Taccuino mantovano

Tweetglossario da Festivaletteratura 2015.

il lavoro culturale ha raccontato in diretta, attraverso Twitter, una parte degli eventi dell’ultima edizione di Festivaletteratura di Mantova. Quanto segue è un’elaborazione trasversale e per temi di quegli appunti, presi sotto forma dei tweet rivolti a chi non ha potuto essere presente agli eventi raccontati. Una parola chiave per ogni lettera dell’alfabeto, secondo la formula del Tweetglossario.

Accoglienza: Arrivavano notizie e si assimilavano quelle recenti. Arrivavano nuove immagini dei fuggitivi e dei migranti e si assimilavano quelle viste pochi giorni prima, come quella di Aylan, il bambino siriano affogato. Quello dell’accoglienza è un tema che ha attraversato tutta l’ultima edizione di Festivaletteratura. Se ne è parlato anche negli incontri dove meno ce lo si sarebbe potuti aspettare. Tariq Ramadan, professore a Oxford e controverso teologo e studioso d’Islamismo, e il filosofo e sociologo Edgar Morin sono coautori de Il pericolo delle idee (Erickson), un libro-dialogo. La loro conversazione mantovana ha preso avvio proprio dalle notizie sui fuggitivi siriani. Morin si è lanciato subito in un accorato quanto generale discorso sul bisogno di riconoscimento dell’umanità delle persone in questione. Ramadan, invece, ha scelto una riflessione di taglio più esplicitamente critico, prendendosela con l’ipocrisia dell’ondata emotiva suscitata dalla fotografia del bambino affogato. Ramadan ha poi accusato i Paesi arabi di non essersi ancora presi le necessarie responsabilità in termini di accoglienza delle vittime dell’assetto geopolitico mediorientale di questi tempi. E li ha accusati di non essersi mai preoccupati di intessere rapporti «sud-sud», mettendo in relazione i propri capitali solo con l’Occidente. Se il registro delle nostre reazioni sarà emotivo e non politico, ha detto, la battaglia è persa in partenza.

 

Biblioteca: Sull’incontro fra Carlo Ginzburg e Salvatore Settis a proposito del nuovo volume di Ginzburg Paura reverenza terrore (Adelphi), è volato costantemente uno spirito, a volte nominato e a volte no: quello di Aby Warburg. Pare che Warburg abbia avuto una delle sue prime e fondamentali epifanie sfogliando per caso un libro nella Biblioteca nazionale di Firenze. Citando questo episodio, Salvatore Settis ha letto con il suo ricorrente piglio polemico alcune righe da un articolo su «la Repubblica» di Tomaso Montanari a proposito della Biblioteca nazionale di Firenze: «Si informano i gentili utenti che, a causa della continua diminuzione di personale che non consente il regolare svolgimento del servizio, da lunedì 31 agosto 2015 fino all’arrivo dei giovani del Servizio Civile Regionale, previsto per il mese di ottobre, la distribuzione del materiale moderno a stampa sarà effettuata secondo il seguente orario […] Ci scusiamo per il disagio, causato indipendentemente dalla nostra volontà». Se Warburg alla Biblioteca nazionale, di Firenze come di altre città, ci fosse arrivato oggi, ha detto Settis, l’avrebbe trovata con pochissimo e poco competente personale o semplicemente chiusa.

 

Caso: Lo storico Carlo Ginzburg racconta di essere stato spesso criticato per affidarsi troppo, nel suo lavoro di ricerca, al caso. La conversazione fra lui e Salvatore Settis inizia con Ginzburg che pare rimproverarlo per avergli attribuito il ricorso a «piste improbabili». Ginzburg le rivendica e, soprattutto, non le ritiene improbabili. In un lavoro di ricerca, dice, il rischio più grande che si corre è di trovare quello che si sta cercando. Aprirsi al caso e a orizzonti inaspettati non è solo una questione di serendipity, ma un vero e proprio abito morale del lavoro di ricerca. Paura reverenza terrore raccoglie cinque saggi in cui Ginzburg azzarda ipotesi di accostamenti che, a una prima vista, appaiono casuali nel migliore dei casi e pretestuosi nel peggiore: «La morfologia prescinde dalla storia, dal tempo. È questo che mi affascina». Oltre a Warburg, mi è tornato in mente il notevole libro di Lawrence Weschler Everything that rises. A book of convergences, in cui i saggi si basano su accostamenti fra immagini come quelli di Paura reverenza terrore. Ha commentato Settis: «Difenderci dall’assedio d’immagini richiede di saperle smontare, ed è questo il fine del libro di Ginzburg».

