L’Italia e i suoi George Floyd
Il 2 giugno 2020, Festa della Repubblica italiana, verrà ricordato per una serie di eventi eccezionali. Oltre alla pandemia, stiamo assistendo infatti anche a una serie di proteste globali in nome di un uomo nero, George Floyd, morto a Minneapolis il 25 maggio a causa della violenza perpetrata sul suo corpo dall’agente di polizia Derek Chauvin. Proprio martedì scorso, 2 giugno, è stato scelto come giornata per #Blackouttuesday, un appello nato nel settore musicale statunitense, in cui si è chiesto di non pubblicare nuovi contenuti sui propri social networks in modo da concentrare l’attenzione sulle rivendicazioni delle proteste in corso. L’uso confusionario degli hashtags ha creato, in realtà, un grande scompiglio ed ha sortito l’effetto paradossale di oscurare, invece, informazioni importanti che il movimento Black Lives Matter cercava di trasmettere.
Per me quella data è stata difficile in quanto donna, nera, italiana e studiosa delle intersezioni di ‘razza’, genere e identità nell’Italia coloniale e postcoloniale. Perché quel giorno sono emerse una serie di riflessioni che bollivano in pentola da diverse settimane e che non potevano più essere messe da parte. Una serie di eventi ha contribuito a questo mio terremoto emozionale e, dopo il dolore e la sofferenza provati in seguito a tali eventi, la frustrazione ha preso il sopravvento obbligandomi a riflettere su certe questioni riguardanti il corpo nero e la sua percezione, un senso di mancata consapevolezza del proprio posizionamento e la dimensione prettamente performativa di un certo antirazzismo italiano. Il 7 maggio, dieci settimane dopo aver inseguito ed ucciso come una prelibata preda di cacciagione Ahmaud Arbery, un giovane venticinquenne afroamericano uscito per fare jogging il 23 febbraio a Brunswick in Georgia, gli autori di questo crimine vengono arrestati. Padre (poliziotto in pensione) e figlio bianchi, Gregory e Travis McMichael, vedono in quell’uomo nero che corre una persona sospetta: “Black Male. Red Shirt. White shorts…I’ve never seen this guy before in the neighborhood” dice con il respiro affannato Travis, mentre al telefono con la polizia racconta di una serie di furti di cui il suo quartiere sarebbe stato vittima, anche se in quattro mesi, nella zona ne viene registrato uno solo. William Byant, che partecipa alla ‘caccia’ e filma l’omicidio in diretta, dice agli investigatori che Travis avrebbe pronunciato un epiteto razzista, “f***ing n***er”, dopo aver inferto due colpi di pistola al petto di Ahmaud, che muore di lì a poco. Non succede nulla per dieci settimane. È solo quando il video viene fatto circolare nei social media, il 5 maggio, che immediatamente scatta la protesta e, convenientemente, dopo 74 giorni dall’omicidio, gli arresti. L’8 maggio, giorno in cui Ahmaud avrebbe dovuto compiere 26 anni, migliaia di persone in solidarietà alla famiglia Arbery percorrono 2.23 miglia, la stessa distanza percorsa da Ahmaud prima di essere ucciso, e sui social media viene condiviso l’hashtag #IRunWithMaud. La morte di Ahmaud mi riporta alla memoria la tragica morte di Abba, Abdul William Guibre, un giovane diciannovenne italiano nero che, come Ahmaud, viene inseguito da padre e figlio e ucciso a sprangate in una notte milanese del 2008. Le somiglianze tra i due casi sono impressionanti.
