Scuole senza fondo

Tra i tanti paradossi che caratterizzano l’autonomia organizzativa delle scuole rispetto alle loro capacità di spesa, un ruolo non secondario è svolto dal Fondo d’Istituto. E la razionalizzazione delle spesa, si sa, è un’importante dispositivo retorico neoliberista…

Il 2 febbraio la Repubblica ha pubblicato un articolo in cui si denuncia il fatto che, in pratica, alle scuole vengono dati soldi che poi non vengono spesi. Peccato che Repubblica semplifichi una questione che meriterebbe, invece, un’analisi un po’ più approfondita. L’articolo parla del fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF), che comprende il FIS (Fondo d’Istituto), le risorse per finanziare le funzioni strumentali (insegnanti che si occupano di organizzare e monitorare i progetti previsti dal Piano dell’Offerta Formativa), i fondi destinati alle aree a rischio e a forte processo immigratorio, le risorse per retribuire gli incarichi specifici per i collaboratori scolastici, le ore di sostituzione dei colleghi assenti e le indennità per i turni notturni e/o festivi. Può sicuramente esser vero, come scrive Repubblica, che alcuni fondi non vengono utilizzati, ma è poco probabile che accada perchè la scuola non sa cosa farsene. Più spesso accade, invece, che arrivino, tutti o in parte, ad anno scolastico avanzato, rendendo difficile riprogrammare le attività che tale fondo andrebbe a finanziare. In che senso? Proviamo a spiegare in breve quello che anche Repubblica avrebbe dovuto, per correttezza, illustrare. Prendiamo, per comodità, il solo Fondo d’Istituto.

Il Fondo d’Istituto (che, lo ricordiamo, non è un regalo del Ministero, ma viene decurtato in busta-paga ai lavoratori della scuola) serve per permettere alla scuola di svolgere le attività previste dal suo piano formativo; con la contrattazione integrativa d’istituto si stabilisce come distribuire i vari incarichi e le ore necessarie per portare avanti i vari progetti. Poiché l’anno scolastico inizia a settembre, è a settembre che tali attività dovrebbero venir programmate ed è a settembre che la contrattazione d’istituto dovrebbe essere fatta. Succede, però, che i fondi non vengano stanziati a settembre: quest’anno, per esempio, sono stati assegnati a dicembre, ma solo in parte. Come fanno, quindi, le scuole a contrattare su fondi che non hanno? Possono fare una ipotesi di contrattazione, poiché questi fondi si basano su parametri standard, dunque è possibile calcolarli e stabilire, almeno, delle ipotesi di utilizzo, dei criteri di contrattazione su basi proporzionali, inserendo clausole che prevedano come redistribuirli in caso di loro aumento o diminuzione. La contrattazione, o anche questa ipotesi di contrattazione, stabilisce comunque una progettazione delle attività, e su tale progettazione si basa la scansione dei progetti durante l’anno, gli impegni degli insegnanti per attività extra, ecc…

Se ad aprile arrivassero anche il triplo dei fondi previsti (parlando per assurdo, perché lo scorso anno a marzo è arrivato solo il saldo), se anche succedesse, come potrebbe la scuola modificare tutta una progettazione a fine anno? Ci sono insegnanti che hanno dato disponibilità ma che poi magari hanno preso altri impegni, studenti che non sono pacchi da piazzare in progetti intensivi solo perchè i soldi sono arrivati. Parliamo di persone, non di robot che si riprogrammano premendo un bottone!

Lungi dal voler difendere i presidi (ops, “dirigenti”), colpevoli a mio avviso di non denunciare la politica ministeriale di distruzione dell’istruzione pubblica (anzi in taluni casi di seguirla ciecamente), bisogna comunque dire il Miur non li mette nelle condizioni di gestire al meglio le risorse. D’altra parte, se il preside non indìce la contrattazione, è compito dei rappresentanti sindacali attivarsi per contrattare in tempo utile per programmare le attività e ripartire i fondi. Succede che a volte non abbiano tempo (o voglia, a pensar male) di scontrarsi con dirigenti e direttori amministrativi (ma se non lo fanno cosa ci stanno a fare?). La questione, quindi, è un po’ più complessa di quanto scrive Repubblica, che ha dimenticato di dire che ciò che, questo sì, capita di frequente, è che gli insegnanti svolgano attività (corsi di recupero, progetti ecc..) senza la minima certezza di poter essere remunerati, e non è raro che vengano pagati dopo mesi e mesi. L’articolo di Repubblica ha avuto il merito, però, di dare vita a simpatici scambi di battute, per esempio tra un’associazione di dirigenti e un sindacato. Simpatico perché non saprei chi dei due salvare: tali dirigenti che chiedono più autonomia affinché la scuola-azienda possa essere più efficiente, o tale sindacato che vuole “tutelare il salario fondamentale” quando gli pare.

L’articolo di Repubblica è assolutamente degno di interesse per un altro aspetto. Il tono dell’articolo, infatti, non da adito a dubbi: queste scuole che si perdono i soldi, milioni di euro che appaiono e scompaiono magicamente, perché “la gelida verità che emerge dai numeri duri e crudi” è che i soldi ci sono ma la scuola pubblica non li sa usare. Queste scuole pubbliche ladrone e incompetenti! Il tutto sembra pericolosamente in linea con le denigrazioni del pubblico come fonte di spreco, di ruberie, di malagestione, di pozzo senza fondo in cui finiscono “le nostre tasse” e porta con sé il ritornello “se fosse privato non succederebbe” che abbiamo imparato ad ascoltare prima delle grandi privatizzazioni delle ferrovie e delle poste e che ora ascoltiamo in merito, per esempio, alla sanità pubblica. E questo fa il paio con lo scrivere che i genitori hanno sempre meno soldi per le ripetizioni private, che avalla l’idea che sia normale doversi pagare le ripetizioni, alla faccia dell’educazione gratuita e di qualità per tutti e tutte. Genitori che, lo ricordiamo, sono già “liberamente costretti” a pagare il contributo “obbligatorio volontario” all’iscrizione, fatto che già alcuni sindacati hanno denunciato anno scorso. Forse quello che vorrebbero taluni è una scuola privata composta di studenti di famiglie danarose e che sappia “meritarsi” i fondi del Ministero (vedi ideologia della meritocrazia e dei test).

Come ultima annotazione, segnalo che, comunque, il Miur e anche determinate regioni non hanno evidentemente problemi di liquidità, se possono stanziare qualche milioncino di euro per “la scuola digitale”. Evidentemente i soldi per questi attrezzi digitali da qualche parte saltano fuori, per la gioia delle multinazionali che li producono e li vendono e con buona pace degli insegnanti che si arrabattano in classi sempre più numerose, senza personale sufficiente a supportare gli studenti con disabilità o non madrelingua, senza scatti di anzianità e senza ferie pagate. È il capitalismo, bellezza, altro che “un segnale di grande speranza per il futuro dei nostri giovani”.

 

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