Ipotesi sulla sua sopravvivenza dopo l’obsolescenza del tubo catodico.
Ieri sera, verso le sette, è partito. Per la prima volta, dopo diverso tempo, mi sono accorto di lui. Non sapevo neppure di averlo attivato eppure devo averlo fatto, un po’ come gli “accetto tutto” che quotidianamente spunto su diversi siti Web. Sto parlando del salvaschermo del mio MacBook Pro Retina del 2015.
È bello, mi fermo a guardarlo. Non è facile descriverlo: è come una serie di piccoli segmenti luminosi che si muovo in modo coordinato e, in una coreografia lentissima, formano onde cangianti. Sembrano delle alghe di laguna o dei fili d’erba scossi dal vento. Vado nelle Impostazioni di Sistema e scopro che si chiama Deriva. I suoi colori sono gli stessi dell’immagine che ho come sfondo del desktop: l’Isola di Santa Catalina, preimpostata con l’omonimo sistema operativo del Mac. Deriva, leggo sempre nelle Impostazioni, parte dopo trenta minuti di inattività.
Inizio a pensare a questa cosa che non ho fatto caso al salvaschermo, quantomeno da molto tempo. Eppure nel corso degli ultimi anni, la nozione di “schermo” si è trovata al centro del dibattito nei campi della filosofia e della teoria dei media. Sono usciti importanti libri sull’archeologia degli schermi, sulle loro potenzialità estetiche, sui loro effetti ambientali e sulla loro proliferazione eccessiva.
Mi metto allora a sfogliarli, provo a rileggerli rapidamente, cerco la parola “salvaschermo” per vedere se ne parlano. Faccio la stessa cosa anche con i libri di archeologia dei media che ho a disposizione, poi vado su Google books e Google scholar e scrivo “salvaschermo” e poi “screensaver”. Quello che trovo sono perlopiù vecchie pubblicazioni di informatica e qualche studio riguardante il design delle interfacce, i suoi risvolti psicologici e cognitivi.
Abbandono la ricerca – di fatto improvvisata, da riprendere con maggiore cura – e mi metto a pensare agli anni Novanta. Alle prime volte in cui ho sentito parlare di “salvaschermo”. Al liceo eravamo tutti in fissa con il PC e avevamo installato Windows 95 e poi 98. Con il mio compagno di banco Luca ci divertivamo a cambiare l’immagine del desktop, stupendoci di volta in volta della nitidezza delle fotografie proposte dal sistema operativo oppure dalla possibilità di inserirne di nostre. Anche i salvaschermo ci appassionavano abbastanza: avevano una qualità grafica che non sempre riuscivamo a trovare nei videogiochi. Questa cosa che partivano da soli pure ci esaltava.
Ne ricordo uno dove il logo Microsoft, ripetuto diverse volte, si avvicinava continuativamente verso di noi, dando l’impressione di uno sprofondamento nella densità cosmica: un’esplicita citazione o appropriazione di 2001. Odissea nello spazio (1967) di Stanley Kubrick. In un altro, che devo aver tenuto per un bel pezzo, c’era una serie di tubi che si distendevano lungo enorme stanza dai confini invisibili, dando forma a una sorta di sublime idraulico.
Forse era qualche anno dopo, con Windows XP. Ricordo che a un certo punto alcuni amici avevano un salvaschermo del tutto particolare (forse erano i loro genitori ad averlo attivato nel computer di famiglia). Dopo minuti di inattività, lo schermo iniziava a coprirsi di fotografie provenienti dall’hard disk del computer stesso. L’algoritmo dava forma a un montaggio delle immagini della famiglia, riproponendo i sorrisi, i momenti di sorpresa, le eventuali angosce. Il salvaschermo colmava così il vuoto d’attenzione con un pieno di affettività, uno storytelling forse stucchevole ma a noi pareva avvincente. In quegli anni imperversava Napster, ma Facebook non era neppure nell’anticamera del cervello di Mark Zuckerberg che – diamo spazio all’immaginazione – doveva tuttavia aver impostato nel computer di casa questo salvaschermo “diaristico”.
Ma la cosa bella dei salvaschermo degli anni Novanta è che servivano a qualcosa di estremamente concreto, da cui questo nome, a pensarci bene abbastanza bizzarro. Mio nonno aveva un negozio dove vendeva e riparava i televisori Phonola, Philips e Sony a tubo catodico. I salvaschermo servivano a proteggere il tubo catodico dei monitor che, nel caso di permanenza prolungata di una stessa immagine, erano sottoposti a una sollecitazione dei fosfori e andavano incontro a un danneggiamento. Il salvaschermo salvava lo schermo nella misura in cui impediva un’estenuazione dell’immagine statica e dunque evitava la degenerazione del processo chimico alla base di qualsiasi visualizzazione sul tubo catodico.
