su chiunque si muova – che questo aspetto va raccontato meglio, senza illudersi che il semplice esserci sia sufficiente per sviluppare conoscenza e relazioni: spesso al banco della frutta c’è la fila, chi compra va di fretta, chi vende non è bravo a raccontare o non lo ritiene importante… Invece il prezzo è già di per sé una comunicazione: molto più rapida e definitiva di qualsiasi altra. E in questo genere di comunicazione quantitativa, il supermercato ha la meglio: è il supermercato che fissa lo standard, il prezzo “campione” su cui misurare tutti gli altri. Per questo, alla comunicazione immediata e quantitativa del prezzo al dettaglio, bisogna accostare una comunicazione qualitativa, cioè un racconto. Altrimenti, come scrive Mario Tronti, l’uomo senza qualità diventa l’uomo della quantità.
Appartengo alla generazione che aveva una quindicina d’anni quando in Italia si cominciò a diffondere il commercio equo e solidale. All’inizio degli anni Novanta, a Bologna, non c’era nemmeno una bottega che vendesse quei prodotti: li ordinavo da un amico che li teneva in cantina e li distribuivo ai familiari. Tutto nacque dalla lettura di un libro, Lettera a un consumatore del Nord, del quale ricordo soprattutto una figura: c’era una banana tagliata in fette. A ogni fetta, corrispondeva una porzione del prezzo al minuto. Scoprii così che su 100 lire di quel che pagavo per una banana, solo 11 tornavano nei paesi produttori, e solo 1 o 2 finivano in tasca a chi davvero le aveva coltivate. Bastò quella pagina a farmi riconsiderare il concetto di “giusto prezzo”. Poi, crescendo, sono arrivati anche i dubbi, le perplessità su un atto di consumo con il quale ti compri anche il karma pulito, sulle ambiguità di una “riduzione del danno” applicata al capitalismo globale, su una medicina che prolunga la malattia, sulla Coop che fa la linea “Solidal” per il Sud del Mondo e poi sfrutta i facchini di Anzola Emilia…
Tuttavia, sono convinto che il “racconto della banana” possa colpire ancora, se giustamente integrato. Ho visto tabelle che confrontano i prodotti della Grande Distribuzione Organizzata con quelli a filiera corta: non solo rispetto al prezzo, ma anche all’inquinamento, al contenuto di vitamine, all’apporto nutritivo. Se compro un cibo che mi nutre meglio, di sicuro alla fine spendo meno. Uscendo da un mercato genuino e clandestino, mi piacerebbe mettere nella sporta, insieme a frutta e verdure, anche un po’ di queste tabelle, magari riferite al singolo produttore, per leggermele a casa con tutta calma. A queste, aggiungerei un elenco di possibili alternative alla compravendita tradizionale, quella con un prodotto e un prezzo. Grazie a questo libro, ho saputo che posso diventare socio di una cooperativa agricola, che coltiva terreni pubblici nella mia città, terreni che io stesso posso coltivare, decidendo insieme agli altri soci cosa piantare, e ricevendo poi ogni settimana una cassetta di ortaggi, senza che questa interazione passi attraverso un prezzo al chilo. Dopo tanto parlare di pratiche, ho deciso di agire anch’io: ho scritto a quella cooperativa per avere altre informazioni e ho scoperto, come capita spesso in una piccola città, di essere a un grado di separazione da chi mi ha risposto. Anzi, probabilmente ci eravamo già incrociati in un mercato di CampiAperti, o alla presentazione di un libro.
Ma senza questo, di libro, non ci saremmo incontrati davvero.
È indubbio che abbiamo bisogno di costruire relazioni, senza le quali nessun bene è davvero comune.
Ma abbiamo anche bisogno di storie, senza le quali le relazioni non mettono né radici, né ali.
© 2015 Wu Ming 2
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