Via col vento, HBO, e il politically correct

Perché parlare di censura è un errore di prospettiva.

La prima di “Via col vento” al Loew’s Grand Theater di Atlanta, Georgia, nel 1939

Un’emittente statunitense privata (HBO) ha deciso di togliere momentaneamente il film Via col vento dal suo catalogo online, per reinserirlo nel giro di poco tempo con una qualche spiegazione sulla sua natura razzista. Questi i fatti.

Si può discutere sul perché di questa scelta (opportunismo? Marketing? Tentativi di assecondare proteste di piazza?); meno comprensibile è gridare alla censura o addirittura lamentare il rischio di eliminare la Storia, come ha fatto (tra i tanti interventi) Giulia D’Agnolo Vallan su il manifesto di giovedì 11  giugno. Solo in Italia, il film è disponibile in DVD, Blu-ray, VHS, oltre a Netflix, Youtube e altre piattaforme. Come ha scritto Alberto Pezzotta su Film Tv: «Nessuno ha censurato niente. Ma l’Occidente libertario e i cinefili illuminati si sono stracciati le vesti». 

È chiaro però che gridare alla censura nasconda questioni, e paure, più grandi. Se in molti casi la discussione su questi temi assume giustamente sfaccettature molteplici, è veramente complicato capire in che modo la decisione di HBO ci condanni – citiamo D’Agnolo Vallan – «all’orribile, banale, intransigenza di questo asfissiante presente culturale, in cui quello che non piace, è problematico, o semplicemente complicato diventa inaccettabile». Vorremmo infatti capire dal punto di vista di chi e da dove questo clima culturale del presente appare così asfissiante – una scelta lessicale sicuramente non casuale che in questi giorni in cui le piazze gridano «I can’t breathe» appare tra l’altro particolarmente infelice. Ci sembra assurda poi l’idea che se si parte da Via col vento chissà poi dove si arriva. Come segnala Kareem Abdul-Jabbar sull’Hollywood Reporter, «Dovremmo quindi censurare John Wayne e i Beatles? No, e nessuno lo sta chiedendo. Quello di cui abbiamo bisogno è un modo per presentare l’arte nel suo contesto storico cosicché le opere possano rimanere disponibili e apprezzate per i loro risultati ma non ammirati per i loro fallimenti culturali». HBO tra l’altro fa un sacco di soldi con Via col vento, che interesse avrebbe a censurarlo?

E allora che succede con Via col vento?

È difficile negare che Via col vento esprima e metta in scena un punto di vista razzista, come Spike Lee ha dimostrato nei primi minuti di BlacKkKlansman (2018) dove il film è giustapposto a Nascita di una nazione di D.W. Griffith. La posta in ballo quindi non è «eliminare una volta per tutte interi generi come il western o la satira» (ancora D’Agnolo Vallan) ma problematizzare, spiegare, argomentare, capire perché questi film erano espressione di un dato tempo – e tra l’altro, per il loro razzismo furono talvolta criticati anche a quel tempo: non si sta abbattendo una furia iconoclastica postuma sulle opere d’arte minacciate dal benpensantismo contemporaneo. Gridare alla censura, preoccuparsi di rimozioni inesistenti, è insomma una grande occasione persa. Sarebbe il momento invece di mettere in crisi il modo a cui abbiamo guardato il cinema e l’arte fino ad ora. Questo però implica un ripensamento e un riposizionamento. Ancora Pezzotta nota come «noi bianchi occidentali dobbiamo ricordarci che, dopo secoli di colonialismo, il mondo non gira più attorno a noi».

È curioso che proprio dai cinefili siano arrivate critiche così feroci alla scelta di HBO. Chi è cresciuto guardando film introdotti da esperti dovrebbe riconoscere e valorizzare questa consuetudine: HBO infatti ha chiesto di introdurre il film, che verrà di nuovo caricato sulla piattaforma online, a Jacqueline Stewart, una delle maggiori esperte al mondo di rappresentazione di afroamericani nei media. È lei stessa, in un’intervista per Chicago Tribune, a contestare invece la scelta della Disney di togliere di mezzo I racconti dello zio Tom (1946), altra opera molto discussa e effettivamente difficile da reperire (la multinazionale non più tardi di qualche settimana fa ha scelto di non renderla disponibile neppure sul suo nuovo canale online), insistendo su come sia invece cruciale guardare a questi film di grande successo per capire «cosa vogliamo dai media, come cambiare quello che vediamo sullo schermo». Ancor più chiaramente in un articolo sulla CNN ha notato come la sua introduzione sarà «un’opportunità per pensare a cosa i classici possano insegnarci». Il contrario, insomma, della censura, piuttosto la volontà di continuare a far vivere un film provando a risignificarlo. Del resto, di questo e altri film nel mondo anglofono si discute costantemente.