 

Dissidenza: A Mantova, Tzvetan Todorov ha scelto di anticipare i contenuti di un libro in uscita in Francia sugli “insottomessi” (è il caso di forzare un po’ la traduzione di Insoumis). Racconta di essere interessato alle persone che vanno al di là quella che lui descrive come una divisione – piuttosto meccanica – fra la morale (privata) e la politica (pubblica). Tratta alcuni esempi. Non sono esempi perfetti, dice, ma ci mostrano comunque che c’è spazio per l’“insottomissione” anche per tutti noi. Cita per esempio Mandela, Malcom X, Snowden e, in particolare, Germaine Tillion, antropologa e resistente francese. Viene proprio da Tillion l’esergo del nuovo libro di Todorov: «Per me la resistenza è dire no, ma dire no è un’affermazione». Todorov cita anche la giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, presente anche lei a Festivaletteratura. È uno dei nomi più noti della dissidenza verso Putin. A Mantova racconta di aver conversato a non finire con i russi, e di aver presto capito che con loro ci sono due cose di cui non si può parlare: Putin e la religione. È come se in Russia esistesse un Putin collettivo. Ed è come se fosse stato il popolo stesso a creare Putin. Svetlana Aleksievič racconta di quando scese in piazza felice insieme a tanta gente per la perestrojka. anche Anna Politkovskaja fu ospite a Festivaletteratura, nove anni fa. Pochi mesi dopo, venne uccisa. Aleksievič scese di nuovo in piazza, ma dovette chiedersi dov’era finita stavolta tutta quella gente.

 

Esattezza: A Mantova c’era anche Maylis De Kerangal, autrice francese dei romanzi Nascita di un ponte e Riparare i viventi (Feltrinelli). Entrambi i libri sono costruiti come traiettorie: il primo racconta la costruzione di un ponte e delle vicende che vi si svolgono attorno; il secondo racconta le ventiquattro ore di un trapianto di cuore. De Kerangal ha confidato al pubblico mantovano di considerare la precisione un valore etico. Ma il rapporto con la documentazione rimane legato all’immaginario letterario, ha detto. Mira a un “materialismo incantato”. Sia l’edilizia dei ponti che i trapianti erano argomenti a lei ignoti, e nei due libri ha dovuto rivelare il percorso di conoscenza dei temi che racconta grazie alla lingua. Voleva entrare con esattezza nei linguaggi criptici della tecnica e della medicina e aprirli, eliminando le frontiere di potere rappresentate da quegli stessi linguaggi chiusi. Quello dell’esattezza è un tema da sempre caro anche a Michele Mari, che lo ha ripetuto anche nell’incontro con Chiara Valerio. Più ci si addentra nei campi dell’ossessione, dell’inconsulto e dell’immaginifico, ha detto Mari, più dobbiamo farci precisi.

 

Fuggitivi: «Fuggitivi»: è così che Edgar Morin decide di chiamare le persone al centro delle cronache di questi giorni. Ma non si è trattato di una conseguenza della sua scelta di parlare in italiano, nonostante la fantasia linguistica che questo gli richiede. Morin, infatti, ha rivendicato questa scelta dicendo che, in fondo, non ha molto senso chiamarli “rifugiati”, perché il rifugio ancora non l’hanno trovato. Inoltre, era previsto che, a Mantova, Carlo Lucarelli tenesse una conferenza su una storia dall’Eritrea coloniale. Invece, cominciato l’incontro, ha spiazzato tutti dicendo che avrebbe cambiato argomento, trattando dell’esodo di massa dei siriani e della foto del corpo del bambino Aylan, perché ne è rimasto turbato. Ha deciso di parlarne in relazione al suo lavoro sulla colonizzazione italiana dell’Eritrea: «Guardando al passato, noi italiani di oggi possiamo riconoscerci in quelli di ieri, perché in fondo non siamo mai cambiati. Adesso come allora, sull’altro riversiamo i nostri pregiudizi, ma anche i nostri desideri, e questo ci fa paura».

