Di seguito la terza finestra sulle realtà culturali che stanno presentando il progetto #apparecchioper al bando Che fare. Dopo il contributo di Macao Mi e l’Ex-Asilo Filangeri, oggi concludiamo con il Sale Docks di Venezia.
Dalla critica istituzionale all’invenzione istituzionale
Usando un termine di paragone storico-artistico, la vicenda dei teatri e degli spazi culturali occupati è descrivibile come un salto dalla Critica Istituzionale all’invenzione istituzionale. Una tensione rintracciabile da nord a sud, da Milano fino a Napoli passando per Venezia e dunque anche per Sale-Docks.
Questo salto è anche quello di una distanza storica. La critica istituzionale nasceva negli anni ’60, era opera di artisti, procedeva dall’interno dell’istituzione e sebbene uno dei suoi scopi fosse proprio quello di problematizzare l’autonomia dell’arte, ricontestualizzandola all’interno dei rapporti sociali del suo tempo, cionondimeno il modello di produzione istituzionale rimaneva l’unico in campo.
Lungi da noi sminuire quella “corrente” artistica, ma l’invenzione istituzionale avviene in un altro tempo e con altre prerogative. Avviene al tempo della crisi dell’istituzione, dove il museo vuole farsi territorio (insistendo sulla retorica della porosità), avviene dopo l’invenzione della città creativa (che cattura il capitale simbolico collettivo e gentrifica), avviene dopo la classe creativa (con il suo indice bohemien e la sua ottimistica descrizione delle sorti del lavoro vivo cognitivo), avviene nel momento della produzione dell’artista quale singolarità ready made (per dirla con Claire Fontaine), ma soprattutto avviene nel momento in cui il lavoratore culturale è imprigionato all’interno del dispositivo binario della soggettivazione neoliberista: si può scegliere se voler essere un parassita dello Stato in attesa di un welfare che non verrà, oppure un dinamico imprenditore di se stesso che fa surf sulle secche della crisi.
Quando, nel 2007, abbiamo occupato l’ex Magazzino del Sale n.2, in Punta della dogana, a Venezia, non avevamo in mente l’invenzione istituzionale (sebbene in quegli anni il lungimirante dibattito dei centri sociali si concentrasse molto sul tema delle istituzioni del comune), né pensavamo alla singolarità ready made, ma volevamo trovare una risposta dentro e contro la “fabbrica della cultura” veneziana, costruita, come sempre quando si parla di industrie culturali, sulla precarizzazione selvaggia e sul massiccio ricorso al lavoro gratuito. Al legame tra arte e rendita immobiliare, che annualmente rifiorisce nel business degli affitti per mostre in occasione della Biennale, volevamo rispondere con la riappropriazione diretta di uno spazio inutilizzato, uno spazio che avrebbe probabilmente incontrato un destino di messa a valore nell’economia dell’evento o, peggio ancora, di alienazione e privatizzazione.
Abbiamo capito in seguito che l’esperienza del Sale rispondeva anche alla necessità di interrompere i flussi della soggettivazione neoliberista: sia quelli che producono l’artista come singolarità ready made, sia quelli che producono il lavoratore culturale come improduttivo parassita statale o moderno imprenditore del sé. Contro queste possibilità, gli spazi culturali occupati sono il divenire di un’alternativa, la costruzione di nuove forme di vita per chi si occupa di cultura, la volontà di sottrarre la cooperazione alla valorizzazione capitalistica. In questo senso potremmo definire la grande diversità di cose che accade in questi spazi con una formula: pratiche culturali del comune.
Oggi, quasi sette anni più tardi, abbiamo conquistato un’assegnazione temporanea del Sale. Sulla carta (ma sappiamo che le cose possono cambiare in fretta) lo spazio è al sicuro fino al 2020.
