Teorie, aspirazioni, polemiche.
Un estratto da Uno straniero nella propria lingua. Scritti per Carmelo Bene (Oedipus editore, 2019) a cura di Giada Coccia, Mariantonietta Confuorto, Francesco Cutillo, Fabiana Di Mattia e Irene Martano del collettivo Ciclomaggio, primo volume del nuovo progetto editoriale curato dal Centro Studi Carmelo Bene: la collana Beniana.
«“Sì, va bene… ma quanto hai guadagnato con tutto questo successo… Quanto rende?”. “Eh no, ci vuole tempo. Ho ventidue anni, a quaranta forse ce l’avrò fatta, se sarò molto fortunato”. Mia madre svenne. “Ma quelli applaudivano…”. “Non devono applaudirmi, devono scomparire”»1.
Così Carmelo Bene raccontava, in quella lunga intervista-testamento scritta a quattro mani con Giancarlo Dotto dal titolo Vita di Carmelo Bene, le reazioni preoccupate dei genitori per la sua carriera dopo aver assistito alla prima del Caligola al Teatro delle Arti di Roma2. Era il 1959, e già del tutto giustificata era l’apprensione per un ragazzo la cui sregolatezza sarebbe divenuta proverbiale; ma sulla veridicità di questo dialogo, asciutto fino all’icasticità, non è necessario interrogarsi troppo, come in tanti altri “cedimenti” autobiografici di Bene. Di vero c’è sicuramente un fatto di poetica; quell’idea, cioè, di abolizione del pubblico, di estromissione, di esclusione dell’uditorio da un evento che ha luogo soltanto sulla scena – e, perciò, non ha luogo mai – è un’idea che assumerà negli anni le proporzioni di un vero e proprio progetto da perseguire spietatamente; e le tarde apparizioni televisive del nostro a Macao e al Maurizio Costanzo Show3. non ne costituiranno che un ultimo tassello. Ma andiamo per gradi.
Fin dagli anni Sessanta, una voce autorevole come quella di Giuseppe Bartolucci si preoccupava di fugare le ambiguità attorno a quello che veniva definito come un «teatro per pochi» […].
L’intenzione di estromettere il pubblico è ancora a questa altezza intenzione di volerlo ignorare: gli happening al Teatro Laboratorio, che costringevano gli spettatori a subire ogni sorta di oltraggio e ad assistere a sconclusionate azioni di scena4, molto devono alla tradizione dell’avanguardia storica e, tutto sommato, poco avranno a che fare, se non come felice predisposizione, con gli sviluppi successivi alla drammaturgia beniana. È l’incontro con l’opera (e la persona) di Gilles Deleuze, nonché con quella di Jaques Lacan, a costituire una svolta decisiva per gli sviluppi del teatro beniano degli anni Settanta: aspirazioni contestatarie ancora confuse si indirizzano verso un progetto più unitario, che si prefigge una fuga dalla dittatura del senso sulla sensazione, della forma data sul continuum dell’infinita variazione, lungo strade ben lontane, anzi opposte a quelle dell’ermetismo, dell’esoterismo, del silenzio. In questo contesto, la parola “pubblico” assume per il salentino due significati: un primo, sostantivale, di spettatori/uditori; e un secondo, aggettivale, inteso come il contrario di “privato”, di più marcata connotazione politica. Due accezioni che, poste in questi termini, potrebbero forse apparire come un’alternativa; ma per Bene, sulla scorta dei suoi due “numi” francesi (il terzo sarà Pierre Klossowski), le due accezioni coincidono. […]
Ora, a teatro i rappresentanti del “pubblico” così intesi altro non sono che i critici. I critici, corpi intermedi tra pubblico e performer, rappresentanti dello “Stato”-comunità, «tutori del testo e dell’ordine», avrebbero dunque la colpa di riportare un teatro del vuoto, dell’irrapresentabile, dell’insignificanza, finalmente attinti, al senso, al logos, allo spiegabile, al descrivibile, al rappresentabile, al condivisibile, al razione/ragionevole della comunità. […] Da una contestazione più banalmente antiautoritaria come quella della Mostra del cinema di Venezia del 1968 – nella quale non è difficile vedere, come in molte altre contestazioni beniane, un pretesto per lamentare in realtà una stroncatura subita -, insomma, la polemica contro i critici assume negli anni Settanta un carattere teorico più rigoroso, i cui primi frutti si ritrovano già in alcune pagine de L’orecchio mancante (1970)5 e che si dispiegherà in tutta la sua virulenza negli anni a venire, fino al culmine, raggiunto con l’esclusione di critici e giornalisti dai lavori della Biennale di Venezia diretta da Bene tra l’89 e il ’90. Un dibattito ospitato su Mixer Cultura nel 1988, destinato a diventare un pezzo da antologia televisiva, rimane a testimonianza di una distanza ideologica incolmabile6.
