Una nota di Francescomaria Tedesco a margine dell’intervista a Giorgio Agamben “La crisi perpetua come strumento di potere”.
Il 15 marzo 2013 Giorgio Agamben, uno dei più importanti filosofi italiani, uno dei più conosciuti e tradotti esponenti della cosiddetta Italian Theory, ha pubblicato sulle pagine prestigiose di Repubblica un articolo dal titolo Se un impero latino prendesse forma nel cuore dell’Europa: torna attuale un’idea del filosofo Alexandre Kojève. Successivamente, Agamben è tornato a parlare dell’impero latino e di Kojève sulla altrettanto prestigiosa Frankfurter Allgemeine Zeitung, con un’intervista – tradotta adesso in italiano da Nicola Perugini per il lavoro culturale – dal titolo Die endlose Krise ist ein Machtinstrument [La crisi perpetua come strumento di potere]. Il sommario recitava: Ein lateinisches Imperium gegen die deutsche Dominanz? [Un impero latino contro il dominio tedesco?]. Le tesi di Agamben hanno avuto una certa risonanza in Europa, come si può immaginare e per l’autore e per il tema, tanto da essere riprese e discusse in molte sedi (Verso ha tradotto l’intervista in inglese, Libération ha pubblicato in francese l’articolo de La Repubblica).
Tuttavia, Alexandre Kojève è autore misterioso e bizzarro, stravagante e fanfarone (sosteneva di scrivere lettere a Stalin), rigoroso e centrale nella renaissance hegaliana in Europa grazie al leggendario seminario che egli tenne dal 1933 al 1939 davanti a un uditorio di intellettuali che egli ammaliava e ingannava, ammannendo un Hegel a cui il filosofo russo naturalizzato francese stava rifacendo il trucco per una mise à jour novecentesca. Quel seminario formò la filosofia francese del secondo Novecento (e non solo: interessante sarebbe il percorso che portò Kojève a ispirare i neoconservatori americani e quell’allievo spurio, che tradiva Kojève, che è stato Fukuyama; si è parlato del coté fascistant kojèviano). E una delle bizzarrie di questo strano russo nipote di Vassily Kandinsky è che quel momento seminale presso l’École Pratique des Hautes Études sia stato raccolto e pubblicato da un “umorista” come Raymond Queneau.
Del resto Kojève amava giocare col suo personaggio, non scioglieva alcuna ambiguità, anzi se possibile le alimentava. Costruiva la leggenda di se stesso. E aveva molto materiale. Come quando decise di diventare filosofo della domenica. A un certo punto infatti egli abbandonò la filosofia, diventando grand commis della DREE (Direction des Relations Économiques Extérieures) per svolgere un compito alquanto “straussiano”: diventare il filosofo che mette il suo sapere a disposizione del “tiranno”.
In questa veste, egli partecipò ai negoziati per la creazione del GATT tenutisi all’Avana ed ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione della CEE. Per questo suo ruolo Allan Bloom, che rivendicava orgogliosamente la sua discendenza teorica da Kojève, lo definì – dopo averlo incontrato per la prima volta in un viaggio che lo portò da Chicago a Parigi assieme a Leo Strauss – un “burocrate-re”. Si limitava a scrivere di domenica. In questo ruolo di burocrate-re temutissimo nei vertici per le sue capacità di spiazzare l’avversario, Kojève licenziò un suo scritto a uso “interno” intitolato Esquisse d’une doctrine de la politique francaise.
Questo testo (in tutto una sessantina di pagine dattiloscritte, con qualche correzione a mano) è rimasto a lungo inedito, per poi venire pubblicato, in una versione praticamente dimidiata, dapprima sulla rivista diretta da Bernard-Henry Lévy («La Regle du Jeu», I, 1990, 1) e poi anche in italiano (Il silenzio della tirannide, Milano, Adelphi, 2004).
Perché dimidiata? Perché la versione originale di questo saggio, che Kojève scrisse per l’amministrazione francese e che è datato 27/VIII/1945, è più lunga, anzi: è lunga il doppio. Ma prima Kojève stesso, poi la sua vedova, si opposero alla pubblicazione integrale. Ho provato a spiegare le ragioni dell’imbarazzo e del divieto che quel saggio produsse, in un articolo apparso sul quotidiano Europa quasi 10 anni fa, nel 2004, ben prima di Agamben, e di certo con un accesso alla fonte più completo (dato che si dà conto proprio della parte inedita di quel saggio). Ho approfondito poi sulla rivista Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, nel XXXV numero (2006).
Ora, a leggere l’articolo prima, l’intervista poi, si capisce benissimo che Agamben ha letto il saggio di Kojève cui fa riferimento non nella sua versione integrale. Agamben sostiene che l’uso giornalistico di contrapporre un impero latino (o la cultura classica) alla cultura tedesca è una sciocchezza. Benché sia vero, questo non è l’assunto di Kojève, il quale studia una sorta di seconda Versailles in cui spogliare la Germania sconfitta nella II Guerra mondiale.