Un altro fatto mi colpisce particolarmente. Si tratta di una donna nera uccisa in Kentucky mentre dorme accanto al compagno nel letto di casa, Breonna Taylor, 26 anni, paramedico specializzato in situazioni d’urgenza, una cosiddetta ‘essential worker’. Dato il lavoro in prima linea nel fornire assistenza durante l’emergenza di Covid-19, la madre di Breonna ricorda la preoccupazione che l’assaliva temendo che la figlia potesse contrarre il virus. Poco dopo la mezzanotte del 13 marzo, tre agenti di polizia con un mandato di perquisizione “no-knock”, ovvero un mandato che li autorizza ad entrare senza preavviso e senza identificarsi, sfondano la porta di casa per effettuare un blitz antidroga alla ricerca di due sospetti, uno dei quali si pensa, usi la casa di Breonna per ricevere dei pacchi. Il compagno della donna, Kenneth Taylor, spaventato dall’intrusione spara, per autodifesa, un colpo con l’arma regolarmente dichiarata, ferendo uno dei tre agenti alla gamba. La rappresaglia che segue è pesante: 20 colpi d’arma da fuoco di cui otto finiscono nel corpo di Breonna che non ha scampo. Un fatto rende questo evento ancora più tragico: al momento del blitz, la polizia aveva già in custodia i sospetti in questione. Nessuna sostanza viene ritrovata all’interno dell’abitazione e né Breonna né il compagno hanno precedenti penali in tale riguardo. Non essendoci nessun video, la storia di Breonna sembra finire nell’oblio finché un altro omicidio, sempre ai danni di una persona nera, scatena un’inaspettata protesta di scala globale, che si diffonde al di là degli Stati Uniti. La morte in diretta di George Floyd, un uomo afroamericano di 46 anni, scatena un senso di giustizia sociale globale che non si vedeva da molto, forse dal tempo dei diritti civili. Milioni di persone, indignate dalla visione di un noncurante agente Derek Chauvin premere il ginocchio sulla gola di George Floyd fino a causarne la morte, usano i propri social networks come veicolo di protesta e, nonostante l’attuale emergenza Covid-19, ovunque nel mondo le persone si stanno riversando nelle strade per manifestare. Anche in Italia questi giorni sono previste una serie di flash mobs su scala nazionale, da Milano a Palermo, in nome di Black Lives Matter.
Trovandomi nel mezzo di tutto ciò non ho potuto fare a meno di pormi alcuni interrogativi. Se molte persone bianche, in Italia, mi sembra abbiano avvertito un impeto irrefrenabile di giustizia antirazzista tanto da organizzare in tempi record operazioni di solidarietà a tappeto, molte persone nere sono invece state assalite da un senso di profonda frustrazione e rabbia. La domanda più ovvia che in molte e molti ci siamo posti è anche la più semplice…perché? Perché la morte di George Floyd, un uomo afroamericano, ha suscitato in Italia questo senso di sdegno, dolore, rivendicazione febbrile dei diritti civili per le persone nere oltreoceano ma lo stesso livello di sdegno e dimostrazioni di solidarietà, non sono stati messi in pratica, con questa velocità e potenza, per protestare contro le – molte – persone nere uccise in questo paese dal razzismo? Porsi questa riflessione il 2 giugno fa particolarmente male. Perché il 2 giugno 2018 moriva in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, un uomo di 29 anni, anch’egli nero; non afroamericano ma proveniente dal Mali. Un bracciante sfruttato, un sindacalista di vocazione ed un fervente promotore di diritti umani, Soumaila Sacko. Il giovane quel pomeriggio del 2 giugno si reca all’interno di una fabbrica abbandonata per aiutare due compagni di lavoro a recuperare alcuni pezzi di lamiera in modo da costruire una baracca nel ghetto di san Ferdinando, in cui vivono. L’assassino, un cittadino della zona di 42 anni, Antonio Pontoriero, che di quei resti non era proprietario né guardiano ma tale si sente, spara, comodamente seduto, quattro colpi da un fucile da caccia detenuto illegalmente, causando la morte di Sacko in seguito ad un grave trauma cranico. La notizia viene ripresa dai media riportando