Oggi, il salvaschermo mantiene il nome ma viene meno alla sua funzione originaria. Con gli schermi al plasma aveva ancora una funzione materiale di salvaguardia, ma con quelli attualmente in uso non c’è bisogno di dinamizzare l’immagine per garantire la tenuta del supporto. Il “salvaschermo” sopravvive dunque alla funzione originaria dalla quale ha derivato il suo stesso nome. Lo fa con grande stile, adottando soluzioni grafiche che, a essere sinceri, meriterebbero un po’ più di attenzione.
Se butto un occhio ai salvaschermo proposti dal sistema operativo che sto utilizzando in questi momento, mi accorgo che le due grandi tipologie in voga negli anni Novanta persistono.
Da un lato il mio MacBook mi propone una serie di salvaschermo che costituiscono il display delle fotografie stoccate nel computer: Bacheca foto, Bacheca vintage, Giostrina foto, Giostrina natale, Scorrimento… A ogni soluzione corrisponde un effetto grafico, un’animazione. Rispetto ai decenni passati, la qualità è molto migliorata e, a tratti, impostando questi salvaschermo, mi pare di attivare un processo di digital visualization della vita privata e familiare. Con questi salvaschermo, il computer sembra volermi dire – proprio quando lo ignoro – che lui mi custodisce e mi pensa, scrive e riscrive la mia storia (quasi un ricatto, se non una forma di recriminazione da parte sua). Mi ricorda che non è solo un luogo di esternalizzazione della mia memoria ma, in un certo senso, mi contiene, agisce per me e su di me, lo fa dolcemente e comunque, fino a prova contraria, non porta rancore.
Dall’altro lato, tra i possibili salvaschermo trovo Deriva, Raffica, Arabesque, Shell…, tutte soluzioni astratte. A guardarle con attenzione, queste animazioni trovano una serie di precedenti nella storia del cinema. Possono ricordare le sperimentazioni degli anni Venti del Novecento dove i rapporti tra tecnica e natura trovavano una prima importante problematizzazione. Sperimentazioni capaci – come nei titoli di due bei libri sulle avanguardie novecentesche da poco usciti – di esplorare la “potenza del vegetale” e di suscitare un’“emozione puramente visuale”. Oppure – e in modo più pertinente e puntuale – questi salvaschermo riattivano e proseguono la storia del “cinema astratto” dei primi decenni del Novecento e quella del “computer film” degli anni Sessanta.
Ma al di là di questi riferimenti al campo delle arti, i salvaschermo in questione perseguono la deterritorializzazione radicale. Sono scossi da venti incessanti e si spingono, senza che io glielo abbia chiesto, verso un altrove cosmico. Se l’immagine del mio desktop è un establishing-shot dell’Isola di Santa Catalina, a poche miglia dalla Sylicon Valley, questi salvaschermo sembrano voler catturare, in forma diagrammatica e sensibile al contempo, il dinamismo capillare di Gaia, la raggera luminosa di una pseudo-Aurora boreale, gli arabeschi di una semaforica dapprima atmosferica e poi interstellare.
La questione del “salvaschermo” che non ha più come compito quello di salvare lo schermo ma che pure sopravvive nei nostri computer assume un ulteriore fascino se inserita all’interno del dibattito teorico citato in apertura. Come ha messo in evidenza Mauro Carbone, la parola schermo deriva dal longobardo skirmjan che significa “proteggere”. I nostri schermi sono dunque, etimologicamente, ciò che mostra e protegge al contempo, come dire che c’è sempre e comunque una separazione e una dislocazione per ogni display. La pandemia Covid-19 ci ha portato a realizzare, nell’esperienza quotidiana, le verità dell’etimologia. In un duplice processo di mediazione e immunizzazione, ci siamo letteralmente “schermati” nel momento stesso in cui ci mostravamo per tramite del display.
Se la nozione di schermo contiene già in sé l’idea di “protezione”, bisogna dunque chiederci che cos’è oggi, un salvaschermo e, soprattutto, da che cosa intenda proteggere noi, i supporti tecnologici oppure qualcosa d’altro. Al di là del tono semiserio di questo articolo, che cosa fa esattamente il salvaschermo e perché persiste oltre i limiti della sua funzione tecnologica di base?
