In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia.
«Il Capo dello Stato ha deciso di istituire una commissione di esperti internazionali per prepararsi alle grandi sfide», ha scritto Le Monde il 29 maggio e i giornalisti hanno aggiunto: «Si è deciso di preferire una commissione omogenea per profili e competenze, per raccogliere le opinioni degli accademici sulle grandi sfide. Ma il loro lavoro non sarà che un mattone tra gli altri, non esaurirà gli argomenti’, hanno rassicurato dall’Eliseo». Perché non mi sono sentito affatto «rassicurato»? Mi è tornata alla mente la Restaurazione, alla quale la Ripresa dopo il lockdown è probabile che assomigli sempre più: come per i Borboni del 1814, è molto probabile che la suddetta commissione, quantunque composta da menti eccelse, non abbia «dimenticato nulla e non abbia imparato nulla».
Sarebbe invece un peccato dissipare troppo rapidamente tutti i benefici di ciò che Covid-19 ha mostrato essere essenziale. In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia. In primo luogo, naturalmente, perché sembra che se ne possa interrompere il funzionamento in un colpo solo. Non appare più come un movimento irreversibile, che non dovrebbe mai rallentare, né, naturalmente fermarsi, pena il disastro. In secondo luogo, perché tutti coloro che si sono trovati rinchiusi in casa hanno capito che i rapporti di classe, che si sosteneva seriamente che fossero stati cancellati, sono divenuti visibili come ai tempi di Dickens e di Proudhon: alla gerarchia dei valori è stato inferto un duro colpo, che aggiunge un nuovo significato alla famosa massima evangelica: «I primi (in cordata) saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi (nella corvée)»[1] (Matteo,19-30)…
Che qualcosa non va nell’economia, si potrebbe dire, lo sapevamo già, da un bel po’ di tempo e non dal virus. Sì, sì, ma la cosa più insidiosa è che adesso diciamo che c’è qualcosa che non va nel modo stesso in cui l’economia definisce il mondo. Quando diciamo che «l’economia deve ripartire», in realtà ci si domanda: «Ma, a proposito, perché mai? Siamo certi che sia una buona idea?».
Ecco, non bisognava concedersi tutto questo tempo per riflettere! Trascinati dallo sviluppo, abbagliati dalle promesse di abbondanza, ci eravamo probabilmente rassegnati a vedere le cose unicamente attraverso il prisma dell’economia. E poi, per due mesi, siamo stati sottratti a questa evidenza, come fossimo un pesce uscito dall’acqua che ha preso coscienza del fatto che il suo ambiente non è l’unico. Paradossalmente, il lockdown ci ha «aperto le porte», liberandoci dalle nostre routines e abitudini.
Di conseguenza, è la fine dal lockdown che diventa più dolorosa. Così come per un detenuto che ha ottenuto un permesso è più insopportabile tornare nella cella cui si era alfine abituato. Ci aspettavamo un grande vento di liberazione, che però ci intrappola nuovamente nell’inesorabile «marcia dell’economia», mentre per due mesi le esplorazioni del «mondo a venire» erano state intense come non mai. Tutto perciò tornerà come prima? È probabile, ma non inevitabile.
Il dubbio che si è insinuato durante la pausa è troppo profondo; si è insinuato in modo troppo ampio; ha preso troppe persone alla gola. Che il Presidente si circondi di un consesso di autorevoli economisti sarebbe apparso, forse, a gennaio, un segno rassicurante: ma dopo Covid-19, non può che suscitare spavento: «Oddio, non ci rifaranno per caso lo scherzo di ricominciare a raccontare tutta la situazione attuale come parte dell’economia?». Cosa vuol dire affidare l’intera faccenda a una «commissione omogenea per profili e competenze»? Ma gli economisti hanno davvero ancora le competenze per capire la situazione così come ci è apparsa dopo questa inaspettata sospensione?
Che l’economia possa essere ritenuta estranea all’ordinaria esperienza degli esseri umani, molti ricercatori e attivisti naturalmente lo sapevano, ma i dolorosi inconvenienti della pandemia hanno reso popolare questa estraneità. Milioni di persone hanno avuto la medesima esperienza di Jim Carrey, l’eroe del Truman Show: hanno finito per sfondare la parete del set e si sono resi conto che il set si era staccato dal telaio metallico che lo manteneva in posizione verticale. Da quell’esperienza, da quel décalage, da quel dubbio, non è possibile riprendersi. Non riavrete mai Carrey sul vostro set una seconda volta – e sperare che «funzioni» un’altra volta!
