Sotto il nome di Edgardo Franzosini

Un percorso fra tre opere di Edgardo Franzosini, che forse mira a diventare uno scrittore a cui potrebbe idealmente interessarsi un Edgardo Franzosini del futuro. 

Immaginiamo di entrare in una sala con dieci lettori “medi” – qualunque cosa significhi – e di pronunciare le parole «Edgardo Franzosini». Otto o nove di loro rimarranno perlopiù indifferenti. Uno o due, invece, sobbalzeranno, si catapulteranno a stringerci la mano e a farci un occhiolino d’intesa.

Edgardo Franzosini, nato nel 1952, è autore di sei libri. Di questi, qui prendiamo in considerazione tre piccoli volumi pubblicati da Adelphi: Bela Lugosi, Sotto il nome del cardinale e Tuttavia questa vita mi pesa molto. I rimanenti – non meno importanti – sono Il mangiatore di carta (SugarCo 1989), Raymond Isidore e la sua cattedrale (Adelphi 1995) e il più corposo Sul Monte Verità (Il Saggiatore 2014).

Le opere di Franzosini si concentrano su figure reali a lato della storia. Così facendo, lo scrittore lombardo pare collocarsi in una posizione solidale – mimetizzandosi fra quei personaggi – e diventare, a suo modo, uno scrittore del lato della storia. Quelle persone sono state tutte a loro modo personaggi eccentrici; si tratta però di una condizione necessaria ma non sufficiente: serve anche che quel personaggio mostri in controluce un «grumo di sofferenza», come ha detto lui stesso in un’intervista.

A dare uno sguardo generale alla sua produzione, prende allora un sospetto: che Edgardo Franzosini stia costruendo la propria figura di scrittore come fosse un personaggio a cui potrebbe idealmente interessarsi un Edgardo Franzosini del futuro. Proviamo a vedere se si tratta di un sospetto con qualche fondamento.

Bela Lugosi (1998)

…l’imperatore Vespasiano, nel lasciare questo mondo, disse: «Che bello… sto diventando Dio!». Johann Wolfgang Goethe invocò morendo: «Più luce!», mentre, concreta e laconica, Louisa Mary Alcott si interrogò: «È meningite?». Bela Lugosi spirò il 16 agosto 1956 pronunciando questa frase: «Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale».

Bela Lugosi è nato nel 1882 in un villaggio ungherese, Lugoj, ed è morto settantaquattro anni dopo pronunciando le parole che abbiamo appena letto. È entrato nella storia per le sue interpretazioni di Dracula al cinema. Con questo piccolo libro, Edgardo Franzosini ha voluto indagare quella che considera senza troppe esitazioni la metamorfosi dell’attore in vampiro, «un fatto che ormai in pochi si sentono di contraddire». Lo fa raccontando la sua vita e concentrandosi su quegli elementi e aneddoti che, secondo lui, potevano lasciare presagire quella trasformazione. Una trasformazione che, si badi bene, non fu una di quelle metaforiche o una di quelle da seminario per attori teatrali dilettanti: qui si parla proprio di grossi pipistrelli che vengono visti volare via dall’ospedale appena Lugosi venne dichiarato morto.

Nonostante la sua carriera teatrale e hollywoodiana, Lugosi non imparò mai veramente l’inglese. Secondo Franzosini, si trattava di una «resistenza, più o meno inconscia, a integrarsi nella società in cui viveva». Leggendo questo piccolo e gustoso libro (gustoso almeno quanto doveva essere per Dracula il sangue delle sue vittime), viene da chiedersi se si trattasse di resistenza a integrarsi, più che nella società americana, nel mondo degli esseri umani, lui che invece ha vissuto una trasformazione permanente in vampiro, e non solo in scena.

Franzosini ci ricorda la considerazione di un attore ottocentesco, Ernesto Rossi: «Il personaggio è un vampiro che si nutre della mia vita personale». Bela Lugosi invertì i termini e prese la cosa piuttosto alla lettera. Quello che ci fa scoprire Franzosini, fra dettagli curiosi e aneddoti, è che Lugosi arrivò al punto che la realtà che doveva simulare non era più quella del vampiro quando era in scena, ma quella dell’essere umano quando non era in scena. Come se fosse un personaggio letterario che fatica a vivere fuori dalla pagina del libro dov’è nato.

Molti conoscono il nome di Bela Lugosi grazie alla canzone di culto del gruppo post-punk Bauhaus Bela Lugosi is dead, del 1979. Ascoltandola, si sente il cantante Peter Murphy ripetere – se ho contato bene – quarantadue volte la parola undead: a leggere questo libro di Franzosini, la scelta appare decisamente opportuna.

Sotto il nome del cardinale (2013)

In quest’altro piccolo libro, Franzosini si concentra sulla figura di Giuseppe Ripamonti (1573-1643). Chi era Ripamonti? Semplicemente, il ghost writer del Cardinal Federico Borromeo, e il suo editor occulto. Lavorava nel suo palazzo e il Cardinale lo faceva occupare dei testi – sia scrivendoli che traducendoli o correggendo il latino – che poi lui faceva passare interamente per suoi. Sotto il nome del Cardinale appare, delle tre presentate in questo articolo, l’opera più canonica di Franzosini, nel senso di una ricerca storica che, confrontandosi con fonti cinque-seicentesche, ricorre a un rigore della costruzione il quale, con tutti i pro e contro del caso, si distacca leggermente dal maggior eclettismo letterario delle altre due.