 

Guerra: Dice Svetlana Aleksievič che le idee sono come le persone: vivono periodi in cui crescono e periodi in cui declinano. Ha indagato questa dinamica rispetto al comunismo in Russia. La memoria è soggetta a manipolazioni, dice, e racconta che quando Putin arrivò al potere comparvero molti libri su Stalin, rivalutato come un grande manager vittorioso. La manipolazione della memoria può arrivare fino al punto di rendere immaginabile una guerra fra Russia e Ucraina: «Non avremmo mai potuto immaginare che russi e ucraini potessero uccidersi così».

 

Hajdari: Aggirarsi per le strade di Mantova in giorni in cui l’idea di Europa è di nuovo messa a dura prova dalla sventura dei migranti e dei fuggitivi (per riprendere il termine di Morin), significa anche poter imbattersi in uno dei più grandi poeti di oggi, l’albanese Gëzim Hajdari, che, sotto una tenda, legge di fronte al pubblico silenzioso e commosso una poesia di tale potenza:

 

Vado via Europa, vecchia puttana viziata.

 

I tuoi ruderi non mi incantano più,

i tuoi specchi e i tuoi abissi hanno ingannato il mio esilio,

ferito il mio mesto corpo dell’Est

davanti ai falsi altari impietriti.

 

Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua.

 

La mia patria mi ha costretto ad andare via,

i tuoi santi mi hanno abbandonato sotto la pioggia,

come straniero.

Domani, di buonora,

partirò con la prima nave del Tirreno,

dal porto del Circeo,

accompagnato dai canti mortali delle Sirene,

verso la Croce del Sud

senza voltarmi indietro.

 

Nei deserti lontani m’aspettano viandanti sconosciuti,

guerrieri di tribù antiche, danzatrici del ventre;

ruberò fanciulle dalle corti dei re di confini,

come Halìl di Jutbìna delle Bjeshkëve të Nëmuna ,

per donarle in sposa al mio signore

e dare vita ad una nuova stirpe.

 

Incendierò le vecchie lingue arrugginite,

mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne;

voglio trascorrere i miei anni in prigione,

lontano dai miei libri,

con banditi onesti e fuorilegge.

 

Addio Europa del sangue versato in nome dei confini assassini

e delle bandiere insanguinate.

 

Domani, di buon ora,

partirò con la prima nave del Tirreno,

dal porto del Circeo,

accompagnato dai canti mortali delle Sirene,

verso la Croce del Sud

 

Impostore: Nel nuovo L’impostore (Guanda), Javier Cercas racconta la storia di Enric Marco, il più noto rappresentante pubblico dei sopravvissuti spagnoli ai campi nazisti. Veniva invitato di qua e di là a portare la sua testimonianza, finché non si scoprì che si era inventato tutto: non aveva mai messo piede in un campo di concentramento. L’impostore si basa su tre domande, ha detto Cercas a Mantova: perché Marco mentì così? Com’è possibile che tutti gli abbiano creduto? E com’è possibile che lui fosse così affascinato da quella figura? Cercas ha ammesso di provare ammirazione per quella sorta di antieroe per eccellenza («uno che ha sempre detto sì, al Franchismo e a tutto il resto») e metafora ideale per il rapporto fra la Spagna e la sua storia: come la Spagna – e come gli scrittori, aggiunge Cercas – dà un’immagine diversa di sé perché la sua non gli piace. Voleva essere amato e per questo ha detto quello che la gente voleva sentirsi dire. Eppure, ha detto Cercas, la sua vera vita era più interessante di quella che si è inventato.