Finora il termine specializzato per indicare quel décalage è stato «economicizzazione». La vita materiale non è riducibile esclusivamente a relazioni economiche. Gli esseri umani hanno tra loro e con le cose fra cui vivono una molteplicità di relazioni che suscitano una gamma straordinariamente ampia di passioni, scopi, know-how, tecniche e invenzioni. La maggior parte delle società umane non dispone di un termine unitario per spiegare questa molteplicità di relazioni: sono coestensive con la vita stessa. Marcel Mauss da cent’anni, Marshall Sahlins da cinquanta, Philippe Descola o Nastassja Martin oggi: gran parte dell’antropologia non ha mai cessato di esplorare queste piste[2].
Si dà il caso che, in alcune società contemporanee, un importante lavoro di formattazione abbia cercato (senza mai riuscirci del tutto) di ridurre e semplificare queste relazioni, di estrarre da esse alcuni tipi di passioni, affetti, know-how, tecniche e invenzioni, e di ignorare tutte le altre. Usare il termine «economicizzazione» serve a mettere in evidenza questo lavoro di formattazione per evitare di confonderlo con la molteplicità di relazioni necessarie alla continuazione della vita. Significa anche introdurre una distinzione tra le discipline economiche e l’oggetto che è loro proprio (il termine «discipline» è preferibile al termine «scienze» per sottolinearne la distanza). Queste attività procedono alla formattazione, a quelli che possiamo definire «investimenti nella forma», ma non possono prendere il posto dell’esperienza, che esse semplificano e riducono. La distinzione è la stessa che si fa tra la costruzione del set in cui il personaggio di Jim Carrey «prenderà forma» e la diffusione della produzione in cui egli dovrà recitare.
Si è detto spesso che le discipline economiche performano il loro oggetto di studio. Il termine è preso in prestito dalla linguistica per riferirsi a tutte le espressioni che realizzano ciò che dicono con l’atto stesso di dirlo – promesse, minacce o azioni legali[3]. Non c’è niente di strano in tutto questo, e nemmeno di critico. È un principio generale: è impossibile prendere consapevolezza di un oggetto senza averlo prima formattato.
Pochi fenomeni, per esempio, sono oggidì più oggettivi e sicuri di quello dell’asepsi. Eppure, quando voglio dimostrare al mio nipotino di dieci anni l’esistenza dell’asepsi, devo insegnargli tutti i gesti che terranno il brodo di pollo che ha rinchiuso in un barattolo di marmellata al sicuro dalla contaminazione (e questo non è facile da spiegare con Zoom durante il lockdown). Non basta mostrargli le bocce di vetro fabbricate dal vetraio di Pasteur, il cui liquido dopo centocinquant’anni è ancora perfettamente puro. Bisogna che Ulisse ottenga la realizzazione di questo fatto oggettivo apprendendo tutta una serie di pratiche che rendono possibile l’emergere di un fenomeno del tutto nuovo: l’asepsi diventa possibile grazie a queste pratiche e non esisteva in precedenza (ciò creerà anche, per i microbi, una pressione alla selezione completamente nuova). La persistenza dell’asepsi come fatto consolidato dipende quindi dalla persistenza di un’istituzione – e dall’apprendimento, che si svolge nei laboratori, nelle camere sterili, nei laboratori farmaceutici, negli ambulatori, ecc.
Continuando il parallelo, l’economicizzazione è un fenomeno altrettanto oggettivo dell’asepsi, ma è pure come l’asepsi costruito con cura e tenacia. Basta che Ulisse commetta il minimo errore nel bollire il suo contenitore di vetro, o nel chiuderlo, e in pochi giorni il brodo di pollo andrà a male. È la stessa cosa con l’economicizzazione: è bastato lasciarci confinati per due mesi, fuori dai soliti schemi, ed ecco che sono tornate le «cattive abitudini», che hanno cominciato a proliferare le innumerevoli relazioni la cui presenza era stata dimenticata o negata. Sottrarsi al contagio è difficile tanto quanto restare a lungo economicizzabili. La lezione è valida tanto per Covid quanto per le discipline economiche. C’è sempre bisogno di un’istituzione in buone condizioni di funzionamento per mantenere la continuità di un fatto o di una ovvietà.
