Semiologia e semantica d’una scritta su un muro

Frammenti di città: Roma tra le righe di una scritta su un muro.

Se giunti a Porta Maggiore (Roma) si svolta verso sud-est, imboccando la via Casilina, e si costeggiano, sulla sinistra, un casinò e un paio di grossi lotti d’edilizia popolare, ancora inseriti nelle forme della continuità urbana, si rallenterà di lì a poco davanti a un semaforo.

Le soglie del perimetro che c’imporrà prudenza possono facilmente confondersi coi limiti d’una piazza. Si tratta invece d’un incrocio, risultante dall’inarcatura della via Casilina su se stessa. Ragioni urbanistiche e toponomastiche, forse consce del groviglio, continuano infatti a identificare la presunta piazza sotto il nome rettilineo di via Casilina. Svoltando di nuovo a sinistra, dopo il semaforo, ci si lascia alle spalle un rivenditore di motorini ed accessori connessi, mentre, quasi inconsapevoli, si sosterà – di nuovo al cospetto d’un semaforo – sopra un ponte ferroviario. Sotto di noi scorrono infatti le rotaie verso un meridione prossimo, di Castelli Romani (“s’annamo a mette’ lì Nannì Nannì”) e Ciociaria; basso Lazio, un tempo rustico appannaggio fondiario d’alcuni devoti del Papa Re e rifornitore di balie, provole, ricotte, derivati ovini e masse d’emigranti che dal Ventennio in poi, più o meno coattamente, han popolato il sud-est romano, sotto varie ma coerenti identità: dai bisnonni ancora ottocenteschi (o forse ormai anche trisavoli), saltuari frequentatori dell’Urbe in groppa al mulo o sulla “botticella” (carrozza trainata dal cavallo) – le sporte d’uova, formaggi, erbacce saporite dette cicoria e poco altro da sversare nei mercati urbani; ai nonni, loro già accesi dalla fiammella proletaria, ormai divenuti forza-lavoro, edili, per l’imprese urbanistiche del Duce o nelle circostanti stazioni ferroviarie; ai padri, protomartiri del boom (“innalzò per un attimo il povero a un ruolo difficile da mantenere/ poi lo lasciò cadere…”, diceva Dalla); sino ai figli e ai figli dei figli, secondi, terzi martiri del boom o, se giunti di recente, studenti fuori-sede.

Si sarà capito che siamo alle soglie di “Pasolinide”: regno di mitologici abbracci tra agro romano, palazzacci speculati nel fango, collinette e baracche. Sede, tra le più antiche, del voto comunista a Roma, ma pure – in tempi non così remoti – di piccole e grandi delinquenze, tutte sociologicamente spiegabili e politicamente assumibili in virtù della composizione sociale del luogo che, con diritto, ha costruito la sua identità comunitaria in dialettica – in ragionevole scontro – con la società, poco più a nord, di quelli che li salariavano nel lavoro e li impoverivano nel consumo e nel debito. Comunità popolare, proletaria e comunista, integrata e “moralizzata” attraverso gli schemi e gli “ascensori” di partito, accanto alla comunità marginale, di poveri, delinquenti, poi anche tossicodipendenti (lì vicino c’è il SERT – Servizio Trattamento delle Dipendenze), d’immigrati in maggioranza dal sud-est asiatico, tutti loro non integrati o coinvolti a fatica, sempre lì a testimoniare, per il ferramenta comunista, la necessità della lotta, per la società poco più a nord la strutturale irriducibilità del luogo.

Il viaggio, tuttavia, non è ancora finito. Dal ponte ferroviario, scattato il verde, dovremo ancora girare a sinistra ed imboccare quella che inequivocabilmente sarà la via Casilina, tenendo a destra la ferrovia e avendo di mira la sequela dei quartieri e delle ex-borgate: Pigneto, Tor Pignattara, Centocelle, Torre Spaccata… A noi comunque basta fermarci subito dopo la curva del ponte ferroviario: lì, dove simbolicamente un tempo finiva la città ed iniziavano le sue periferie, stesa lungo il parapetto a protezione dello strapiombo sulla ferrovia, compare la scritta “BASTA GENTRIFICAZIONE! Movida. Sfratti. Spaccio. Controllo”, firmata R.M.A. (cfr. l’immagine d’apertura).