Questa sicurezza, però, non può significare cristallizzazione. Prima di tutto deve continuare (e magari crescere) la pratica della connessione con i movimenti, con i centri sociali, con chi si batte contro le grandi navi, con le reti degli occupanti di case, con Rebiennale (progetto di riutilizzo dei materiali dismessi della Biennale). E’ questa la nostra “porosità” con il tessuto sociale in cui siamo inseriti, è una “scelta di parte” che permette al Sale di pensarsi quale dispositivo culturale per una reale trasformazione della città.
In rete con gli altri spazi o teatri abbiamo rinnovato la tensione alla creazione di nuove forme istituzionali che superassero il binomio pubblico/privato. Del resto “Apparecchio per” è esattamente un’ipotesi progettuale in questo senso. L’idea di fondo è quella di immaginare un istituzione come concatenamento tra tre spazi diversi, in tre città diverse, funzionante attraverso una piattaforma on line che garantisca
− Un accesso più ampio possibile alle risorse materiali e al know-how degli spazi.
− L’utilizzo dei progetti prodotti senza copyright e accessibili dall’archivio.
− La possibilità di finanziare progetti attraverso il crowdfunding.
− La creazione di un reddito integrativo attraverso una moneta digitale.
Certo, questo esercizio di progettazione politica non esaurisce il tema delle istituzioni del comune: crowdsourcing, condivisione, orizzontalità, monete digitali, sono tutti termini e strumenti che vanno utilizzati in chiave non ideologica. Il capitalismo cognitivo ha imparato a imbrigliare la cooperazione con i social network come con l’algoritmo di Google, la stessa rappresentazione della rete quale orizzontalità è del tutto illusoria (Grillo dovrebbe dirci qualcosa in proposito), le monete di prossimità non fermano la speculazione edilizia, i bitcoin sono oggetto di speculazione e fanno esplodere bolle finanziarie, il crowdsourcing non lo usano solo gli autori che vogliono creare un contenuto libero dalla filiera clientelare (nel caso di finanziamenti pubblici) o dalla pressione commerciale (nel caso di sponsor privati), ma lo utilizzano anche le industrie culturali quando esternalizzano al pubblico (o ai pubblici) funzioni prima retribuite come lavoro.
Allo stesso modo, per essere efficace, l’uso politico del diritto può essere imposto solo in presenza di rapporti di forza sociali ad esso favorevoli. Dire che siamo spazi costituenti (o istituenti) significa comprendere la complessità della sfida e la necessità di lavorare su più piani. Significa costruire la forza per imporre nuovo diritto, ma anche concepire il diritto come qualcosa che non sia immediatamente sovrapponibile alla legge. La creazione e la vita di spazi non normati rimane una priorità.
L’ambizione verso l’invenzione istituzionale non esclude, infine, la critica e l’attacco al modello vigente della produzione culturale. I nostri spazi non sono all’esterno del processo della produzione del valore, sia perché l’economia dell’evento è in grado di accelerare processi di speculazione immobiliare e di cambiare in peggio il volto di intere aree urbane, sia perché i processi di cattura hanno assunto contorni tanto grotteschi da far sì che una Biennale (quella di Berlino) si organizzasse il proprio Occupy come parte del integrante programma. Senza contare, ovviamente, che molti attivisti di questi spazi sono lavoratori che conoscono dall’interno il sistema economico legato all’ambito culturale.
Per questo seguiamo un doppio movimento, mentre immaginiamo apparecchi per costruire istituzioni culturali del comune, spingiamo l’inchiesta e lottiamo per la redistribuzione sociale del valore prodotto nelle industrie culturali. Che lo si faccia occupando un museo, bloccando l’inaugurazione di una Biennale, organizzando un seminario, recuperando uno spazio a rischio speculazione o intercettando dei fondi attraverso un progetto che rovesci le logiche imprenditoriali, vi è una comune necessità: quella di uscire dall’angolo, di rifiutare e sovvertire il dispositivo soggettivo neoliberista.