In altri termini, il saggio di Kojève – ma sarebbe meglio definirlo un documento a uso interno, come si è fatto – non teorizza tout court grandi spazi che, quasi in una anticipazione del neoregionalismo tanto caro agli europeisti, si contrappongono democraticamente.
La parte IV dell’Esquisse, intitolata Mezzi di realizzazione, consta, nel dattiloscritto originario, di quattro paragrafi. L’edizione francese e quella italiana risultano prive dei paragrafi 1 e 3 di tale parte.
In generale, si può affermare che si tratta della parte più “realistica” e immediatamente “politica” dello scritto di Kojève. Qui Kojève teorizza l’atterramento di ogni velleità di ripresa economica da parte della Germania (anche per non irritare gli inglesi), la realizzazione di accordi commerciali privilegiati tra i “latini” e gli Stati Uniti, l’eliminazione di Franco e l’insediamento di un governo filo-francese, contemporaneamente tenendo a bada gli anarchici e i rivoluzionari. Liquida poi con poche battute l’Italia.
Nel paragrafo 3, omesso come il paragrafo 1 nelle versioni pubblicate in Francia e Italia, Kojève affronta il tema della “base” economica di una politica imperiale. Secondo Kojève esiste un problema energetico riguardante il carbone e gli oli combustibili, che necessita di essere risolto a discapito della Germania sconfitta:
On interdit à l’Allemagne de traiter des minerais de fer autres que ceux extraits de son propre sol […] et on détruit tous les hauts-forneaux, aciéries et laminoirs en excédent; tout le fer supplémentaire nécessaire […] à l’Allemagne lui sera forni par la France (ou par l’Empire) sous forme d’acier laminé; on oblige l’Allemagne à acquerir annuellement une quantité minimum fixe de cet acier (qui ne sera livré qu’après justification de l’emploi des livraisons précédentes), en livrant en échange une quantité fixe de charbon cokéfiable;
tutto ciò allo scopo di frustrare le eventuali velleità belliche germaniche mediante un sistema che indebolisca – e consenta all’impero latino di prevenire – la sue possibilità di costruire armi. Inoltre,
Si la solution acier-charbon est acceptée […], il faudrait ancore demander l’annexion de la Sarre, à condition qu’on permette à la France d’en expulser la population allemande. Cette annexion améliorera encore le bilan houiller de la France et de l’Empire latin.
In questo modo, il problema energetico dell’impero latino verrebbe risolto attraverso la configurazione della Germania come «mine charbonnière de l’Empire latin», e della Francia come detentrice della forza economica rappresentata dall’industria pesante, «ce qui lui assurera le contrôle politique de l’ensemble de l’Empire».
Certo si può dire che Kojève anticipi l’euro, preconizzando un sistema monetario imperiale che si opponga al potere del dollaro e del rublo. Ma il progetto di Kojève ha, come si vede, dei lati oscuri.
Si pensi a cosa egli scrive a proposito del carbone e dell’acciaio, andando completamente contro ciò che sarebbe stato fatto con la CECA: un mercato comune che mettesse assieme nemici secolari come Francia e Germania sfruttando risorse situate su un terreno esplosivo e teatro di rivendicazioni sanguinosissime come quello al confine tra i due Paesi.
Ma oltre a questi lati oscuri, come si vede anti-tedeschi molto più di quanto Agamben immagini, il testo di Kojève non fa alcun riferimento alla Shoah, alla tragedia di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto del ’45, pochi giorni prima della data che chiude il dattiloscritto di Kojève), non si affranca dalla logica del dominio coloniale (anzi ne fa un punto di forza dell’impero), si iscrive entro una cornice che richiama – nella sua funzione anti-tedesca – la Società delle Nazioni.
Insomma, un autore “stravagante”, si è detto. Un maestro “occulto” del Novecento. Del quale si può dire che anticipò, a parti rovesciate (ovvero con una guida tedesca e non francese, che schiaccia e opprime le economie apparentate, nella quale i “latini” sono il fanalino di coda) l’Europa come oggi la conosciamo. Che è tuttavia ben diversa dall’Europa che sognavano gli europeisti.
Nessuno sembra aver capito quale fosse l’orientamento politico di Kojève. Lui amava definirsi un marxista di destra, ma anche la “coscienza di Stalin”, come racconta Marco Filoni che da tempo si dedica al filosofo russo. François Valery, diplomatico e figlio di Paul, disse che se Kojève non era di destra, certo non era un uomo di sinistra.
La sua concezione della Fine della Storia lo portava a giustificare, in vista dello Stato universale e omogeneo, l’autoritarismo. Questa vicenda, e questo saggio nella sua versione completa, aiuterebbero a capire il personaggio e il filosofo, e a diradare le nebbie che lo avvolgono per sua stessa disposizione.