 

Lettore: Oltre all’incontro di presentazione del suo L’impostore, Javier Cercas ha tenuto una breve lezione su quello che lui definisce il “punto cieco” di un romanzo, ovvero quello spazio di ambiguità e indefinitezza al suo cuore: «Niente contribuisce a illuminare quanto il punto cieco e l’ambiguità centrale il senso delle grandi opere e il loro significato». Su questo tema, che ha trattato in una conferenza a Oxford, uscirà un suo libro il prossimo anno. È interessante il ruolo che, in questo “punto cieco”, Cercas attribuisce al lettore: «Perché il lettore possa partecipare al capolavoro, deve aprirgli una crepa – il punto cieco – per lasciarlo entrare nel romanzo». I romanzi realisti invece si presentano come universi chiusi e interamente coerenti, e lì le crepe vanno trovate a contropelo. Cercas, per esempio, ha confessato che da lettore avrebbe fatto di tutto per impedire a Giuseppe Tomasi di Lampedusa di scrivere la celebre frase del Gattopardo sulla nuova palata di terra che cade sopra il tumulo della verità, perché la ritiene fuorviante e un errore da dilettante. Sostiene che il romanzo è come una partitura data da interpretare al lettore, e che sono i lettori a fare il capolavoro: «Esistono tanti Chisciotte quanti lettori del Chisciotte».

  

Mare: Chi si aspettava che l’incontro Esiste una letteratura di mare?, con gli scrittori Björn Larsson e Alberto Cavanna, sarebbe stata una conversazione su Melville, Conrad e gli altri, si è trovato invece di fronte a una conversazione di taglio marcatamente politico. L’incontro è iniziato subito con il tema dei migranti e rifugiati del Mediterraneo. Ha affermato Larsson che la letteratura di mare afferma il diritto alla circolazione, allo spostamento, al viaggio. Secondo lui, la legge del mare – l’imperativo di salvare in tutti i casi chi è in difficoltà – dovrebbe semplicemente essere applicata anche sulla terra ferma. Alberto Cavanna, scrittore ligure e figlio di fabbricanti di navi, dice che i liguri, più che amare il mare, lo rispettano, che è ben diverso. Il mare nostrum è sempre stato mare monstrum, dice, e ora non è diverso. L’Europa, aggiunge, deve rendersi conto di non avere solo un’anima nordica, ma anche una mediterranea, altrimenti è destinata, appunto, a naufragare. Björn Larsson, da parte sua, vorrebbe chiedere al presidente del partito xenofobo da poco entrato nel parlamento svedese se, prima di salvare qualcuno, gli chiede l’etnia o qualcos’altro del genere. Se rispondesse di sì, allora il problema sarebbe profondo. Ha da poco pubblicato un libro sulla letteratura di mare, Raccontare il mare (Iperborea). «L’Odissea è un bel libro, ma Ulisse non era un marinaio, era un pessimo navigatore». Lavorando al volume, si è stupito di quanta poca letteratura di mare esista, in realtà. È un immaginario che manca, ha detto. In Italia, per esempio, manca un grande romanzo sulla nostra emigrazione, dice. Ci sono solo romanzi sul ritorno al paese: «Per convincermi che in Italia c’è una letteratura di mare, mi hanno dato I Malavoglia… ma c’è solo un capitolo di mare!»

 

Nemo: Il Capitano Nemo dirigeva il Nautilus, il sommergibile di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. A un certo punto del romanzo, Nemo dice che il mare non tollera despoti. La letteratura non deve aiutare a costruire nazioni, dice Björn Larsson, deve aiutare a disfarcene. Larsson ha detto a Mantova che l’idea di libertà assoluta spesso associata al mare «è una stronzata». Il vento a cui dobbiamo affidarci è l’aliseo, prevedibile e affidabile, ma forte, forte anche nei compromessi che stanno alla base della politica. Ha raccontato di non aver mai votato in vita sua, ma che ora lo farà, perché c’è un partito xenofobo nel parlamento e bisogna contrastarlo: «Serve anche il mio voto». Quando rifiutò il servizio militare, al processo fece una colta e lunga arringa di autodifesa che il giudice, negli atti, riassunse così: «Larsson non vuole che qualcun altro decida per Larsson». Sartre, ha ricordato Larsson, disse che non si scrive per gli schiavi. «Dobbiamo aiutare il lettore a pensare che forse il domani non è come l’oggi. È un invito alla libertà». Mi è tornato in mente quello che Carlo Ginzburg ha detto a chiusura del suo incontro mantovano: «Piste improbabili da seguire ci attendono. Non si sa come andrà a finire».