I microbi non erano preparati a confrontarsi con i gesti barriera contro l’asepsi inventati dai seguaci di Pasteur. Non diversamente gli esseri umani, immersi in rapporti materiali con le cose di cui fruivano, non erano preparati al dressage che a partire dal XVIII secolo l’economicizzazione avrebbe imposto loro. Nessuno può divenire sua sponte un individuo distaccato, capace di calcolare il proprio interesse egoistico e di competere con gli altri in cerca di profitto. Le parole scritte in corsivo si riferiscono a proprietà che hanno finito per esistere nel mondo reale, ma che in precedenza hanno dovuto essere estratte, mantenute, collegate, garantite con uno straordinario concorso di strumenti contabili, titoli di proprietà, business schools e algoritmi. L’homo oeconomicus è come le colonie pure di batteri coltivati in una piastra di Petri: esistono, ma non c’è niente di naturale, originario o spontaneo. Mollate la pressione, ed ecco che l’homo oeconomicus si emancipa, come i virus all’improvviso liberati in un laboratorio senza finanziamenti, pronti a fare il giro del mondo.
Possiamo anche andare oltre. In un libro pieno di humor (e in un recente articolo su Libération), David Graeber suggerisce che l’«economicizzazione» è tanto più violenta quanto più la formattazione è difficile e quanto più gli agenti «resistono» alla sua disciplina[4]. Quanto meno realistica appare l’economicizzazione, tanto più sono necessari operatori, funzionari, consulenti, contabili, revisori dei conti di ogni tipo per imporne l’uso. È abbastanza facile contare il numero di lamiere d’acciaio che escono da un laminatoio: basteranno un occhio elettronico e un foglio di calcolo. Per calcolare la produttività di un infermiere, di un insegnante o di un pompiere, occorrerà moltiplicare il numero di intermediari che rendano la loro attività compatibile con una tabella Excel. Da qui, secondo Graeber, la moltiplicazione dei «lavori inutili».
Se l’esperienza della pandemia ha un senso, è quello di rivelare con quale velocità la nozione di produttività dipende dagli strumenti contabili. Sì, è vero, non possiamo calcolare in modo troppo accurato la produttività di insegnanti, infermieri, casalinghe. Quale conclusione ne traiamo? Che sono improduttivi? Che meritano di essere malpagati e restare in fondo alla scala? O che non importa, perché non è questo il problema? In qualsiasi modo si chiami la loro «produzione», essa è comunque indispensabile e incalcolabile. Lasciate pure che altri facciano i conti con questa contraddizione: significa semplicemente che queste attività appartengono a un tipo di azioni non economicizzabili. La consapevolezza da parte di tutti che questa impossibilità di misurare è «irrilevante» getta ovviamente un dubbio su qualsiasi altra operazione di economicizzazione. È qui che la presa dell’economia sulle condizioni di vita si allontana da ciò che descrive, come un tratto di muro crepato si stacca dalla pittura.
«Ma certamente – diranno i lettori – a forza di discipline economiche che istituiscono l’economia come estrazione dalle relazioni che consentono possibile la vita, noi, in quanto produttori e consumatori dei paesi industriali, siamo diventati, dopo tanta formattazione, delle persone che possono essere economicizzate per intero e senza quasi residui. Forse in passato vi sono stati altri modi di relazionarsi al mondo. Esistono forse negli emozionanti racconti degli etnologi. Ma tutto questo è finito per sempre, in ogni caso è finito per noi. Siamo tuttavia diventati davvero quegli individui egoisti in competizione tra loro, capaci di calcolare al millesimo il proprio interesse?»
È qui che lo shock del Covid ci costringe a riflettere: credere in questa irreversibilità è come credere che i progressi dell’igiene, dei vaccini e dei metodi antisettici ci abbiano sbarazzato per sempre dai microbi. Quello che era vero a gennaio 2020 potrebbe non esserlo più a giugno 2020.
Bastano due mesi di pausa per rendere reale ciò che i lavori dei sociologi del mercato e degli antropologi della finanza non sarebbero mai riusciti a fare: la convinzione ampiamente condivisa che l’economia dura quanto l’istituzione che la performa, ma non un giorno di più. La folla dei modi di relazioni necessarie alla vita prosegue, trabocca, invade lo stretto formato dell’economia, così come l’infinità di virus, batteriofagi e batteri seguitano a connettere, in miliardi di modi diversi, esseri lontani come sono i pipistrelli, i cinesi affamati o gastronomi e finanche Bill Gates e il dottor Fauci. Ecco una contaminazione: da una cinquantina di colleghi a decine di milioni di persone che senza colpo ferire aderiscono ai numerosissimi movimenti, sindacati, partiti e alle diverse tradizioni che già avevano ottimi motivi per diffidare dell’economia e degli economisti (per quanto «esperti», «omogenei» e qualificati possano essere). Lo sfortunato Jim Carrey è diventato una folla.
