“L’uomo fuori di sé. Alle origini della esternalizzazione” di Mario Costa.
Un enorme numero di spettri si aggira per l’Europa ottocentesca. Sono gli spettri prodotti dalle tecnologie di registrazione e di comunicazione a distanza, cioè dalla macchina fotografica, dal fonografo e dal telefono. Si tratta di doppi che ri-attivano l’atavica paura dei morti che la modernità razionalista e illuminista sembrava avere definitivamente sepolta. Le immagini e le voci di persone scomparse riprendono a inquietare coloro che rimangono vivi.
Ma ora c’è qualcosa di più. Grazie alla fotografia e alla fonografia ci si confronta con la sopravvivenza della propria immagine e della propria voce, e chi osserva il proprio volto, chi ascolta la propria voce lo fa come se fosse un sopravvissuto a se stesso o come se fosse morto, come se fosse egli stesso, ella stessa uno spettro. Gli spettri tecnologici rendono così sempre più spettrale l’esistenza stessa. I doppi fotografici e fonografici, in ragione della loro potenza indicale, cominciano a inquietare le esistenze quotidiane, facendole sempre più deboli ed evanescenti. E ciò provoca nell’immediato reazioni di difesa, poi tentativi di normalizzazione psico-sociale e, infine, una spinta alla fotogenia e alla fonogenia, per così dire, vale a dire una diffusa e comunque reattiva tendenza alla riduzione della inquietante potenza degli indici fotografici e fonografici a semplici immagini artistiche (visive o sonore che siano).
Tutto questo processo, per nulla lineare e senza arretramenti, divenne un argomento letterario che assillò tutto l’Ottocento. Come scrive Mario Costa in L’uomo fuori di sé. Alle origini della esternalizzazione. La fotografia, il fonografo e il telefono nella Parigi del XIX secolo (Mimesis 2018), «negli anni compresi tra il 1840 e i primi del Novecento, nella letteratura francese si verifica qualcosa di strano che va spiegato: un gran numero di autori scrive ogni sorta di racconti, novelle, romanzi, tutti incentrati sulla nozione di “doppio”: “doppio” come sdopppiamento fisico di se stessi, “doppio” come scissione della personalità, “doppio” come essere posseduti, e così via» (p. 151).
Tutto l’interessante libro di Costa è dedicato a ricostruire, attraverso numerosissime testimonianze di letterati, artisti e persone comuni, la ricezione psico-sociale della fotografia, della fonografia e della telefonia nella Parigi del XIX secolo.
Nadar, nel suo famoso Quando ero fotografo (1899) ci parla, a esempio, del terrore che assalì Balzac di fronte al suo dagherrotipo, sembrandogli quella immagine come “staccata” dal suo corpo, come una parte sottratta alla sua stessa identità (pp. 23 sgg. e p. 82). L’esperienza dei doppi tecnologici, infatti, indebolisce la percezione dell’identità personale legata al “corpo proprio”. La capacità indicale dell’immagine fotografica di bucare qualsiasi codice simbolico è ciò che l’accomuna all’immagine speculare, ma a un’immagine speculare sottratta al dominio immaginario dello sguardo, perché autonomizzata e spettrale. «La fotografia, per il suo iperrealismo – scrive Costa – è in grado di sottrarre all’essere [umano] ogni sua interpretazione, ogni rivestimento simbolico, e di presentarcelo in sé, nel suo stato primordiale, prima o dopo dell’umano» (p. 31).
Qualcosa di simile, ma forse anche più inquietante, accadde con l’apparire del fonografo, che per la prima volta venne presentato al pubblico parigino nel 1878. Ancora più che la fotografia il fonografo apparve potentemente moderno, segno indubitabile del progresso del secolo, manifestazione inquietante e meravigliosa di quella forza oscura, di quella energia, presente sia nel mondo inorganico che in quello organico che tutto sembra permeare: l’elettricità.
Un partecipante a una delle prime dimostrazioni pubbliche del fonografo scrive che «sembrava di assistere a un’esperienza di resurrezione, a una conversazione con un fantasma» (cit. a p. 94), come in una conversazione spiritica. La voce era diventata così un’altra immagine che, sottratta tecnologicamente alla sua fonte, non ne voleva più di stare al suo posto, cominciando a vagare e a inquietare, se non proprio a terrorizzare – se riflettiamo sul suo utilizzo nel cinema thriller e horror del Novecento (così come è stato ricostruito da Michel Chion).
Non c’è niente di più terrorizzante di una voce che non si è in grado di poter legare a un corpo, a una sorgente sonora. Mentre l’immagine fotografica di un volto trovava paradossalmente in sé l’antidoto alla sua esternalizzazione, poiché quel volto era pur sempre riconoscibile e, sopratutto, ben fissato su una carta, la registrazione della voce sembrava esserne priva. La voce registrata, infatti, quando è ascoltata senza sapere che è emessa da un fonografo, è letteralmente senza luogo, mentre l’immagine fotografica per sua stessa natura è e appare fissata a un supporto materiale che ha un hic et nunc. È questa la ragione per la quale la fotografia può far paura e inquietare ma la voce, quando non appare il suo supporto tecnologico, terrorizza. Non è quindi un caso che «questo avvertire la morte nella voce registrata, e più ancora sentire la propria morte nella propria voce registrata – scrive Costa – provoc[hi] una reazione immediata e istintiva: quella del sottrarsi a ogni registrazione, e anche il fonografo, come già la fotografia, ebbe chi si mantenne lontano da esso» (pp. 99-100).
Anche la comparsa del telefono fece scalpore nella Parigi ottocentesca. Già nel 1878, ci ricorda Costa, esisteva a Parigi «una rete telefonica privata con un paio di centinaia di abbonati» (p. 119), ma fu solo con il Teatrofono di Clément Ader che la metropoli francese fece esperienza sociale della nuova tecnologia. Il teatrofono permetteva ai suoi abbonati di ascoltare la musica d’opera a distanza. Tra i suoi abbonati illustri ci fu anche Marcel Proust, che, secondo Costa, probabilmente trasse ispirazione, per la sua poetica del ricordo che lega il vicino al lontano, dall’esperienza della “presenza a distanza” permessa dal telefono.
Presenza reale di questa voce così vicina – nella separazione effettiva! – egli scrive in una pagina de Le Côté de Guermantes – Ma anche anticipazione di una separazione eterna! Spesso, ascoltando così, senza vedere chi mi parlava da tanto lontano, mi è sembrato che questa voce chiamasse da quelle profondità da cui non si torna, e ho provato l’ansia che mi avrebbe preso un giorno quando una voce sarebbe ritornata così (sola e non più di un corpo che non avrei mai più rivisto) per mormorare al mio orecchio parole che avrei voluto cogliere pronunciate da labbra ormai in polvere (cit., p. 142).
L’intento di Mario Costa – estetologo e filosofo della tecnica, noto a livello internazionale soprattutto per aver teorizzato agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo la nozione di “sublime tecnologico” – è stato quello di ricostruire in questo libro la storia della ricezione psico-sociale delle tecnologie della registrazione e della comunicazione a distanza nella metropoli europea ottocentesca per eccellenza, cioè a Parigi, per mostrare come in quel luogo e in quegli anni si siano prefigurati alcuni tratti delle trasformazioni psico-antropologiche che si sono poi realizzate durante il corso del Novecento.