 

Oggetti: Michele Mari, intervistato da Chiara Valerio, ha raccontato cosa contiene il piccolo libro fotografico appena uscito per le edizioni Corraini, Asterusher. Autobiografia per feticci (il nome è una contrazione dell’Asterione di Borges e degli Usher di Poe), realizzato con il fotografo Francesco Pernigo. Le foto ritraggono molti oggetti che, ai suoi lettori più affezionati e attenti, suoneranno già familiari o conosciuti. Ogni immagine è accompagnata da estratti dei suoi libri o da un nuovo breve testo. La casa è quella di Verderame, per esempio, con una torre gotica e una cantina buia dove Mari porta le persone quando vuole spaventarle. «C’è la foto del divano dove ho letto metà dei libri che ho letto. Quando entro lì sento ancora le voci di Conrad, Stevenson…» Michele Mari da piccolo non aveva «dimestichezza con il prossimo». Ha raccontato di aver sempre lasciato gli affetti nel totale disordine, e così pare quasi essersi sfogato sulle sue ossessioni e investito emotivamente sugli oggetti, molti dei quali ritratti in questo libro. Si sente non un adulto, ma un bambino vecchio, dice, e trova la cosa rassicurante. «Tutti quelli che mi conoscono da trant’anni mi dicono che dovevo andare in psicanalisi» ha detto Mari, «ma ho scelto il gioco, il manierismo».

 

Politica: «Primo Levi era un grande testimone perché era un grande scrittore, uno scrittore politico» ha detto Marco Belpoliti. La responsabilità politica dei libri e dei loro autori è stato un tema che ha attraversato Festivaletteratura in maniera decisa. Gli incontri riportati in questo resoconto ne sono una prova: l’impegno di Luigi Manconi per le carceri, la dissidenza di Svetlana Aleksievič, Carlo Lucarelli e la sua scelta imprevista di cambiare argomento del suo incontro e parlare dei siriani, la proposta di David Van Reybrouck per una nuova democrazia partecipativa, il tono più polemico che politico di Salvatore Settis (che ha anche lamentato la scelta di uno straniero a dirigere Palazzo Ducale a Mantova), le affermazioni di Edgar Morin e Tariq Ramadan e così via. C’è poi il risvolto della medaglia: Alberto Angela ha offerto al folto pubblico il racconto dell’eruzione del Vesuvio e degli ultimi momenti di vita di Pompei. Ha premesso che il ricavato del libro è andato al restauro di un affresco di Pompei, considerandola una sorta di «restituzione». Poi, nella sua narrazione, non ha detto mezza parola a proposito della situazione in cui versa il sito archeologico, che è praticamente un paradigma mondiale di cattiva gestione. Forse che la divulgazione passa anche per una depoliticizzazione di quanto viene divulgato?

 

Quorum: come quello delle elezioni, quelle che David Van Reybrouck, nel suo Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico (Feltrinelli), propone di abolire. Van Reybrouck è autore del magnifico Congo (Feltrinelli), in cui ricostruisce la storia del Paese africano dall’inizio della colonizzazione fino a oggi. Si trovava in Congo anche nel 2006, quando si svolsero le prime elezioni democratiche, decise sotto le pressioni internazionali e interamente finanziate dall’Unione Europea. Portarono più violenza e corruzione che democrazia. Fu in quell’occasione che cominciò a riflettere sul concetto di elezioni. Inoltre, Van Reybrouck è belga, e il Belgio è rimasto senza governo per un anno e mezzo. Com’è possibile, si è chiesto, che ancora il potere democratico per un cittadino consista nel limitarsi a mettere una crocetta a matita ogni quattro o cinque anni? E come si fa ad avere una democrazia funzionante se, stando ai sondaggi di molti Paesi, i politici sono considerati le figure meno affidabili? Van Reybrouck ha esplorato e sperimentato in prima persona (compresa la sua esperienza “G1000”) nuove forme di democrazia partecipativa e consultazioni popolari informate. L’ascesa dei movimenti e partiti populisti, ha detto Van Reybrouck, avviene perché media e partiti ci fanno pensare in modo populista, e non solo votare per i populisti. Ha poi argomentato la possibilità di tornare a metodi quali il sorteggio: «Se organizziamo un nuovo diritto di parola, dobbiamo assicurarci che sia egalitario». Per Van Reybrouck, la questione non è creare una democrazia perfetta, ma una democrazia migliore. Le difficoltà non mancano, ma rimane solo da affrontarle, e la partecipazione è un’ottima scuola di cittadinanza.