Ciò che la pandemia rende più intenso, quindi, non è semplicemente un dubbio sull’utilità e la produttività di una moltitudine di mestieri, beni, prodotti e imprese: è un dubbio sulla possibilità di comprendere attraverso i concetti e i formati che provengono dall’economia le forme di vita di cui tutti hanno bisogno per sostenersi. La produttività – il suo calcolo, la sua misurazione, la sua intensificazione – è gradualmente sostituita, grazie al virus, da un tema molto diverso: quella della sussistenza. C’è la svolta, c’è il dubbio, c’è il verme nel frutto: non cosa e come produrre, ma «produrre» è davvero un buon modo di rapportarsi al mondo? Non possiamo continuare a «fare la guerra» al virus ignorando la moltitudine di rapporti di convivenza con esso e non possiamo neppure seguitare a «produrre» ignorando i rapporti di sussistenza che rendono possibile qualsiasi produzione. Questa è la lezione duratura della pandemia.
E questo non solo perché, inizialmente, per due mesi, abbiamo visto sfilare molte bare alla tv e sentito ambulanze che attraversavano strade deserte. Ma anche perché, da una cosa all’altra, dalla questione delle mascherine alla carenza di letti negli ospedali, siamo arrivati alle questioni del valore e della politica della vita: cosa la rende possibile, cosa la sostiene, cosa la rende vivibile e giusta.
All’inizio, ovviamente, si trattava di prevenire il contagio, attraverso l’invenzione paradossale di quei gesti barriera che pretendevano che per solidarietà restassimo confinati in casa. Successivamente, ed è stata la seconda tappa, abbiamo invece iniziato a osservare la proliferazione di quei mestieri umili la cui indispensabilità diventava ogni giorno più evidente: ricompariva la questione delle classi sociali, chiaramente razzializzata. Ritornavano anche i rapporti hard della geopolitica e le disuguaglianze tra i diversi paesi, rese visibili (anche questa è un lezione duratura) prodotto per prodotto, catena del valore per catena del valore, percorso migratorio per percorso migratorio.
Terza tappa. La gerarchia dei mestieri ha cominciato a vacillare: abbiamo iniziato a trovare mille qualità in mestieri mal pagati, mal considerati, che richiedono cura, attenzione e molteplici precauzioni. Le persone più indifferenti iniziano ad applaudire i caregivers. Le persone più indifferenti cominciano ad applaudire medici e infermieri dai loro balconi. Mentre prima si accontentavano di falciare il prato, i managers si dedicano alla permacultura. Anche i padri che si sono riconvertiti al telelavoro scoprono che per insegnare ai loro figli l’aritmetica servono mille qualità di pazienza e ostinazione di cui non avevano mai sospettato l’importanza.
Ci fermiamo qui? No, perché il dubbio sulla produzione ha una via o strano modo di proliferare e di contaminare man mano tutto ciò che tocca: non appena si comincia a parlare di sussistenza o di pratiche di generazione, la lista degli esseri, degli affetti, delle passioni, delle relazioni che rendono possibile la vita non smette di allungarsi. La formattazione tramite l’economicizzazione aveva precisamente l’obiettivo, come l’asepsi, di moltiplicare i gesti barriera per limitare il numero di esseri da mettere in conto, in tutti i sensi del termine. Si doveva prevenire la proliferazione, ottenere colture pure, semplificare i motivi dell’azione, che era il solo modo per rendere i microbi o gli esseri umani conoscibili, calcolabili e gestibili. Sono queste barriere, queste dighe, questi argini che con la pandemia hanno iniziato a crollare.
