Pubblichiamo la settima puntata di Intemperie*
Come il cambiamento climatico crea le basi per lo sviluppo di una pandemia
A partire da un articolo di The Correspondent possiamo provare ad indagare il “doppio legame” che connette pandemia ed emergenza climatica. Come nota l’autore Rob Wijinberg, esistono quattro interessanti analogie tra i due fenomeni che ci fanno riflettere su quanto siano strettamente legati tra loro. Entrambi sono “invisibili” e hanno un “periodo d’incubazione” che ne maschera la gravità; sono pervasivi, riguardano l’intero pianeta e nessuno può considerarsi distante tanto da non subirne un qualche tipo di conseguenza; colpiscono tutti ma colpiscono le categorie più fragili con particolare violenza provocando fragilità sistemiche; per entrambi, le soluzioni sono globali. Hanno tuttavia una differenza importante: le conseguenze del cambiamento climatico, dopo una certa soglia, sono irreversibili in tempi umani, non esiste un vaccino che possa sconfiggerle. L’autore definisce, infatti, l’emergenza climatica come una “pandemia a rallentatore”.
L’ambiente è un complesso insieme di fattori fisici, chimici e biologici nel quale insistono gli organismi viventi. L’ambiente è influenzato dalle attività umane e questo ha ripercussioni dirette sulla salute degli esseri viventi. In riferimento al Rapporto IPCC del 2019 Roberto Buizza, docente di Fisica alla Scuola Superiore Sant’Anna, sottolinea come negli ultimi 50 anni le concentrazioni di gas serra abbiano subito un aumento sempre più pericoloso (+55% in 120 anni, da 270 ppm nel 1990 a 415 ppm nel 2019), dovuto non solo all’uso crescente di combustibili fossili, ma anche a pratiche che hanno caratterizzato il mondo produttivo fin dalla prima rivoluzione industriale, come il disboscamento per lo sfruttamento intensivo dei terreni agricoli e destinati all’allevamento.
All’origine di questa trasformazione ci sono numerosi fattori. La popolazione mondiale attualmente è di 7,8 miliardi di persone e si prospetta una crescita continua negli anni a venire. Questo provocherà un aumento della domanda di beni di prima necessità a cui seguirà un estremo aumento della produzione, in modo da soddisfare il fabbisogno quotidiano di ogni singolo individuo. Produrre un’offerta di cibo equivalente a quella richiesta vorrà dire possedere ettari di terreno da dedicare ad allevamento e agricoltura, dunque disboscamento. Si riduce così la capacità dei sistemi naturali di assorbire carbonio, creando maggiori condizioni per la diffusione di agenti patogeni.
‹‹In pochi decenni il genere umano ha modificato deliberatamente oltre il 75% della superficie terrestre››. Con queste parole Joyce Msuya, direttrice esecutiva dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) introduce i risultati emersi dal Report Frontiers 2018/19 Emerging issues of Environmental Concern. La velocità di cambiamento è stata così intensa che gli scienziati parlano di una nuova era geologica, successiva all’Olocene, ribattezzata Antropocene. Sebbene la Commissione Internazionale di Stratigrafia non ne abbia ancora ufficializzato il suo ingresso nei manuali di geologia, l’Antropocene è oggetto di numerosi dibattiti in ambito scientifico e umanistico.
Nell’articolo Il chewing gum di Primo Levi. Piccola semantica della resistenza al tempo dell’Antropocene (2020), Serenella Iovino cerca di far riflettere il lettore sulla necessità di un dibattito multidisciplinare sul tema. Se le nostre attività umane hanno addirittura portato a modificare l’aspetto biofisico del pianeta al punto da entrare in una nuova era geologica, è necessario riflettere collettivamente per promuovere “orizzonti culturali alternativi”. Primo Levi parte dalla definizione di resistenza della materia per indurci a riflettere sul suo potere e prendere spunto per resistere in questa nuova era geologica. Secondo Levi gli esseri umani agiscono come gli elementi chimici. La materia è carica di segni che, se letti correttamente, possono essere la chiave per pratiche di resistenza nell’epoca attuale.