Ecco tre ipotesi.
La prima, la più scontata. Anche se non protegge più lo schermo dal rischio di una degenerazione chimica, il salvaschermo sopravvive come dispositivo di tutela della privacy dell’utente assente dal desktop. Attivandosi, fa da tendina di protezione, copre la nostra scrivania digitale dagli occhi indiscreti dei familiari o dei compagni d’ufficio. Se negli anni Novanta il bene da proteggere era l’hardware, potremmo dire che oggi è costituito dai dati dell’utente. Per quanto questa ipotesi mantenga una sua concretezza, la tutela della privacy offerta da un salvaschermo è facilmente aggirabile – con un clic – e non sembra giustificarne a pieno la sopravvivenza né fare di lui un “salvatore”. A corollario di tale ipotesi occorre prendere nota di un risvolto ecologico: contro quanto si tende a credere, l’attivazione del salvaschermo non comporta un minore consumo energetico e l’unico modo per risparmiare resta quello di spegnere il supporto in caso di inattività.
La seconda ipotesi può apparire bizzarra, ma di fatto prosegue la precedente spingendoci a pensare lo schermo in relazione all’ambiente in cui è installato. Non sarà forse che – etimologicamente – il salvaschermo protegge la capacità degli schermi di proteggerci da ciò che sta fuori da essi (lo sguardo del capoufficio su di noi, lo shock del reale, il rischio pandemico, etc.)? Ad essere qui tutelata non è più la privacy dei dati ma quella del nostro corpo-utente, i limiti della sua interattività, il bisogno improvviso di fare un sonnellino senza dare nell’occhio oppure di assentarsi dalla propria postazione. Stando a tale ipotesi, il salvaschermo è quel preciso momento in cui lo schermo ammette di non essere solo un display per i nostri occhi, ma anche uno scudo per i nostri corpi precari e/o indisciplinati, una protezione per le nostre condotte. Se non un paravento, è quantomeno un acquario del quale non è neppure necessario prendersi cura, al quale si può tranquillamente evitare di prestare attenzione. Se il momento salvaschermico della performance schermica tende a non attrae la mia attenzione sul contenuto dell’immagine, esso mantiene e rinforza tuttavia la sua efficienza ambientale.
La terza ipotesi è più visionaria e considera come si attivano e come sono fatti. Prima di tutto, il salvaschermo si attiva nel persistere della mia inattività, è una visitazione programmata. È questo il momento di ammettere che l’immagine di copertina di questo articolo non l’ho materialmente presa io dal mio salvaschermo Deriva, ma l’ho cercata e trovata su Google. Di fatto, è impossibile – o quantomeno non immediato – effettuare uno screenshot del proprio salvaschermo. Non appena si premono i tasti per effettuare lo scatto, il salvaschermo si interrompe, finisce l’incantesimo, si riapre il desktop, tornare a lavorare! O lui o me. Nell’epoca della convergenza e dell’intermedialità, il salvaschermo è un residuo inappropriabile, ineditabile e, in questo senso, si può dire che mantiene qualcosa di “auratico”.
Spostando l’attenzione sulle sue forme cangianti, il salvaschermo è uno oggetto mediale capace di viaggiare nel tempo, è una specie di flusso canalizzatore, tra archeologia e futurologia dei media. Come accennato poco sopra, i salvaschermo basati sul display delle immagini che si trovano nei nostri hard disk rimediano il vecchio album di famiglia e prefigurano al contempo le forme di esposizione del privato nei social network contemporanei. I salvaschermo per così dire astratti richiamano invece gli esperimenti delle avanguardie cinematografiche novecentesche ma, allo stesso tempo, prefigurano le elaborazioni grafiche di Google deep dream o di altri progetti di intelligenza artificiale.
Quest’ultima ipotesi porta con sé qualcosa di inquietante. Da quanti anni andrebbe avanti questo “sogno profondo” dei nostri computer, che può riguardare tanto le mie foto di famiglia quanto le forme elementari della flora, della fauna e dei minerali?
Forse i salvaschermo sono la parte maledetta della tecnologia che arriva a emersione, che si trasforma in immagine. O forse, nel loro programmatico e anacronistico apparire, i salvaschermo stanno cercando di dirci qualcosa e non riusciamo a capire che cosa?
Va bene… Continuiamo a chiamarlo così. Ma chiediamoci almeno chi intenda salvare… E da che cosa, da quale pericolo di preciso?