Questo non sarebbe stato possibile senza la persistenza di un’altra crisi che tracima da tutte le parti. Per una coincidenza non del tutto casuale, il coronavirus si è diffuso a macchia d’olio tra le persone già consapevoli della multiforme minaccia rappresentata per loro da una diffusa crisi dei mezzi di sussistenza. Senza questa seconda crisi, la pandemia sarebbe stata probabilmente considerata un problema serio di salute pubblica, ma non una questione esistenziale: le persone in lockdown sarebbero state attente a non essere contagiate, ma non avrebbero cominciato a discutere se fosse davvero utile produrre aeroplani, continuare a navigare su giganteschi portacontainer, o aspettarsi che l’Argentina fornisse la soia necessaria ai maiali bretoni. Il nuovo regime climatico, aggiunto alla crisi sanitaria, ha messo talmente in dubbio ogni questione produttiva che sono bastati due mesi di reclusione per rinnovare la sfida. Da qui la prodigiosa estensione del tema della sussistenza.
Se la crisi sanitaria ci ha ricordato il ruolo dei mestieri più umili, se ha dato nuova importanza alle professioni assistenziali, se ha reso ancora più visibili i rapporti di classe, ci ha anche gradualmente ricordato l’importanza degli altri partecipanti ai modi di vita, prima di tutto i microbi, e poi – visto che da cosa nasce cosa – tutto ciò che serve per mantenere un’economia che finora avevamo immaginato costituisse la totalità dell’esperienza e perciò destinata alla «ripresa». Anche il giornalista più ottuso, che continua a opporsi a chi ha a cuore il clima e a chi vuole «riempire il frigorifero», non può più ignorare il fatto che nel frigorifero non c’è nulla che non dipenda dal clima. Per non parlare degli innumerevoli microrganismi associati alla fermentazione di formaggi, yogurt e birra…
Una citazione dal libro di Graeber sull’origine del valore (vecchio dibattito tra economisti) riassume la nuova situazione. Ci ricorda che la nozione di valore-lavoro era diventata una cosa ovvia nel XIX secolo, prima di scomparire sotto i colpi del neoliberismo nel XX secolo, un secolo assai smemorato circa le condizioni di vita. Da qui l’ingiustizia sulle cause del valore riassunta in una frase: «Oggi, se si parla di ‘produttori di ricchezza’, tutti penseranno che ci si riferisca ai capitalisti, non certo ai lavoratori». Ma una volta che l’importanza del lavoro e della cura sia stata riportata alla luce, diventa chiaro che molti altri valori, e molti altri «lavoratori», devono passare all’azione se si vuole che gli esseri umani sopravvivano. Per cogliere la nuova ingiustizia, la frase di Graeber dovrebbe essere riscritta: «Oggi, se evocate i ‘produttori di ricchezza’ tutti penseranno che si evochino i capitalisti o i lavoratori, non certo i viventi».
Sotto i capitalisti, i lavoratori, e sotto i lavoratori, appaiono i viventi. La vecchia talpa scava ancora bene! L’attenzione non si è spostata di una tacca, ma di due. Anche il centro di gravità si è spostato. Altre fonti di valore sono venute alla ribalta. Questo è il mondo che appare in piena luce, che si rifiuta assolutamente di rimanere la «mera risorsa» che l’economia standard gli concede di essere, e che straripa oltre tutti i gesti barriera che dovevano tenerlo lontano. Va bene produrre, ma dobbiamo anche esistere! Quella della pandemia è una lezione invero sorprendente: crediamo che sia possibile far la guerra ai virus, mentre invece dovremo imparare a conviverci senza troppi danni per noi. Crediamo che una ripresa economica sia auspicabile, mentre probabilmente impareremo ad uscire dall’Economia, che è unicamente una sintesi semplificata delle forme di vita.
*L’articolo è apparso originariamente su AOC il 30 maggio 2020. La traduzione è di Alfio Mastropaolo.
[1] Latour propone un gioco di parole intraducibile: cordée/corvée [ndt].
[2] La letteratura è immensa. Alla rinfusa : M. Sahlins, Economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1972; P. Descola, L’ecologia degli altri, l’antropologia e la questione della natura, Linaria, Roma, 2013; N. Martin, Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska, La Découverte, Paris, 2016; e per le società industriali, M. Callon (ed.), Sociologie des agencements marchands. Textes choisis, Presses de l’Ecole nationale des mines de Paris, Paris, 2013; T. Mitchell, Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, London and New York, Verso, 2013.
[3] D. MacKenzie, F. Muniesa, L. Siu (eds.), Do Economists Make Markets? On the Performativity of Economics, Princeton University Press, Princeton, 2007.
[4] D. Graebler, Bullshit Jobs., Garzanti, Milano, 2018, e il suo intervento su Libération.