Nel suo saggio “Segni della pietra” (1985), in maniera ironica ma persuasiva, Levi discute l’impatto del chewing gum nel mondo. ‹‹Sulle pietre dei marciapiedi di Torino sono inscritte tante impronte del passato: solchi di carri, l’usura dei portoni, i passi d’intere generazioni di pedoni e cavalli, perfino le tracce delle bombe e degli attacchi aerei dell’ultima guerra. I segni sotto i nostri piedi però, non ci parlano solo del passato, ma anche del futuro››. Da questi resti gli archeologi ne ricaveranno dati sul nostro stile di vita. ‹‹Dappertutto, ma più numerose nei tratti più frequentati, si notano sulle lastre delle macchie rotonde, del diametro di pochi centimetri, biancastre, grigie o nere. Sono gomme da masticare››. Ecco il simbolo della resistenza della materia per le sue eccellenti proprietà meccaniche e il suo essere dappertutto, uno strato sottile e irremovibile dell’Antropocene.
Il salto di specie
Virus, batteri, funghi e altri microrganismi svolgono un ruolo fondamentale nei cicli biogeochimici della biosfera. Sono i presupposti per la nascita e persistenza della vita sulla Terra, essenziali per l’ecosistema, vivono al suo interno in maniera equilibrata. Tuttavia, alcuni sono nocivi per la salute umana e in molti di questi casi l’origine è la loro trasformazione che permette il passaggio, denominato spillover (Quammen, 2014), da animali selvatici all’essere umano dando vita a specifiche malattie, denominate zoonosi. Questo passaggio è facilitato dalla progressiva trasformazione degli ecosistemi dovuta alla penetrazione dell’uomo in aree del pianeta prima incontaminate e dalla progressiva eliminazione della biodiversità, e dunque dall’alterazione degli equilibri degli ecosistemi. Spesso all’origine del salto ci sono i pipistrelli, mammiferi con più familiarità con i virus per fattori biologici e dotati di una spiccata socialità che li porta a concentrazioni elevatissime (fino ad un milione in un solo sito) e a diffondere il virus su aree molto estese.
A questo si somma il commercio illegale di specie selvatiche che, a stretto contatto tra loro, consentono al virus maggiori possibilità di combinarsi con specie nuove dando origine a virus letali. Per comprendere l’evoluzione del virus e il suo passaggio a diversi ospiti bisogna sapere che quando il virus infetta un ospite intreccia il proprio patrimonio genetico con quello degli altri virus presenti nell’ospite ma con un corredo genetico diverso.
I virus sono organismi incredibilmente semplici, tuttavia le loro origini non sono chiare. Molti biologi li considerano vere e proprie forme di vita poiché possiedono materiale genetico, si riproducono ed evolvono attraverso selezione naturale. Tuttavia, non sono in grado di riprodursi autonomamente ma necessitano di una cellula ospite come animali, piante, funghi. Poiché non possiedono tutte le caratteristiche di altri esseri viventi vengono descritti come “organismi ai margini della vita” (Galvarni et al., 2020).
A livello ecologico svolgono comunque un compito essenziale, regolando le popolazioni delle specie ospite e garantendone l’equilibrio all’interno dell’ecosistema. Il virus vive in equilibrio con la specie in cui si è evoluto in quanto la morte di quest’ultima comporterebbe anche la morte del virus. Nel momento in cui avviene un cambiamento sostanziale nel virus, in grado di infettare una nuova specie, quest’equilibrio viene meno. Nelle nuove specie ospite è facile che la letalità iniziale sia molto più alta. Come emerge da un report del WWF, il 75% delle malattie umane fino ad oggi conosciute derivano da animali e il 60% sono state trasmesse da animali selvatici. Malattie infettive come quelle causate da Ebola, Sars, Hiv, febbre della Rift Valley, si sono sviluppate in seguito alla distruzione della biodiversità che ha incrementato la diffusione di patogeni in ambiti diversi da quelli d’origine.
Per controllare o prevenire le zoonosi l’essere umano ha spesso ridotto le popolazioni di specie ospite o vettori che trasportano gli agenti della malattia. Questa modalità ha differenti limiti: la resistenza, acquisita, alle sostanze chimiche; l’impatto su specie innocue per l’uomo ma fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi; l’impatto socioeconomico quando si tratta di abbattere animali d’allevamento.
