Un’ora sola

Conversazione con Alina Marazzi.

In occasione della masterclass che Alina Marazzi terrà al convegno “La forma cinematografica del reale” di Palermo mercoledì 12 dicembre alle 15.30, proponiamo questa intervista, risultato di due diverse conversazioni avute con Francesco Zucconi e Giacomo Tagliani durante gli eventi speciali a lei dedicati all’Università di Yale (a cura di Luca Peretti e Teresa Rossi) e al Dickinson College nel semestre primaverile del 2018, quando la regista era visiting scholar alla New York University.

Giacomo Tagliani: Vorremmo aprire questa conversazione parlando della relazione tra pubblico e privato che si trova al centro dei tuoi film. Da Un’ora sola ti vorrei (2002) a Vogliamo anche le rose (2007) si assiste a una sorta di inversione, per quanto il centro continui a rimanere il diario, la forma diaristica. Se infatti nel primo è una memoria privata che diventa occasione di un discorso pubblico, nel secondo si affronta una cornice molto più storica – attraverso filmati che sono di dominio pubblico – ma dove alla base si situa un’esperienza personale. In Tutto parla di te (2012) sembra infine possibile intravedere una sorta di sintesi – c’è una foto di tua madre Liseli in mezzo a tutte le altre fotografie – che ti spinge a un’ibridazione con il racconto di finzione. Nella tua esperienza, quand’è che un’immagine si può definire “privata” e quando invece “pubblica”? Quali sono le condizioni di trasformazione di un’immagine privata in un’immagine pubblica? Vale lo stesso per i diari?

Alina Marazzi: Penso che la riflessione sui lavori che ho fatto – da Un’ora sola ti vorrei in avanti – imponga di considerare il ruolo dello spettatore e, in particolare, il fatto che il primo spettatore di quei filmati sia stata io, insieme alla montatrice Ilaria Fraioli. Ci siamo trovate di fronte a un materiale – i filmati di famiglia – che era stato ovviamente realizzato con un intento: essere mostrato dentro la dimensione privata e domestica. Però, in questo caso, chi li girava – mio nonno, nella fattispecie – era anche, a sua volta, il primo spettatore. Nel corso degli anni è dunque emerso lo sguardo di quella particolare spettatrice che sono io, interna ed esterna alla storia. E questo secondo passaggio mi ha permesso, da un lato, di appropriarmi di quelle immagini e, dall’altro, di considerarle non solo come immagini private. È in quanto spettatrice, prima ancora che regista, che guardo quelle immagini, e già solo questo le istituisce in qualche modo come pubbliche, perché si instaura una dinamica della visione, dello spettacolo. Questo è un primo passaggio che porta quel materiale dal privato al pubblico: un processo graduale, non scontato né evidente.
Dopo questo lavoro di sperimentazione e di riflessione, ho continuato a lavorare con l’archivio, sulle storie di donne in Vogliamo anche le rose, sempre mettendo al centro la percezione soggettiva degli eventi. Questo film nasce con l’idea di lavorare su di un’epoca – quell’epoca – e su di un tema: la storia delle donne, della sessualità delle donne. I materiali provenivano da diverse fonti: ho interpellato documenti molto differenti, dal diario al super8, il cinegiornale, la pubblicità, il fotoromanzo, le interviste. Tutto questo proprio per restituire la varietà e la complessità del punto di vista su un determinato momento storico, ponendo però al centro della narrazione la percezione soggettiva di quanto stesse accadendo. L’idea di utilizzare diari e voce fuori campo in prima persona andava nella direzione di far emergere da questo ritratto collettivo le voci singolari. Le immagini di Vogliamo anche le rose sono pubbliche e solo in minima parte private, passate in televisione o parte degli archivi militanti, già realizzate con quella funzione. Paradossalmente, per come convergono nel film divengono quasi immagini private. È come se la voce del diario cambiasse il loro statuto, perché questa voce è così forte e domina la narrazione che finisce per piegare queste immagini a una dimensione privata. Le immagini – nelle sequenze dei diari – vengono usate per illustrare quanto i diari raccontano, senza che queste fossero però pensate come home movies.