Semiologia. A guardarla di sfuggita — i caratteri neri, spessi, sul fondo bianco — parrebbe una scritta fascista, di quelle correnti in molte aree delle città (“Paolo vive”, “Boia chi molla” e simili).

mamiani

Ma in realtà, se ci si parcheggia un secondo e s’osserva, si capirà che né la modulazione delle linee rette e curve, tipica della moderna grafica fascista (cfr. l’immagine qui accanto), né il segno comunicativo corrispondono pienamente a questa prima impressione. Di più, la scritta è stata apposta in un angolo di muro – alle soglie del mondo urbano che si diceva – tendenzialmente indisponibile ad accogliere messaggi d’ispirazione fascista — anche oggi, credo, che l’attivissimo dell’estrema destra straripa oltre i suoi abituali confini: intorno ad essa e sopra compaiono attualmente scritte e manifesti chiaramente connotati “a sinistra”, o meglio espressione d’una resistenza politica, civica e culturale che fa sistema con l’ambiente e con la tradizione locale. Si legge chiaro un NO TAV sul corrimano del muretto. A sinistra il manifesto d’un concerto nel parco. A destra, in serie, i manifesti d’un’assemblea cittadina sulla crisi greca, firmati da movimenti e partiti dell’universo radicale, nonché dal KKE (il partito comunista greco). Considerata, del resto, la frequenza con cui quel pezzo di muro viene rinnovato nei suoi “annunci”, se la nostra scritta fosse allogena sarebbe stata rimossa rapidamente. Basti questo, dunque, a fugare il dubbio istintivo sulla matrice materiale della scritta. Di più, tuttavia, è la scritta stessa, al suo interno, a presentare una modulazione di segni che al primo sguardo si fatica a sintetizzare. “Basta gentrificazione”, al che credo si debbano immaginare due punti. Basta gentrificazione: movida, sfratti, spaccio, controllo.

Se ne desume che la gentrificazione dell’area abbia portato con sé quella sequela tetrapartita di fatti sociali; a questo punto, rifiutati in blocco dall’autore della scritta in quanto espressione del fenomeno “gentrificatorio”. In un’unica proposizione si rifiuta la movida, la vita notturna del quartiere, i suoi bar, i cine-club, i ristoranti, le sedie lungo l’isola pedonale; poi gli sfratti — la privazione della casa, verosimilmente a causa d’operazioni immobiliari che, sfruttando il valore economico prodotto dalla gentrification, espellono il ceto popolare dai suoi luoghi -, poi ancora lo spaccio — appendice, più o meno regolare, d’una vita sociale ad uso e consumo della nuova gentry, ovvero delle fasce marginalizzate della borghesia più tradizionale, installata a nord, fratelli minori o cugini dell’avvocato di Piazza Mazzini che – invece di dar retta a mamma e papà — hanno deciso di suonare, disegnare, progettare, creare, finendo così per non potersi permettere un affitto od una cena in zone più centrali; infine la scritta rifiuta il controllo, la sorveglianza e la repressione delle istituzioni pubbliche su un luogo divenuto “sensibile” (spaccio e movida) a causa d’un’intromissione “esterna”.

La scritta, in definitiva, convoglia insieme un’ormai indicibile pregnanza di segni, che il dibattito pubblico vuole inconciliabili. “Elementi d’ordine” (che trivialmente riconduciamo alla destra: rifiuto della socialità e dei suoi “rischi”, movida e droga) ed “elementi rivendicativi e libertarî” (rifiuto dello sfratto e del controllo poliziesco). Lasciato il motorino sul marciapiede opposto e passati un paio di munti a pensarci su, la scritta sul parapetto della ferrovia, all’imbocco della Casilina, lascia il suo lettore – lascia me che scrivo questo righe – felicemente perplesso. Essa apre uno squarcio sull’indicibilità, sull’indecifrabilità, sull’incomunicabilità dei linguaggi politici. Un amico, meno suggestionabile, razionalizza il tutto: si tratta di “comunitarismo” opposto al “societarismo”, la comunità del Pigneto invasa dalle leggi della società (stili di vita e mercato), con l’arrivo della gentry di cui sopra, vede spezzarsi i vincoli etici e le pratiche (ben diverse dagli stili) che la sostenevano sino a ieri. Per carità, sacrosanto. Ma credo ci sia dell’altro: primo, non si tratta certo d’un fenomeno nuovo, dunque quel “basta” è proprio un ça suffit!, indica il superamento d’una soglia critica oltre la quale il fenomeno risulta insopportabile; secondo, le immissioni esterne nella zona sono state di vario tipo – l’immigrazione innanzitutto: eppure è solo la gentry ad alterare il panorama; lo scontro allora non è di civiltà, ma sociale. Ed è comunque il linguaggio, la sua sedimentazione storica, a far problema in quella scritta: la cadenza alternata d’ordine e libertà, attraverso i quattro esponenti della gentrification. È comunque il linguaggio a far problema, perché la sua semantica è divenuta quasi intraducibile all’interno dei lessici politici correnti. Né le varie sinistre di governo né quelle “sociali” — credo — saprebbero ridire a modo loro la scritta sul parapetto: le prime, perché probabilmente, ben prima d’arrivare ai contenuti, riterrebbero già troppo ardito scrivere su un muro; le seconde perché forse ancora a disagio, sotto sotto, in quel bisogno d’ordine.