Ma c’è uno spettatore che non parla? Per Bene sì, ed è l’unico che sostiene di poter tollerare. È lo spettatore “estetico”: vale a dire chi si concede tutto al lavoro dell’attore, chi si consegna al suo agire in scena senza porsi domande, permanendo nel predominio dell’unica logica del grande teatro (irrappresentabile): quella della sensazione7. Lo spettatore estetico non vuole capire nulla perché non c’è nulla da capire; perché anzi, essendo proprio questo lo specifico del grande teatro, quello cioè di pervenire al vuoto e all’insignificanza sfuggendo a ogni tentativo imbrigliante del logos, della rappresentazione (di Stato), egli non cerca significati o “messaggi”, quand’anche cifrati con metafore e allegorie; ed è consapevole del fatto che «il teatro (se autentico) è un non-luogo. Non ha da essere compreso. È nientemeno che irrappresentabile […]. Non ha “messaggi” da distribuire. Il teatro (se è tale) comunica un bel niente»8. […]
Lo spettatore estetico, in altre parole, è colui che sospende lo sguardo critico-analitico per lasciarsi trasportare dal flusso delle emozioni: è nell’abbandono, ha abbassato la guardia del logos per lasciarsi prendere. È colui che si affida: in teologia è esattamente quello che si chiama un fedele. «Quello spettatore […] non ha difficoltà a “credere”: come può spiegarsi altrimenti ciò che ha avvertito con animo perturbato e commosso in quella sera d’estate a Bologna? Non ha forse ascoltato un muezzin che tuonava poesia come preghiera? Non ha forse partecipato a una messa un anno dopo una strage – celebrata da un grande Performer?»9.
Flusso delle emozioni. Animi perturbati e commossi. Dunque, una qualche forma, seppur minima, di comunicazione, avviene; se anche lo spettacolo “non vuole dir nulla”, qualcosa, al suo pubblico, dovrà pur “arrivare”. È […]Giacchè a porsi la domanda, senza però tutto sommato riuscire a trovare risposta: «a noi non resta […] che cercare di capire in che modo si è coinvolti nelle emozioni e sconvolti nelle abitudini, quando ci capita di essere pubblico davanti al teatro dell’irrappresentabile; ovvero quando più banalmente e direttamente constatiamo l’irrappresentabilità del teatro»10.
Ora, volendo sviluppare la questione, verrebbe da dire: non vi è chi non veda come quest’ultimo riferimento al «commuovere», esplicitamente inteso non soltanto come espressione tipica del “patetico” ma addirittura nelle sue più ampie significazioni storiche, non sia piuttosto da riconnettersi al suo diretto corrispettivo già elaborato nel sistema della retorica antica: il movere. […] Uno degli esempi più clamorosi è l’elettrizzante collettiva della Lectura Dantis del 31 luglio ’81: lo stesso Bene, ripercorrendola in un capitolo di Sono apparso alla Madonna, dice:
È la folla miracolata in quanto a fronte d’un ascolto non suo, senza il rimedio della replica, esclusa dal discorso e solo e sempre perciò commossa […]. Il dir l’ascolto ha propiziato una certa attenzione religiosa, tramite l’esclusione, nel mare umano che per questo è cangiato in folla di fedeli»11.
