Tra il buio e la luce della mente, intervista a Danio Manfredini

Intervista a cura di Marco Ambra e Giulia Romanin Jacur a Danio Manfredini sullo spettacolo Il Principe Amleto.

Fotografia di Chiara Ferrin tratta dal sito www.corteospitale.org.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Come è nata l’idea di questo spettacolo? Perchè la scelta di un testo come l’Amleto?

Danio Manfredini: Nei laboratori con gli allievi lavoro molto sul repertorio teatrale classico e contemporaneo, per sperimentare il teatro a partire dalle sue radici. In questo modo mi sono reso conto della complessità e ricchezza del repertorio. Ho deciso così di confrontarmi con uno dei testi sacri teatrali e metterlo in scena: Amleto.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: A cosa è dovuta la scelta dell’uso delle maschere, che tra l’altro oltre ad essere una scelta di scena sono anche opera tua?

D. Manfredini: Inizialmente agisco senza molta coscienza, per istinto; non so perché proprio prima di cominciare le prove dedicai un periodo a studiare la realizzazione di quelle maschere. Le ho portate già ai primi incontri con gli attori, e sebbene non fossi assolutamente consapevole del loro ruolo nel tessuto drammaturgico dello spettacolo, percepivo che c’entravano con la mia messa in scena dell’opera di Shakespeare. Solo alla fine ho capito che essendo ciò che andava in scena, un punto di vista soggettivo del principe Amleto, le maschere erano la sua visione, la percezione delle presenze intorno a lui come fantasmi che tornano in quella agonia finale in cui è colto e da lì rivede i passaggi fondamentali che hanno portato sventura nel suo regno.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Sebbene il testo da te usato sia vicino a quello originario, emergono alcune scelte scenografiche più “libere” che sembrano avere un ruolo provocatorio, così come la direzione comico-parodica che prende il rapporto omosessuale tra Polonio e il patrigno di Amleto. Perché queste scelte?

D. Manfredini: Essendo una soggettiva del principe, mi sono messo nella sua immaginazione per estrarre la mia immaginazione. Amleto è un uomo di pensiero, di immaginazione, e direi anche di una certa teatralità, e ciò che volevo mettere in scena era la sua coscienza: i piani della coscienza, il rivedere una cosa, il ricordarla, deformarla, reiterala, e così via. Questo lavorìo che avviene nel palcoscenico della coscienza di ognuno è la sintesi che mi ha tenuto attaccato al testo e mi ha fatto trovare in esso un contatto con la contemporaneità. Così ho tenuto i passi pincipali della storia, ma per me. In fondo è una storia come tante, mentre il modo che Amleto ha avuto di viverla mi ha interessato e così ho messo in luce quell’aspetto. Per il resto, è stato anche faticoso riuscire a comprendere cosa volevo estrarre da tutte quelle parole e da un linguaggio per me oggi invecchiato rispetto alla comunicazione con il mondo attuale. Solo se considero il testo come una grande tavolozza di colori dai quali ognuno può estrarre il suo quadro, quel testo può prendere oggi vita e senso perché è intriso di tematiche interessanti, ma è il linguaggio con cui esprimerle che richiede una ricerca.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Nella rappresentazione della crocifissione (abbiamo contato almeno quattro occorrenze) sembra che tu proponi una lettura molto originale della figura di Amleto. La crocifissione sembra quasi mettere in scena la certezza del dolore e la forza con cui essa s’impone nella coscienza solipsistica di Amleto, un potere in grado di dissolvere tutti i suoi dubbi. È legittimo vedere in questo aspetto una lettura del ruolo di Amleto “contro” l’impostazione tradizionale? Più che un gemello teatrale di Descartes, Amleto è per te una figura che pone questioni più vicine a quelle di Kierkegaard e Nietzsche?

D. Manfredini: La domanda cozza con la mia ignoranza filosofica, ti rispondo solo da teatrante. La scelta del quadro delle crocifissioni per il finale nasce perché, essendo Amleto colto dall’inizio in uno stato vicino alla morte, la sua coscienza va verso percezioni sempre più alterate. Ho registrato il duello come un aspetto della percezione: l’udito; mentre ho creato una connessione con il quadro della crocifissione, mettendo a fianco a Cristo, Amleto e Laerte come i due ladroni (uomini intrisi di peccato terreno e dolore), Gertrude come Madonna/Maddalena, Claudio come il centurione romano, Orazio come San Giovanni. Questo perché ho la sensazione che ogni uomo vive la morte come una passione cristica, per il fatto stesso che Cristo è venuto sulla terra a vivere la nostra morte. Amleto vive i due piani sovrapposti, quello uditivo e quello visivo, e questo genera per me un gioco teatrale che può essere interessante. A questo aggiungi che, in virtù delle scelte che ho fatto, facevo proprio fatica a mettermi, alla fine, a fare lo spadaccino.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Il linguaggio del corpo parlato nella rappresentazione di Ofelia. I movimenti da automa, la loro sclerotizzazione, la centralità di Ofelia durante il monologo del «to be or not to be». Questa Ofelia ha qualcosa da dire alla condizione delle donne nella società italiana contemporanea, o è – in un senso più ampio – anch’essa il simbolo degli effetti di un potere soverchiante e soggettivante esercitato sul corpo delle donne?

Danio Manfredini: Ofelia ha preso quella forma forse anche per tutte le ragioni che voi dite, ma per me il filtro della scelta di cosa mettere in scena, alla fine è molto semplice: è toccante e interessante ciò che accade? Se la risposta è sì, la cosa prende il suo spazio scenico. Poi ognuno può fare tutte le sue letture. Posso solo dire che sicuramente Ofelia ha una forte risonanza con la condizione del principe per via del fatto che restano entrambi schiacciati dalle convenzioni sociali in cui vivono, con le loro anime disadattate e annoiate da quelle regole.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Chi era il regista milanese in carrozzella che rappresenti nel teatro nel teatro?

Danio Manfredini: Quando recito la parte del regista/Amleto cito i pazienti psichiatrici con cui ho lavorato perché, passando da uno all’altro e dalla loro voce, erano gli unici in cui percepivo non una retorica predicatoria della parole ma un credo autentico su quella lezione di teatro.

M. Ambra e G. Romanin Jacur: Cosa pensi del teatro oggi? Pensi che possa ancora avere una presa sulle coscienze, sulla realtà, che possa trasmettere in qualche modo un messaggio?

Danio Manfredini: Questa ultima domanda la lascerei un po’ in sospeso, perché la risposta potrebbe essere infinita. Dirò solamente che nonostante sia un’arte molto antica, per me resta un’arte fortemente contemporanea. Il teatro è un fenomeno magico e se ci sono le condizioni favorevoli può accadere, con il contributo degli attori, del regista, delle luci, dei suoni, e dell’attenzione del pubblico, che è un l’elemento fondamentale che permette l’accadimento.

 
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