Ragionevolezza: I libri presentati in due degli incontri seguiti hanno una caratteristica comune: quella di presentarsi come portatori di tesi provocatrici, se non utopistiche, e di dover difendersi da questa impressione dichiarando la loro “ragionevolezza”. Si tratta di Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Chiarelettere), di Manconi-Anastasia-Calderone-Resta, e il libro di David Van Reybrouck sopra citato, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico. Nel primo, che il termine “ragionevole” lo porta anche nel sottotitolo, si avanza con numeri ufficiali e argomentazioni di grande efficacia l’ipotesi che la sicurezza dei cittadini e l’umanità dello Stato italiano gioverebbero molto della chiusura dell’istituzione carcere; il secondo, invece, spiega perché lo strumento delle elezioni non è più sufficiente per mantenere fede al proposito di reale rappresentatività e partecipazione. In entrambe le opere, il valore della ragionevolezza viene messo avanti per far sì che il cavallo di Troia rappresentato dai due libri possa essere almeno fatto entrare, con dentro le loro tesi al posto dei soldati, entro le mura della città del dibattito. Ma allora il concetto di ragionevolezza va problematizzato. Che cos’è? Una caratteristica contenutistica della tesi in questione o solo una strategia comunicativa che permetta a quella tesi di resistere al filtro che lascia fuori dal dibattito le idee più ardite e spesso lungimiranti? È un sinonimo di prudenza o una trappola sia per chi quella tesi l’avanza che per chi l’ascolta? O semplicemente uno strumento di normalizzazione? Eppure, molte delle grandi conquiste civili del passato lontano e recente sono venute da un pensiero felicemente irragionevole. Un esempio? Le tesi di Abolire il carcere erano già state a loro modo proposte a inizio Novecento da Kropotkin, Goldman e Berkman sotto il ben meno rassicurante titolo Anarchia e prigioni. Scritti sull’abolizione del carcere (Ortica editrice).

 

Salame: L’intervistatore di Svetlana Aleksievič le ha chiesto di parlarci del salame in Russia. In un primo momento, a noi del pubblico è sfuggita la pertinenza e la serietà della domanda ed è venuto da ridere. Lei ha risposto che negli anni Novanta pensavano che la libertà fosse avere a disposizione il salame e i jeans. Anche Tzvetan Todorov, nella sua conferenza mantovana dal titolo Insoumis, ha raccontato il particolare del salame citato da Aleksievič nei suoi libri, peraltro vietati in Bielorussia. Aspettavamo un futuro radioso, ha detto la scrittrice e giornalista. «Erano anni ingenui». Quando poi ha affermato che, dai tempi della Perestrojka, in Russia molti vivono con un senso di sconfitta, una spettatrice esclama dal fondo della sala: «Ma non è vero!». Poi si alza e se ne va.

 

Tu: Il perugino Aldo Capitini fu un filosofo, un politico, un educatore, un antifascista. «La sua solitudine era spiazzante», ha detto Piergiorgio Giacché. «Lo guidava la sorpresa della coscienza». Fra le tante cose, Capitini istituì la Marcia della Pace Perugia-Assisi, fu uno dei padri europei della non-violenza e un grande filosofo della civiltà e dell’educazione. Ma era anche un poeta. Piergiorgio Giacché, antropologo e specialista di teatro, ha dedicato una conferenza-spettacolo al Capitini poeta, La mia nascita è quando dico un tu, accompagnato da un’interessante spazializzazione sonora nella bella chiesa di Santa Paola. Nello spazio nudo della grande chiesta usciva da vari punti la voce di alcuni fra i principali attori della scena teatrale italiana di oggi i quali, ognuno a suo modo, hanno interpretato i versi di Aldo Capitini. Questi, per esempio:

La mia nascita è quando dico un tu.

Mentre aspetto, l’animo già tende.

Andando verso un tu, ho pensato gli universi.

Non intuisco dintorno similitudini pari a quando penso

                                                                   [alle persone.