Un po’ come il prete nel vecchio rito romano, insomma, dante le spalle al popolo e pronunciante un incomprensibile, deformato, inaudibile latinorum detto più a sé stesso che agli ascoltanti12. Ma è un dato incontestabile che il prete, pur farfugliandosi addosso magicamente (e Bene si sarebbe vantato fino alla fine di quel “magico recitarsi addosso” che gli era stato attribuito in occasione del Pinocchio), abbia un potere sulla sua comunità: affabulatorio, suasivo e, soprattutto, sovrarazionale. Possiamo allora definire, con tutta la cautela del caso, come un limite della poetica di Bene il fatto che, pur preoccupandosi tanto di denunciare il potere implicito o esplicito del “pubblico” inteso come “Stato” nonché dei suoi rappresentanti, i critici, egli non si sia mai preoccupato di denunciare il proprio potere; il quale soltanto per ragioni specifiche, legate essenzialmente al carattere di estremo egotismo della sua prassi artistica, non ha delle dirette e attive ricadute politiche. E perfino il tanto agognato spettatore estetico non è esente da responsabilità in quanto acritico e abbandonato alla comunicazione “entusiastica” del performer: non c’è nulla da vedere nel grande teatro vuoto, dell’irrappresentabile, dell’insignificanza, ma, volendo, si può pur sempre godere di quel nulla come di uno spettacolo. In un suo celebre discorso tenuto a Siena, in apertura dell’anno accademico 1981-1982 (a pochi mesi, cioè, della Lectura Dantis), Franco Fortini si diceva spaventato da come
la dizione poetica [avesse] preso il suo ruolo nella società dello spettacolo ossia nella teatralizzazione della esistenza. Un’era che passerà alla cronaca delle nostre miserie come quella del Turismo e Spettacolo, quando (diranno i posteri) per non saper o voler punire i colpevoli di atroci delitti si declamava Dante alle folle o quando (com’è stato a Milano) si potevano leggere, a sera, versi di poeti viventi (anche versi di chi qui parla) proiettati con ingranditori sulle facciate delle banche che al mattino avevano deciso della gestione economica del paese13.
Certo, si potrà obiettare che a Carmelo Bene non interessi nulla del sociale, non delle stragi, né delle banche. Salvo poi ricordarsi che, proprio nel finale della Lectura, Bene dedicava la serata «da ferito a morte, non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage». Un rito collettivo che, pur sotto l’auspicio di un’abolizione del pubblico, è socialmente rivolto a qualcuno: ai parenti delle innocenti vittime. Il pubblico di Carmelo bene si ricompone così idealmente davanti ai nostri occhi come un pubblico magari assentato, ma non assente, anzi ben presente e pronto a lasciarsi “indurre in emozioni”; mentre il nostro mago-performer può far di quel pubblico quel che vuole, spingerlo a compire atti nefandi o farne una scenografia. «Il pubblico», scriveva ancora Piergiorgio Giacchè, «è funzionale al teatro di Bene come uno sfondo prospettico può far comodo a un pittore»14.
Suonano allora ambigue la “irresponsabilità” dell’enfant terrible Carmelo Bene, con la sua passione per Pinocchio come incoscienza bambina che finirebbe per essere “ortopedizzata” dal pubblico-Stato-comunità-linguaggio; e altrettanto ambigui appaiono, col senno di poi, quei momenti degli Uno contro tutti in cui a prendere la parola sono i giovani e i giovanissimi, che lo scimmiottano o, incuriositi, lo prendono a modello (la ragazzina di quindici anni che gli dice che “non vuole più esistere” nemmeno lei, e gli chiede come fare). Risvolti inquietanti, ma cifre inalienabili dell’opera del salentino, il suo ultimo schiaffo non solo contro la nostra società, ma contro ogni stare in società, contro il prossimo, contro l’altro. In barba a chi lo accusa in quelle occasioni di non scandalizzare più nessuno, il suo scandalo finale è insomma proprio quello di una abolizione della comunicazione nella società della comunicazione, di una abolizione dello spettacolo nella società dello spettacolo, e di mostrare come questa società, più che attraverso un compatto imbrigliamento nel logos e nel mondano, sgangheratamente ricomponga una ferita aperta nel suo più vitale organo interno. Come un virus, Bene vi ha introiettato l’assurdità manifesta di una spettacolarizzazione dell’abolizione del sociale stesso. Ed effettivamente, nonostante la sua antipatica, il suo egocentrismo, il suo disprezzo per l’altro, la sua arroganza da genio incompreso, da individuo assoluto e narcisisticamente pieno di sé, proprio nonostante tutto questo, Bene gode oggi di un successo forse mai avuto prima. Carmelo Bene, l’antisociale Carmelo Bene, potrebbe non essere insomma soltanto ciò che “ci manca”, quanto soprattutto ciò che desideriamo.