Come la pandemia potrebbe alimentare il cambiamento climatico
Nel bel mezzo di un lockdown globalizzato, vista la forte diminuzione dell’inquinamento dell’aria, ci siamo illusi che ci fosse almeno un lato positivo in questa crisi per la salute del pianeta e dei suoi abitanti. Sulla scorta di questo ottimismo (si pensi ad esempio alle immagini delle tante specie tornate a ripopolare le aree naturali e i parchi delle città) sono state fatte ipotesi su una possibile inversione di rotta sui cambiamenti climatici, ma già dopo i primi mesi di “lento ritorno alla normalità” gli scenari più rosei si sono tinti nuovamente di grigio. Tutte le recenti crisi economiche del Novecento (da quella del petrolio degli anni ‘70, al crollo blocco sovietico, alla crisi finanziaria asiatica degli anni ‘90) sono state accompagnate da riduzioni delle emissioni, ma la successiva ripresa economica ha comportato un aumento maggiore e rapido delle emissioni rispetto al periodo antecedente.
Da uno studio di Nature climate change è emerso come le emissioni di gas serra nel 2020 siano diminuite dal 4 al 7% rispetto all’anno precedente. Una riduzione notevole, eppure non sufficiente. In un articolo del National Geographic di dicembre 2019 si fa riferimento ad un rapporto delle Nazioni Unite che riporta come sia necessario diminuire le emissioni di almeno 7,6% ogni anno, per decenni, per ottenere un risultato sufficiente. Nell’ultimo anno la domanda di petrolio è nettamente diminuita, e il tema delle conseguenze che questa riduzione porterà nella transizione energetica e nell’impatto ambientale sarà centrale per tutte le politiche di sviluppo future.
L’emergenza sanitaria che stiamo affrontando ricorda molto da vicino quella climatica. La salute dell’umanità dipende dalla salute stessa dell’ambiente, e lo abbiamo visto, a nostre spese, osservando come le modifiche ambientali creino un vettore ideale per la diffusione di nuove malattie e virus che possono diventare “globali”. Senza agire per contrastare gli impatti del cambiamento climatico, anche gli sforzi per prevenire ulteriori pandemie saranno vani. Dobbiamo pensare a nuove visioni del mondo che mettano in discussione i nostri sistemi di produzione e il nostro stile di vita a favore di uno che rispetti l’equilibrio degli ecosistemi. Questa pandemia rappresenta un’occasione per pensare nuovi modi di vivere l’ambiente, la salute, l’economia e la politica come fenomeni legati reciprocamente.
L’approccio interdisciplinare è fondamentale nello studio di questo fenomeno. Secondo l’antropologo Quaranta (2012) la malattia troppo spesso è considerata come una mera alterazione nella struttura e nel funzionamento del singolo organismo bio-psichico. Questo approccio, se da un lato ha prodotto alti livelli di efficacia nel corso dei secoli, dall’altro ha occultato le dimensioni socioeconomiche dei fenomeni legati alla salute. Così anche la pandemia da Covid-19 non è solo il prodotto di aspetti biologici ma anche sociali, economici, politici e culturali che ne favoriscono lo sviluppo. Studiarla nel suo aspetto sistemico ci permette di affrontarla e prevenirne ulteriori sviluppi.
Bibliografia
Galvarni M., Antonelli M. e Pratesi I. (a cura di), 2020. Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi. Tutelare la salute umana conservando la biodiversità. WWF Italia Onlus, Roma.
Iovino S., 2020. Il chewing gum di Primo Levi. Piccola semantica della resistenza al tempo dell’Antropocene. Project Muse, vol. 135, n.1, pp. 231-254, Johns Hopkins University Press.
Quammen D., 2014. Spillover. L’evoluzione delle pandemie. Traduzione di Luigi Civalleri, Adelphi Edizioni, Milano.
Quaranta I., 2012. La trasformazione dell’esperienza. Antropologia e processi di cura, in Azzaroni G., Liotta G., Antropologia e teatro, Rivista di Studi, n.3, Università di Bologna.
Selby D. e Kagawa F., 2020, Climate change and Coronavirus: A confluence of crises as learning moment, in Covid-19 in the Global South, pp. 17-28, Bristol University Press.
*Serie realizzata in collaborazione con studenti e studentesse del Laboratorio permanente di Antropologia dei Cambiamenti Climatici, coordinato dall’antropologa Elisabetta Dall’Ò, presso il Dipartimento CPS (Culture, Politiche e Società) dell’Università di Torino.