 

Umanità:

Riconoscere l’umanità dei «fuggitivi» è, per Edgar Morin, il bisogno primario nel trattare la questione dell’accoglienza. C’è stata poi l’umanità a cui ha fatto appello Luigi Manconi nel suo appello per l’abolizione del carcere. Ma si è parlato tanto di umanità quanto di disumanità. Per esempio la disumanità alla base dell’esistenza delle carceri di oggi, raccontate da Maurizio Torchio (autore del romanzo Cattivi, Einaudi) e Manconi stesso, che ha raccontato come il sovraffollamento fisico delle celle annulli tutto ciò che fisico non è. Sta qui la crudeltà del carcere, ha affermato. Nella «innaturale condizione prigioniera». Ma, ha avvertito Torchio: «Il carcere è una lente ingrandente e distorcente che ci aiuta a parlare di quello che carcere non è». A Mantova si è parlato anche delle forme di umanità che tratta e quelle che impersona Primo Levi. Lo ha fatto in particolare Marco Belpoliti, che ha presentato il suo volume Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda). Il giorno dopo la sua morte, ha raccontato Belpoliti, Massimo Mila scrisse che era morto un umorista: Primo Levi aveva l’umorismo di chi vede le disgrazie umane e le riconosce come proprie. «Levi era uno scrittore politico, perché si occupava dell’uomo».

 

Vittima: Nel presentare al pubblico mantovano il suo L’impostore, Javier Cercas ha ricordato quanto sia stato per lui inquietante leggere che, per Primo Levi, capire è quasi giustificare. «Mi sono messo nel libro per non scaricare la responsabilità dell’esistenza dell’impostore». Convinto che ci sia un Enric Marco – l’impostore – anche dentro di sé, Cercas ha definito la vicenda del suo libro come un tunnel con, in fondo, uno specchio dove si è rispecchiato e dove tutti si rispecchierebbero. È una definizione di vittima. «C’è una sacralizzazione della vittima, ma essere un eroe è altra cosa». Il giorno prima, nel raccontare Primo Levi, Marco Belpoliti aveva detto che Levi problematizza la nozione di vittima. Molti reduci non lo capirono e, alla sua pubblicazione, I sommersi e i salvati venne accolto molto male. Nel ’47 usava una lingua che ancora appariva retorica, e incontrò molte resistenze. Era sempre presente nei suoi libri. Da quelle situazioni non si è mai tolto. Ma non si presentava come vittima, e la sua forza di testimonianza l’aveva potuta salvare grazie alla letteratura, che dimostra di essere più forte della testimonianza. Aveva una grande vocazione pedagogica, ma se andava nelle scuole non era certo per strappare lacrime agli studenti. Vittime sono anche quelle di cui hanno parlato Torchio e Manconi, a proposito di carceri. Non solo c’è il dato dei suicidi fra i detenuti, ma anche quello – sorprendentemente alto: cento negli ultimi dieci anni – di quelli fra i poliziotti penitenziari. «Il carcere è un luogo patogeno per tutti» ha detto Manconi. Anche Primo Levi si suicidò. Mentre Belpoliti, durante l’incontro, parlava della sua forza morale, del suo rigore nella testimonianza e nel giudizio e della sua avversione a un’immagine patetica della vittima, una signora dal pubblico lo ha interrotto: «Ma allora perché si è suicidato?!»

 

Zanzare: Sono in molti a fare l’associazione mentale fra Mantova e zanzare, con tutti quei bacini d’acqua e fiumi che circondano e attraversano la città. Per non parlare di chi sapeva che avrebbe dovuto dormire in tenda nel campeggio del festival. Ma a Festivaletteratura il livello di ospitalità è così alto che anche le zanzare hanno concesso una tregua. Che fossero anche loro troppo impegnate a seguire i tanti eventi in programma? Che si fossero talmente tanto riempite di stimoli e spunti di riflessione da non avere più bisogno di succhiare il sangue degli spettatori? Che le zanzare lettrici siano meno aggressive? Parafrasando lo slogan di una vecchia televendita mattutina: «Che cosa volete di più da Festivaletteratura, il sangue?!». In ogni caso, non si può ripartire da Mantova senza un senso di gratitudine verso gli organizzatori e i volontari che rendono il festival un appuntamento così denso e festoso – di quella festosità che riempie di stimoli per affrontare anche gli argomenti più difficili e tragici – da addolcire persino le zanzare mantovane. Alla prossima, Mantova.

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