Fonte delle immagini: Centro Studi Carmelo Bene
Note
- C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998, pp. 61-62.
- Caligola, Roma, Teatro delle Arti, 1 ottobre 1959.
- Maurizio Costanzo Show, Canale 5, 27 giugno 1994; Maurizio Costanzo Show, Canale 5, 23 ottobre 1995; Macao, Rai Due, 16 aprile 1997
- Valga su tutte la testimonianza dello stesso Bene relativa allo spettacolo Addio porco in C. Bene, G. Dotto, Vita, cit., pp. 127-128.
- Cfr. C. Bene, L’orecchio mancante, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 22-24.
- Mixer Cultura, Rai Due, 15 febbraio 1988.
- La nozione di “spettatore” (sebbene più correttamente “ascoltatore”, dall’originale tedesco «Zuhörer») “estetico” perviene a Bene dal Nietzsche della Nascita della tragedia. Il passo de La voce di Narciso in cui tale nozione è descritta, passo aperto ma non chiuso da un virgolettato e mancante dei riferimenti da cui la citazione è tolta (il primo dettaglio, forse una svista; il secondo, senza dubbio frutto di un inveterato meccanismo di appropriazione beniano), proviene dal cap. XXII dell’opera del tedesco (C. Bene, La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 29). Esso è ricompreso nella ristampa parziale del volumetto in Id., Opere. Con l’autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995, pp. 991-1047, alle pp. 1008-1009, stavolta manifestamente presentato come citazione tramite l’adozione di caratteri ridotti.
- C. Bene, G. Dotto, Vita, cit., p. 315
- P. Giacchè, Lo spettatore per Bene, in G. Fofi, P. Ghiacchè (Edd.), Per Carmelo Bene, Milano, Linea d’ombra, 1995, pp. 29-48, a p. 38. Il riferimento è alla Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di Bologna del 31 luglio 1981.
- Ivi, p. 39.
- C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Milano, Longanesi, 1983, ora in Id., Opere, cit., pp. 1049-1200, a p. 1130.
- È lo stesso Bene a riconoscere come la ritualità cattolica abbia avuto su di lui, bambino, una fascinazione determinante nella futura elaborazione del suo teatro: «In quegli anni [d’infanzia] ho appreso il teatro come incomprensibilità e come incomprensione tra officianti e spettatori. Tutta quell’ignoranza già detta delle bigotte al mattutino. Bestemmiavano, rispondendo a me e al prete. Un turpiloquio degno di Rabelais. Che cosa può essere la fede se non questa ignoranza farfugliata e cantata? Sembravano messe frequentate da turchi. Se non è grande teatro questo. Depensamento puro. In terra d’Otranto, soprattutto, non è concepibile dire qualcosa di cui si sappia cosa si stia dicendo o dire qualcosa che rifletta un pensiero» (C. Bene, G. Dotto, Vita, cit., p. 25).
- F. Fortini, Poesia ad alta voce, in Annuario accademico dell’Università degli Studi di Siena 1981-82, pp. 7-20, ora in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 1562-1578, alle pp. 1575-1576.
- P. Giacchè, Lo spettatore per Bene, cit., p. 38.