Ciò che rende la figura di Ripamonti così interessate è che, se da una parte era sì uno studioso e uno scrittore al servizio di (se non sottomesso a) una delle figure più potenti dell’epoca, dall’altra parte era anche uno spirito schivo, restio a farsi imporre direttive, consapevole della propria superiorità intellettuale, insofferente verso molti formalismi e gerarchie della chiesa, intellettualmente indipendente. Leggeva e scriveva con un appetito a cui non riusciva a mettere freno, «cercava le “parole … di buon peso”, che facevano apparire le cose ancor … migliori”, scegliendole tra le tante “parole … imperfette” per le quali le cose stesse perdevano “del loro valore, e della loro bontà”». Esattamente come Edgardo Franzosini.

All’improvviso, dopo anni al servizio di Borromeo, Ripamonti venne arrestato, con motivazioni pretestuose. In una lettera del 20 ottobre 1620 lo dice finalmente senza mezze parole: «L’origine dei miei mali non è veramente quella che appare; ma è perché, essendosi il Cardinale Borromeo fieramente invaghito della fama di scrittore latino, et havendo in ciò adoperata l’opera mia per lo spazio di dieci anni, vuole che io sia morto prima di lui».

Borromeo, con un altro dei suoi deliri di potere e di faccia tosta, gli assegnava quei compiti anche mentre lo teneva chiuso in prigione, con l’odioso pretesto di concedergli un po’ di svago: «Manda ogni giorno sotto mano cose da tradurre e mostra di non voler sentirmi nominare. Mi fa dettare correttioni delle opere già tradotte, ed egli poi di sua mano le scrive nel margine dei libri». Tutte opere poi stampate «sotto il nome del cardinal Borromeo».

La resa e il compromesso, unici modi per salvarsi da una morte certa in prigione, lasciarono in Ripamonti un fondo di dolore e rancore, per sempre taciuti. Il Cardinal Borromeo, invece, è tuttora celebrato dappertutto per la sua straordinaria produzione storica e letteraria. Ma della sua vera condotta si trovano poche tracce, perché il potere è il potere, anche a distanza di quattrocento anni. Serviva ancora un’altra beffa? Eccola: otto anni dopo la sua morte, venne messa nella facciata della casa dove Ripamonti era nato una lapide, che terminava con queste parole: «Espiò duramente in se stesso l’invidia altrui e le proprie stranezze solo confortato da patrocinio dell’immortal Federico Borromeo».

Questa vita tuttavia mi pesa molto (2015)

Il titolo dell’opera più recente – un altro piccolo gioiello – di Edgardo Franzosini è una frase estratta da una lettera di Rembrandt Bugatti al fratello Ettore, fondatore dell’omonima casa automobilistica. Rembrandt era scultore diventato piuttosto famoso soprattutto nei primi anni del Novecento. Chiedeva spesso dei prestiti al fratello, ma restituiva puntualmente i soldi. Franzosini ne ricostruisce la vita con il suo solito equilibrio fra notizie storiche e invenzione: i dialoghi fra Rembrandt e la custode del condominio dove viveva, per esempio. Come in altri casi nelle sue opere, il personaggio protagonista del libro è talmente bizzarro da non lasciare molte certezze su cosa sia inventato e cosa no.

Rembrandt Bugatti aveva una fissazione particolare: gli animali. Passava le sue giornate negli zoo delle città dove viveva (Parigi, Milano e Anversa), osservava la bestia di turno «quasi volesse comprendere i suoi pensieri, anzi, quasi volesse mettersi nella sua pelle». Poi, quegli animali li riproduceva nelle sue sculture in bronzo. Erano il suo soggetto principale, oltre agli autoritratti e a qualche ritratto. Aveva per quegli esseri un’attenzione talmente profonda e acuta – insieme a un affetto forte ma mai umanizzante – da far pensare che lo facesse con loro essendo incapace di farlo con gli altri esseri umani: «La vita animale, pensa Rembrandt con un’oscura tristezza, forse, e fortunatamente, non richiede una quantità enorme di apprendimento, non richiede sforzi lunghi e complessi». Li invidiava, probabilmente.

Ma la guerra mondiale portò a un evento che traumatizzò Rembrandt irreversibilmente: per paura che i bombardamenti – in particolare quelli degli zeppelin tedeschi – potessero far aprire le gabbie degli animali dello zoo di Anversa, le autorità belghe decisero di ucciderli tutti, preventivamente. Rembrandt non si riprese mai più.

Franzosini racconta tutta questa storia dando l’impressione di riuscire a riflettere nello stile il carattere introverso di Rembrandt Bugatti, e la sua malinconia. Franzosini osserva Bugatti come Bugatti osservava gli animali dello zoo: con un’attenzione profonda e rispettosa, con tenerezza ma senza ostentare compassione. Perché la compassione si avvicina troppo spesso all’artificiosità, e qui nessuno di noi ha né tempo né sentimenti da perdere.

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