Francesco Zucconi: Hai citato Ilaria Fraioli, con la quale collabori da molti anni. Dato che hai parlato di lei come della prima spettatrice dei materiali d’archivio, vorrei chiederti come si sviluppa il tuo lavoro con la montatrice, come si articola la negoziazione di istanze diverse nello sviluppo del processo creativo.

AM: Il rapporto con Ilaria è fondativo, perché Un’ora sola ti vorrei è stato fondativo per entrambe, sia per la nostra professione, sia per la nostra identità personale di donne negli anni 2000. E poi è stato un momento di grande coesione, si è creato un patto. Quindi abbiamo imparato lavorando a questo film e abbiamo messo dentro tutte le cose che ci stimolavano. È stato un lavoro fatto con grande libertà e abbiamo creato – magari non in modo pienamente consapevole – qualcosa di denso che si presta a tante letture. Dopo un’esperienza così, era naturale proseguire insieme negli altri lavori; io ho sempre in mente lei come un riferimento quando faccio le ricerche, ho sempre in mente il momento in cui ci ritroveremo e insieme guarderemo le cose.
Certo, bisogna menzionare anche Gianfilippo Pedote e il gruppo di lavoro che ha sempre sostenuto e reso possibile la realizzazione dei miei film, che nascono comunque da una dialettica di un gruppo ristretto di persone. Ma è vero che è soprattutto Ilaria la mia spettatrice ideale. E penso a quanto siamo cresciute in questo percorso. Penso all’ultimo lavoro fatto assieme, Tutto parla di te, lavoro non facile da realizzare, ma nel quale il montaggio è stato determinante, perché ha permesso di recuperare un andamento narrativo che la scrittura aveva snaturato, con un percorso produttivo che mi ha in qualche modo spinto e allontanato, spinto verso direzioni lontane da me. Quindi, anche nel caso di un film che produttivamente nasce in un modo diverso – scrittura, sceneggiatura, revisioni, poi le riprese – il montaggio ha utilizzato il materiale delle riprese e gli altri materiali – animazione, interviste, foto – come se fossero materiali “di repertorio”. Anche nel lavoro dedicato alle monache, Per sempre (2005), che nasce da un girato mio, abbiamo di fatto lavorato come se si trattasse di un repertorio, e magari qualcun’altro lo utilizzerà in futuro come repertorio del passato.

GT: Riprendo questa idea di repertorio. Il tuo è un grande lavoro sulla memoria. Forse tutto il cinema lo è, ma in Tutto parla di te sembra che la tua idea della memoria sia intimamente legata al repertorio, anche nell’incipit, molto bello, nel campo e contro campo di Charlotte Rampling, dove le memorie si aprono nel momento in cui si apre la casa, chiusa da tempo. Quanto si può esercitare la memoria al di fuori del repertorio?

AM: Mi chiedo anch’io come mai sono così fissata su questo tipo di immagini, sul tornare al passato per capire il presente. Penso ai due film “storici” – Un’ora sola ti vorrei e Vogliamo anche le rose –, che sono dei film che non “scadono”, nel momento in cui li si vede e che parlano dell’oggi, sono in forte relazione col presente. Da Vogliamo anche le rose sono passati dieci anni, ma il film continua a parlare del presente, non solo in termini di contenuto ma anche nelle forme. In Tutto parla di te c’era questa idea di mettere in relazione generazioni diverse di donne sui temi della maternità e della depressione post-parto, ma ancora una volta non è una lettura sociologica del fenomeno, ma una proposta di lettura intergenerazionale, una cosa che accadeva alle nostre trisnonne, e dunque non solo oggi perché siamo tutti “snaturati”, “esseri artificiali”, che non sanno più che ruolo assumere, se quello legato alla tradizione oppure alla propria realizzazione. In Tutto parla di te la memoria interviene per questo motivo. E poi, forse, è un modo per rendere “temporali” questi film, in relazione col presente ma staccati dall’attualità: vedremo se ci sembrerà datato questo film tra sei o sette anni…