Semantica. Quella che a prima a vista sembrava una scritta dai caratteri fascisti, sembra adesso – accettate l’espressione — un “urlo proletario”. Urlo non perché la scritta sia in se stessa urlata, ma perché strutturalmente anti-discorsiva, se forzata ad iscriversi nei discorsi correnti. Proletario non perché sia necessariamente immaginabile un autore proletario che ne abbia vergato i caratteri, ma perché espressione grafica d’un luogo che ha costruito nei decenni la sua identità urbana intorno al lavoro e alla specifica classe sociale che l’ha popolato e vissuto. Ora, la scritta sul parapetto sembra star lì a significare che, nonostante i notevoli sforzi mistificatorî, le classi sociali sussistono. Il rifiuto della gentrificazione — dei bar, dello spaccio e degli sfratti e del controllo ch’essi si portano appresso — altro non è che il tentativo di resistere all’abolizione politica delle classi sociali, un tentativo d’emergere, come classe, come natura sociale, al di sopra della pacificazione “voluttuaria”. I quartieri lungo la via Casilina vivevano ancora in un universo ed in una semantica dei bisogni (emancipazione dalla povertà e dall’esclusione sociale, raggiungimento di standard abitativi minimi, istruzione e integrazione per i marginali, sicurezza nelle strade, aspettative per le generazioni a venire), quando dal centro — verosimilmente con dolo — è stata imposta loro una semantica del desiderio (etica “voluttuaria”, creazione delle identità individuali attraverso i piaceri, immaterialità dei beni e ancor più dei servizi). In questa faglia – certamente strettissima ma pur sempre faglia — tra il bisogno e il desiderio, tra la vita che deve soddisfare al bisogno e la vita che seda un desiderio, cade l’equivocità della scritta all’imbocco di via Casilina, il suo isolamento.

Scriveva Armando Petrucci: «La scritta murale singola e personale era – e in parte ancora è – quasi sempre opera di scriventi che sentivano — e sentono — il contenuto del loro messaggio come privato — è il caso delle scritte devozionali — o come colpevole — è il caso delle case scritte oscene—  ovvero destinato a una persona sola — è il caso delle scritte erotiche — o ancora di chi sentiva — e sente — se stesso come escluso dalla partecipazione all’opera di scrittura ‘pubblica’ […]» (A. Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Einaudi, Torino 1980, pp. 150-151). La scritta della Casilina, a sfregio del suo carattere apertamente politico, appare oggi proprio così: una scritta singola e personale, come un ex voto o una frase d’amore. La sua “incommerciabilità” con quasi tutti i linguaggi politici correnti smembra di necessità i suoi possibili locutori — che pure sono classe — un po’ a destra, un po’ a sinistra, un po’ nel qualunquismo organizzato. Si tratta, infine, d’un’ “incommerciabilità” figlia del tradimento che è stato perpetuato nei confronti di quel linguaggio. La troppo imprecisa e troppo rapida commistione teorica di bisogni e desideri è, infatti, idea germogliata in seno a una precisa tradizione tardo-comunista ed applicata, in seguito, da una precisa prassi politica post-comunista che ha creduto d’includere i margini iscrivendoli nel circolo del desiderio, senza prima averli soddisfatti nel bisogno. Per capirsi, una prassi che ha “riqualificato” aprendo bar e ristoranti — nel mai risolto complesso italo-comunistico di coniugare “capitale buono” e società attraverso per l’appunto i piaceri e la “cultura”—, quando invece c’era ancora da prender i bambini e portarli a scuola.

Print Friendly, PDF & Email
Close