una narrazione distorta, inizialmente fornita dalla Prefettura di Reggio Calabria ovvero: Sacko è stato colpito da ignoti nel tentativo di furto ed è da escludere, quindi, la matrice razzista. Nel frattempo, a poche ore da quell’omicidio, il neoministro dell’Interno, Matteo Salvini, dichiara attorniato da una folla che lo acclama che, per gli immigrati “clandestini”, la pacchia è finita. La pacchia, a cui si riferisce l’allora ex-ministro, sono forse i 20, 25 euro giornalieri guadagnati da braccianti agricoli come Soumaila, dopo 12 ore di lavoro con la schiena piegata nei campi. Nonostante le estenuanti e lunghissime ore di lavoro settimanale, la stragrande maggioranza dei braccianti stranieri, e non solo, che raccolgono frutta e verdura non riescono ad affittare una casa ma si ritrovano a vivere in tendopoli, o baraccapoli, in cui le condizioni di salute e sicurezza sono semplicemente inesistenti. Questo perché ci si ostina, governo dopo governo, a non voler affrontare il tema dei diritti e della sicurezza sul lavoro dei braccianti africani. Anche durante la pandemia, a differenza di molti tra noi che godevano del privilegio di poter restare al sicuro all’interno delle mura domestiche, di continuare la propria attività lavorativa da casa, di potersi lavare le mani regolarmente, chi lavorava nelle campagne pugliesi non aveva accesso ad acqua ed elettricità, non disponeva di mascherine e non era in grado di attuare il distanziamento sociale negli insediamenti precari e fatiscenti in cui molti si ritrovano costretti a vivere. Mentre in altri paesi, come il Portogallo, che pur provvisoriamente, ha messo in regola tutti i richiedenti asilo proprio per garantire sicurezza e diritto alla salute, in Italia una presunta regolarizzazione varata recentemente taglierà fuori dalle proprie maglie moltissime persone che continueranno a vivere nel limbo dell’irregolarità, come ha ribadito il sindacalista Aboubakar Soumahoro. Nonostante ciò, la morte di Soumaila Sacko, come quella di altre persone nere, e non solo, morte nei campi in condizione di disumanità, non sembrano scaturire un desiderio di giustizia sociale su scala nazionale, né trovano tantomeno sostegno di massa le proteste organizzate dai braccianti stessi, come nel caso di Rosarno.
Pochissima rilevanza e sdegno raccoglie una storia di violenza razzista e pratiche brutali ad opera della polizia, episodio che negli Stati Uniti avrebbe probabilmente creato molto scandalo. Si tratta di Emmanuel Bonsu, un ragazzo ghanese di 22 anni che nel 2008, viene scambiato per il palo di uno spacciatore in un parco di Parma, mentre aspetta l’inizio delle scuole serali che frequenta. Arrestato con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e per non aver con sé i documenti (li aveva lasciati nel suo zaino in classe) Emmanuel viene portato al comando della polizia municipale in cui vive un vero e proprio incubo. Spogliato, picchiato, umiliato ed insultato con epiteti razzisti, privato del diritto di telefonare alla famiglia ed usato come soggetto per una foto trofeo da uno degli agenti, viene rilasciato con un occhio nero e lesioni varie, dopo un fermo illecito di quattro ore. Sulla busta contente i documenti del rilascio uno degli agenti scrive “Emmanuel ne*ro”. “Ha messo i piedi sulla mia testa…quando ero per terra questo qua mi ha puntato la pistola, continuava a picchiarmi, ha detto ne*ro di merda…poi ha detto che aveva proprio la voglia di spaccarmi la faccia”, racconta Emmanuel. La componente di pregiudizio razziale è alla base della vicenda, come emerge dal processo. Quando il giovane spiega di essere uno studente e fornisce la tessera della biblioteca, uno degli agenti lo deride dicendo: “Sì, sì! Tu sei uno studente!”. A tal proposito, i giudici della Corte d’Appello di Bologna cercano di spiegare nelle 110 pagine di motivazione della sentenza la mentalità razzista dell’agente, per cui Bonsu era uno straniero, un extracomunitario, un nero: come avrebbe mai potuto essere solo un semplice studente?