FZ: Un’altra grande questione è la centralità della voce. Nei tuoi film la voce prende delle direzioni insolite e inaspettate: penso a Un’ora sola ti vorrei, con un narratore impossibile, qualcuno che non c’è più e qualcuno che offre la propria voce; ma penso anche a Vogliamo anche le rose e Tutto parla di te, dove la voce conduce il racconto e attraversa i materiali d’archivio. Come nasce l’idea di questo uso insistito della voce fuori campo, che ottiene degli effetti affascinanti, che aprono un grande contrappunto con l’andamento delle immagini?

AM: Forse devo semplicemente ammettere che non mi piace il sync… (ride). Cioè, mi attraggono le forme del racconto che non sono necessariamente in sincrono e che propongono contemporaneamente diversi input. Vedere un film presuppone il fatto che tu stia fermo, seduto sulla sedia, e che allo stesso tempo tu fruisca delle immagini, del suono, della musica ecc…; però, forse, come spettatrice sono più soddisfatta quando vado in luoghi altri, dove magari ci sono altre forme espressive e visive che non sono così chiuse, finite e confezionate come nel campo cinematografico. E magari traggo maggiore ispirazione dai lavori che vengono dall’arte, o da un utilizzo del video più legato alla forma-installazione. Non lavorare sulla sincronicità è un altro modo per creare un ulteriore interstizio, una frattura, come quella che si crea nel montaggio, che unisce ma soprattutto crea degli spazi, dove è possibile fare connessioni di senso. Così è ad esempio in Tutto parla di te, dove il montaggio è difficile, a volte faticoso, ma presuppone la creazione di spazio, uno spazio in cui lo spettatore possa mettere qualcosa di suo. La voce fuori campo va nella stessa direzione: si pone sopra, sotto, attorno alle immagini, e lascia un cuscinetto dove lo spettatore può svolgere un suo ruolo. E poi questa voce chiama in causa in maniera molto diretta lo spettatore, che si rivolge in prima persona a chi guarda, che ha la pretesa di coinvolgerlo in maniera personale. Penso che sia un’eredità del cinema documentario, e questa voce fuori campo, in una versione aggiornata di soggettività al femminile, si esprime in questa forma autobiografica.

FZ: È molto interessante questa cosa, perché di solito si associa la voce off all’idea di “oggettività”, capace di riconnettere le varie parti e dare quel senso compiuto, mentre nei tuoi lavori si fa carico della soggettività e si esprime attraverso forme stranianti. Penso a Un’ora sola ti vorrei, a come parte, con quel disco inciso, che è già una voce trasfigurata, lo scherzo e la canzoncina… Sempre in relazione agli aspetti formali, vorrei fare un breve accenno alla questione dell’animazione, da Vogliamo anche le rose ad Anna Piaggi, una visionaria della moda (2016), che è molto presente ed è in molti casi legata al linguaggio della pubblicità. Come mai questa scelta? È per sottolineare il “potere delle immagini”, non tanto nel promuovere un prodotto, ma nel produrre un effetto sui consumatori: immagini che producono cioè reazioni, trasformazioni della soggettività, processi di conformazione di stili e comportamenti?

AM: L’animazione è un modo per integrare delle immagini non in movimento dentro il tessuto filmico: poster, fanzine degli anni Settanta; nel caso della Piaggi, riviste, bozzetti, modelli… è un modo per restituire la “visione-Piaggi”, l’utilizzo che lei faceva del collage – sulle pagine di Vogue e anche su se stessa – che creano riferimenti alla storia del teatro e del costume direttamente sul suo abito. Uso il collage per raccontare una donna che faceva uso del collage. In Vogliamo anche le rose le immagini sono diverse, sono fotografie, poster, manifesti creati per veicolare un’informazione, e dunque si sviluppa un discorso estetico di volontà di integrare quei materiali che sarebbero rimasti esclusi. Ma l’animazione ha il dono della sintesi e della metamorfosi, permette di fare dei passaggi narrativi altrimenti impossibili in un tempo breve, dando grande libertà, e con Cristina Seresini abbiamo lavorato in questa direzione. Altro discorso ancora è l’animazione a passo uno della casa di bambole in Tutto parla di te, dove c’è la costruzione di un mondo in miniatura, replica della casa e della famiglia, con questi esseri inanimati che si comportano come noi.