Una pubblicità della colonna sonora del film

Statue, film, libri, piazze…

Se allarghiamo il nostro sguardo e leggiamo la decisione di HBO alla luce delle manifestazioni antirazziste che in tutto il mondo, Italia compresa, stanno facendo cadere statue di colonizzatori e mercanti di schiavi, ci troviamo a riflettere in modo più articolato sul rapporto tra cambiamento sociale e produzione culturale. Crediamo, infatti, che questi due processi non siano slegati, e le reazioni italiane a ciò che sta avvenendo oltreoceano non siano altro che la proiezione di paure e timori che affondano le proprie radici in processi interni, riproducendo discorsi e riflessioni statiche, conservatrici e a tratti reazionarie.

Non si può negare che in Italia come altrove si stiano aprendo degli spazi per un dibattito antirazzista su larga scala, che potrebbe potenzialmente portare a un cambiamento strutturale, anche dal punto di vista delle politiche culturali. Anzitutto questa apertura ha reso accessibili e ha aumentato l’interesse per i film, libri, articoli di autrici e autori afrodiscendenti. In Gran Bretagna, due libri di donne nere sono per la prima volta in cima alle classifiche di fiction (Bernardine Evaristo con Women, Girl, Other) e non fiction, Reni Eddo-Lodge con Why I’m No Longer Talking to White People About Race. Sono libri che parlano, anche, di razzismo. Negli Stati Uniti la classifica del New York Times vede la scalata di numerosi autori afroamericani, con in testa per la saggistica, Ibram X. Kendi con How to be an Anti-racist e nella fiction Brit Bennett con The Vanishing Half. Questi successi non sono solo fenomeni commerciali, ma stanno portando a discutere apertamente le politiche discriminatorie di molti operatori dell’editoria, rivelando le difficoltà strutturali che le autrici e gli autori afrodiscendenti incontrano nella pubblicazione dei propri lavori.

In Italia osserviamo un fenomeno per certi versi simile, ma che fatica a trovare spazi nei canali mainstream. Spostandosi in quello che potremmo definire un vero e proprio circuito parallelo, alcune voci hanno finalmente portato una boccata d’aria fresca in un dibattito che rischiava di riprodurre gli stereotipi stantii degli italiani brava gente e della retorica colorblind di cui parlava Alessandro Portelli ormai nel 2003. Tanto per fare qualche esempio: il film Asmarina di Medhin Paolos e Alan Maglio sulla comunità eritrea di Milano è stato disponibile gratuitamente su YouTube per diversi giorni; da qualche mese è uscito E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana di Esperance Hakuzwimana Ripanti; da giorni si organizzano tavole rotonde, discussioni on-line, con attiviste e studiose afrodiscendenti, e diverse testate (inclusa il lavoro culturale) stanno pubblicando riflessioni articolate sull’intersezione tra razzismo…

Quindi, scavando un poco, ma non troppo, è facile verificare che in Italia le potenzialità per avviare un dibattito e una politica culturale antirazziste siano tutte lì, e che proprio da lì si potrebbe partire per avviare una serie di cambiamenti strutturali sul medio e lungo periodo. Allo stesso tempo, però, le reazioni come quelle di coloro che hanno urlato alla fantomatica censura HBO rivelano la persistenza di quella che potremmo definire una distorsione prospettica, e che continua a impedire alle proposte di cambiamento sociale di diventare parte del dibattito culturale. Cosa si nasconde dietro al paravento dell’arte e dei capolavori intoccabili, intesi come costrutti atemporali e non ideologici? Come si lega questa interpretazione statica della cultura a una concezione del passato che, parafrasando una recente uscita di Boris Johnson, «non possiamo editare»? Che cosa si cela, dunque, dietro all’ossessione per il “politically correct” e suoi supposti effetti censori, in un’epoca dominata dai proclami di Trump e della xenofobia leghista? Per quale motivo davanti a una presa di parola antirazzista si reagisce difendendo senza sfumature il prodotto di un passato razzista? Vogliamo davvero che la cultura abbia questo ruolo statico nel nostro presente?

 

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