Ed è proprio questo, a mio avviso, il nodo della faccenda. Perché non ci sono state proteste rilevanti per episodi simili in Italia ma ci si è mobilitati in maniera straordinaria per la morte di un uomo nero dall’altra parte dell’oceano? Io un’idea ce l’avrei. Penso che per molte persone bianche in Italia, e in Europa, sia più semplice puntare il dito contro gli Stati Uniti, identificare in quel luogo razzismo e discriminazione piuttosto che riflettere sul razzismo endemico di questo paese. Perché è più facile solidarizzare, mostrare empatia, versare lacrime, concedere il beneficio del dubbio ad un uomo nero ammazzato a migliaia di km piuttosto che ad un uomo nero in Italia. Perché i corpi come quelli di Soumaila Sacko, Idy Diene, Samb Modou e Diop Mor, solo per citarne alcuni, sono razzializzati dallo sguardo bianco egemonico come alcuni tra i “tanti neri” richiedenti asilo, migranti arrivati dall’Africa o “clandestini”, quelli che, forse, si possono tollerare all’uscita di un supermercato mentre ti chiedono una moneta ma che guarderesti con sospetto e diffidenza se fossero dietro di te in fila al prelievo del bancomat; o che guarderesti con stupore se fossero seduti nel tavolo accanto al tuo, mentre si godono un aperitivo con un gruppo di amici altrettanto neri, e a cui, forse, ti verrebbe voglia di dire “torna al tuo paese” se fossero più veloci di te nel parcheggiare la propria macchina nel posto che volevi tu. Forse, è più facile identificare la nerezza in Italia come una condizione aliena, transitoria, esterna, non appartenente a questo paese perché per essere italiani, quelli “veri”, si è bianchi e dunque, se la nerezza non esiste, non esiste neanche il razzismo, quello è solo negli Stati Uniti. E allora c’è da chiedersi: cosa vedi realmente quando guardi George Floyd? Se un corpo come il suo, con quel colore, quei lineamenti avesse occupato un tuo spazio e si fosse seduto nel posto libero accanto al tuo al cinema, in autobus, a teatro lo avresti visto come vedi quel George Floyd di Minneapolis, inerme, con la faccia schiacciata sul cemento? Io ho il dubbio che non sia stata la morte di Floyd per sé, che per quanto brutale non è certo la prima di questo genere, ma piuttosto il fervore, la potenza e la passione delle proteste guidate da Black Lives Matter ad infiammare gli animi di molti, al di fuori degli Stati Uniti. Perché diciamoci la verità: se una parte della popolazione americana non avesse reagito in quel modo, scuotendo le coscienze mondiali, chi avrebbe parlato della morte di George Floyd in Italia? Se non si fossero viste la forza delle marce di protesta, in cui anche a costo di essere arrestate o picchiate, persone di diversa età, colore e religione sono scese nelle strade degli Stati Uniti per esprimere la propria rabbia, in quanti questo weekend scenderebbero a manifestare? È proprio la dimensione performativa delle proteste italiane, e la mancanza di consapevolezza del proprio privilegio e posizionamento che hanno reso questi giorni, a me e molte altre persone razzializzate, ancora più difficili.
La condivisione frenetica, quasi cannibalistica del video di Floyd morente, e la relativa perpetuazione di una certa pornografia del dolore, è stata per me traumatica, nonostante non abbia mai visto il video. L’uso dell’hashtag #ICan’tBreathe, usato da molte persone bianche inconsapevolmente, senza capire che il fatto di appropriarsi di quella frase, pronunciata nel 2014 da Eric Garner ben undici volte prima di morire, e dallo stesso George Floyd, ha ulteriormente dimostrato la scarsità di conoscenza del proprio posizionamento da parte di molte persone bianche. Per quanto eccellenti si possa essere nel dimostrare alleanza e solidarietà, una persona bianca non potrà mai capire cosa significhi essere discriminati per motivi razziali, è semplicemente impossibile, così come una persona eterosessuale non potrà mai sperimentare l’omofobia. Il razzismo toglie l’aria, simbolicamente e fisicamente, anche in Italia, come nel caso delle persone menzionate in questo articolo. Allora scendiamo nelle piazze questo weekend, dimostriamo tutto il nostro dissenso per la morte di George Floyd ma cerchiamo di riflettere anche dopo, quando torniamo a casa, cosa significhi – in Italia – Black Lives Matter, chi siamo e come siamo posizionati all’interno di questa battaglia. Perché è solo riconoscendo il proprio privilegio, che si possono instaurare alleanze durature capaci di combattere sistemi di ingiustizia strutturale.