Su “La solitudine del critico” di Giulio Ferroni.
La perdita di considerazione, e quindi di status, della critica letteraria, è un fenomeno osservato almeno dall’irruzione del postmoderno alla fine degli anni Settanta. Al lamento è seguita la rassegnazione, prendendo atto di un processo apparentemente lineare e inevitabile. La disintermediazione della lettura, in fin dei conti, non fa che seguire un percorso di più vasta portata storica, che investe la cultura nel suo senso più ampio e, di qui, tutto il resto delle attività intellettive. Le vicende politiche di questo decennio non fanno che confermare la natura olistica del processo. Le nuove tecnologie, l’esasperata individualizzazione della ricezione “culturale” (necessariamente tra virgolette), le molteplici possibilità di “espressione di sé”, tutto questo e altro ancora favorisce e approfondisce il fenomeno, ma è tutto da stabilire che (e chi) ne sia l’artefice originario.
Attorno alla crisi della critica ragiona, non da oggi, Giulio Ferroni, professore emerito di Letteratura italiana alla Sapienza. Ci ritorna con La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere (Salerno editrice, 2019), oggetto letterario variamente classificabile: pamphlet polemico, breve saggio divulgativo, ma anche riflessione interiore tra letterato e letteratura. Una ricognizione godibile tanto per l’esperto quanto per il lettore disinteressato: l’uno coinvolto in un dibattito che lo riguarda e che lo convoca nelle prospettive finali; l’altro introdotto ad un tema sovente presentato come secondario o, addirittura, specialistico, come se leggere storie fosse un fatto da potersi circoscrivere a una platea di accademici. Eppure è il paradosso, uno dei tanti a dire il vero, dell’attuale ricezione letteraria, fattasi ancor più esclusiva, specialistica, elitaria, lasciando al resto della popolazione quella letteratura di consumo, triviale ed edificante insieme, che sostiene i conti delle case editrici ma non le intelligenze dei lettori. La disintermediazione si trasforma così nel suo opposto, in una ancor più perfida selezione di un’aristocrazia letterata (non per forza di cose specialista) che può permettersi di scovare quella disputa culturale scomparsa dal dibattito pubblico. E dunque può muoversi con coscienza tra i fatti culturali, discernerli, vagliarli, infine goderne.
Si dirà che l’accesso alla cultura alta sia sempre stato un fatto per pochi, selezionati anch’essi per censo più che per merito. Eppure, almeno lungo buona parte del Novecento questo processo si era invertito, anche grazie a una critica letteraria a cui era stato dato mandato di traduzione reale dei fatti culturali, una critica che si era fatta militante non (tanto) in riferimento ad un’ideologia, ma ad un’ambizione che potremmo definire educativa (educativa nel senso di politica, e non di pedagogica – termine quest’ultimo di dubbia utilità quando si parla di cultura). Insomma la mediazione del letterato, dell’intellettuale, non allontanava l’accesso alla cultura ma lo rendeva più effettivo, lo concretizzava, sosteneva un processo di apprendimento sociale reale, vivo, che tracimava dalla cultura nella società e nella politica. Una sorta di specifico letterario dell’articolo 3 della Costituzione: rimuovere gli ostacoli materiali che impediscono la partecipazione delle persone alla vita culturale del paese. Non per caso molti grandi autori italiani erano al tempo stesso anche critici, assolvendo da sé a quell’opera di traduzione reale di piani narrativi e metaforici necessariamente complessi.
Eppure l’eccessivo “parlar d’altro” di certe tendenze critiche, l’uso sconsiderato della letteratura unicamente come “metafora” di una realtà esterna ad essa (la deriva “contenutistica” di una critica politico-letteraria innervata d’ideologia) non poteva che ingenerare il movimento opposto: la ricerca di una metodologia disciplinare più rigida, fondata su parametri oggettivi e verificabili. È quanto si evince dalla veloce, ma non per questo sfocata, panoramica proposta da Ferroni, che parte dall’odierno rifiuto della teoria letteraria (oggi viviamo, per l’autore, in un «cimitero delle teorie», di cui l’autore ripercorre la fortuna e il declino, soffermandosi sullo strutturalismo come punto di snodo) per individuare e valutare cosa è venuto dopo: la linguistica, i cultural studies, le neuroscienze. La critica ha cercato dunque di farsi scienza, di conseguenza non ha più usato in forma creativa e organica le scienze del testo, dalla semiotica alla linguistica alla filologia, ma se ne è fatta colonizzare. La perdita d’orientamento ideologico, a partire dagli anni Ottanta, ha fatto il resto. Se, come rammentava Fortini, il critico si presentava come «il diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono», inevitabilmente “scientificizzare” la letteratura non poteva che condurre a una letteratura discussa tra “esperti”, quindi non da critici, ma da filologi, semiologi, linguisti, non più dunque su giornali e riviste, in pubblico e per il pubblico, ma sui bollettini accademici, scrivendosi addosso in rassegne universitarie completamente e definitivamente scollegate dagli interessi del lettore, ovvero del cittadino. Questo processo ha rinchiuso la critica in uno specialismo non solamente distante dal grande pubblico, ma distinto da esso, soddisfatto del suo linguaggio esoterico. Ma se la letteratura è una metafora della realtà, più questa distanza aumenta più diventa oscura e incomprensibile la stessa letteratura, anche per il critico divenuto ormai scienziato del testo. Perché, grazie al cielo, la letteratura non è una scienza, non si studia in laboratorio e non si replica lambiccando dosi di parole conservate in frigorifero.
Ma se la crisi è conclamata, più difficile è accordarsi sul come uscirne, come correre ai ripari. Dopo aver individuato nella poesia l’ultima “materia” degradabile, ricorrendo a Saffo («È tramontata la luna / e le Pleiadi; nel mezzo / è la notte; il tempo dilegua; / io sola giaccio»), Ferroni suggerisce di riconoscere la propria insufficienza e di accogliere con spirito diverso questa sua inarrestabile decadenza. La critica si nutre di crisi, perché questa «trova dimora nelle ombre che calano tra l’intenzione e l’atto, tra l’ispirazione e l’opera inevitabilmente deludente che ne deriva». L’inadeguatezza della critica – ancora Ferroni – non è che lo specchio dell’inadeguatezza di ogni realizzazione in forma, di ogni attribuzione di senso ai linguaggi. Vivendo in tempi di entusiastica promozione del sé, la critica ritrova senso unicamente nell’opposizione all’universo comunicativo dominante, liberandosi dalla funzione promozionale nel quale è relegata sui quotidiani, un ruolo che, per Ferroni, la riduce a «ratifica del già dato». È, al contrario, l’inattualità la garanzia della sua necessità. Ogni autentico atto critico è un atto di resistenza. Resistere, dunque, rivendicando questo posizionamento nella società e nei suoi luoghi di cultura, rifiutando tanto il compromesso commerciale quanto l’alterigia specialistica, ostentando una presenza necessaria. Insomma dare battaglia, consapevoli della propria solitudine intellettuale. Non c’è nulla di più radicale oggi, si direbbe, della rivendicazione di una solitudine, che non è solamente interiore, ma che si sottrae, che decide, à la Bianciardi, di non collaborare. Ecco, il critico oggi è colui che non collabora all’edificazione dell’io, alla sua promozione e agli annessi mercimoni tra case editrici, letteratura e social network. Complicato, ma l’alternativa è continuare ad essere introdotti alla letteratura dagli Antonio D’Orrico di turno.