GT: Una domanda molto semplice: perché Charlotte Rampling?

AM: Perché è bella! (ride). In realtà, siamo arrivati a lei per ragioni produttive. Per Tutto parla di te, io avevo in mente qualcun’altra, ma poi si è prefigurata l’ipotesi di una co-produzione con la Francia e loro hanno ipotizzato di coinvolgere qualcuno di francese nel cast. Allora abbiamo trasformato questo personaggio della donna in una donna straniera e pensando a com’era questo personaggio siamo arrivati al volto della Rampling come riferimento, e abbiamo provato a contattarla direttamente. Così è nato questo rapporto. All’inizio pensavamo addirittura di lavorare con qualcuno esterno al mondo del cinema, e siamo finiti a lavorare con una star del cinema… Lei comunica sempre questo mistero, qualcosa di irrisolto, di nascosto, questo distacco, ma anche una presenza.

FZ: Prima di Un’ora sola ti vorrei hai realizzato altri film. C’era qualcosa che lasciava presagire quello che sarebbe venuto dopo – questa grande attenzione per l’archivio – oppure no?

AM: In realtà sì! Visti retrospettivamente, anche i lavori fatti all’inizio presentano molti elementi che ho ritrovato dopo. Il primo film che ho fatto alla scuola di cinema, di dieci minuti e in bianco e nero, è come se fosse già d’animazione: è tutto girato in un’unica stanza con tre personaggi femminili che sembrano delle bambole, le ho rese dei pupazzi. Oppure penso al mio primo documentario, L’America me l’immaginavo, storie di emigrazione dall’isola siciliana di Marettimo (1991). Il racconto è fatto dalle donne che parlano di storie vissute da uomini: è dunque è un sentito dire, un vivere di rimando. Avevo girato dei Super8 e avevo utilizzato dei video: c’era già del remix, la contaminazione di materiali diversi. Insomma, c’erano già alcuni degli elementi che avrei continuato a sviluppare. L’altra esperienza significativa è stata con Studio Azzurro, dove ho fatto da assistente a un film di Paolo Rosa, Il mnemonista (2000), e poi per un’installazione molto grande alla Biennale di architettura a Venezia, in un tempo in cui la tecnologia non permetteva ancora di fare le cose che si fanno oggi con le proiezioni multiple. Quell’anno e mezzo con Studio Azzurro mi ha aperto dei mondi e mi ha permesso di creare relazioni con persone che poi ho richiamato, ho ritrovato, per lavorare sull’opera lirica dopo quindici anni.

GT: Due ultime cose, una sul passato e una sul presente/futuro. Sul passato: visto che abbiamo parlato così tanto di repertorio, quali sono le esperienze o visioni che più ti hanno influenzato? Sul presente: quali sono oggi i tuoi progetti in cantiere e su cosa vorresti lavorare?

AM: Sul passato, preferisco parlare del mio percorso, a partire dalla scuola che ho fatto a Londra a metà degli anni Ottanta – dove avevo come insegnante Laura Mulvey – e dalle immagini che guardavamo, che non erano film “lineari”: dunque tanti documentari e cinema sperimentale, che mi hanno in qualche modo definito. Invece, è più facile rispondere sul futuro, perché vorrei lavorare di più al di fuori dello schermo cinematografico. Le recenti esperienze a teatro sono state molto stimolanti, e mi piacerebbe lavorare proprio fuori dalla sala cinematografica, dove si può avere la libertà di superare il limite della durata, l’obbligo di andare ai festival, la distribuzione, eccetera eccetera….

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