Il reportage di un precario della logistica di Amazon. Terza puntata.
Lunedì 18 dicembre è il cyber Monday, il giorno dei saldi dedicato agli sconti sui prodotti elettronici. Hard disk, chiavette usb, auricolari e casse Bluetooth, e via su fino ai portatili e alle smart tv. Arriviamo sotto un cielo color del piombo, le previsioni hanno messo pioggia, i fissi guardano il cielo e scuotono le teste. Forse il tempo regge, mi azzardo a dire. Mi ridono in faccia. Quando partiamo con i furgoni per raggiungere il magazzino di Amazon però ancora non piove. Incrocio le dita. Nel piazzale di carico c’è più casino del solito, i corrieri corrono e imprecano perché hanno fretta di partire, gli impiegati di Amazon se la prendono con i capi, i capi urlano in faccia ai corrieri, i corrieri rispondono a brutto muso. Il cielo si incupisce ancora di più, la mia rotta è stracarica, a malapena entra nel furgone, riesco a caricarlo per tempo e a partire, accaldato e fradicio di sudore, e sì che l’aria del mattino è fredda e umida. Esco dal magazzino mentre comincia a tuonare in lontananza, oltre l’autostrada. La zona è buona, mi è toccata la periferia di Prato. Poteva andare molto peggio. Forse i fissi si sbagliano, forse non pioverà. Incrocio le dita, e per un’oretta buona mi va bene. Poi si alza un vento gelato e comincia a piovere. Viene giù a folate, leggera e fitta, come una cortina. La prima consegna sono tre pacchi in uno studio di un architetto, io sono ancora sudato del carico. Il tempo di tirarli giù dal furgone e sono già bagnato fradicio, ma ho addosso indumenti adatti, pagati l’ira d’Iddio, e una volta rientrato in cabina alzo il riscaldamento fino a soffocare e bene o male riesco ad asciugarmi. Ma non sono neanche le dieci di mattina e il tempo non pare intenzionato a rimettersi. E non lo farà. Ho sempre amato la pioggia, e non solo in casa, al caldo, a vederla battere sui vetri della finestra con una tazza di the in mano. Mi piace anche camminarci dentro, farmici avvolgere. Non porto mai ombrelli, solo felpe o giacconi con il cappuccio. La pioggia purifica e rende forti, diceva il maestro in un vecchio film di arti marziali di cui non ricordo il nome. Sempre stato d’accordo. Ma le mie passeggiate sotto l’acqua, lo ammetto, sono sempre stati tragitti brevi, limitati nel tempo, due passi fino al bar, o verso il supermercato. Ora devo destreggiarmi nel traffico con un furgone da otto metri cubi di carico, e svuotarlo pian piano, e consegnare i pacchi.
La pioggia aumenta di intensità, si fa temporale. Che ci faccio qua, mi dico. Gli anni dell’università buttati nel cesso, i tirocini di giornalismo, tutti inutili, Proust e Mishima, Dostoevskij e Cechov, la musica e i film d’autore, e mi ritrovo a scaricare paccottiglia sotto la pioggia. Io, il fine intellettuale di questo gran cazzo. Mi guardo intorno. Sono solo, in mezzo al diluvio. Il cartone dei pacchi si spappola, gli adesivi dei codici si staccano, gli indirizzi diventano illeggibili. Ogni fermata è un calvario, il device va continuamente in palla, devo chiamare il centralino per settare la consegna come avvenuta, ma questo vale per tutti i corrieri e il centralino è intasato. La pioggia che si era fatta temporale ora sembra una burrasca, il traffico impazzisce e poi si paralizza, i tergicristalli non riescono a smaltire le raffiche, non si vede a due metri dal parabrezza, non riesco neanche a leggere i civici sulle case. Le consegne procedono lentissime, il device non vuole saperne di ricaricarsi, mi dice che la presa è bagnata, e grazie al cazzo. Non so immaginare cosa dovesse succedere se si spegnesse; sarei bello che fottuto, con un furgone pieno, senza mappa, senza assistenza, coi pacchi fradici, un’arca alla deriva. Arriverà il Dio di Israele a salvarmi? Non vuole saperne di smettere di piovere. Viene giù come una piaga biblica, ormai da quanto, tre ore? Ha mai piovuto così tanto e per così tanto tempo nella storia dell’umanità? Il Dio dei corrieri non si vede, rimane lassù dietro le nuvole nere a rovesciare acqua e fulmini come lo Zeus dell’Olimpo, e oggi non c’è da sperare neanche in un aiuto più terragno, da parte dei colleghi, che nel frattempo saranno tutti affogati. Continuo il mio giro a passo d’uomo, ogni volta che esco dal furgone è una doccia, sono bagnato fino dentro i calzini, gli indumenti tecnici, pur ottimi hanno ceduto. I tombini hanno ceduto anche quelli, i marciapiedi sono allagati, e quando hai l’acqua fino ai polpacci non c’è scarpa antinfortunistica che tenga. Almeno con questo casino capi e capetti non chiamano di continuo per tartassarti, la punizione divina colpisce tutti, saranno affogati anche loro. All’ora di pranzo, che in genere salto, non ho completato forse neanche un quarto del percorso, decido che ne ho abbastanza. Mi fermo a lato di una strada deserta e smangiucchio una barretta, bevo un po’ d’acqua, fumo una delle sigarette che ho prudentemente lasciato nel cruscotto insieme all’accendino; altrimenti a quest’ora sarebbero pappa. Mi tolgo un indumento per volta, il giaccone, la felpa, i pantaloni, i calzini, li metto ad asciugare sul riscaldamento che sembra un vortice. Nella cabina si muore dal caldo, i vestiti evaporano, si soffoca quasi, ma va bene così. Riesco perfino ad asciugare e a caricare il device. Guardo la strada battuta dal nubifragio, fumo ancora, accendo la radio. L’allerta è massima, codice rosso, regione allagata. Mi viene da ridere, non me n’ero mica accorto. Dopo un’ora riparto, non dico asciutto, ma almeno non fradicio. Tutto inutile. Alla prima consegna sono d’accapo, e mi rassegno. Cominciano a farmi male le gambe e le spalle, sento salire la febbre. Banno dalla lista le aziende chiuse, non è giornata da tentare ripassi. Appronto una scatola e ci metto i pacchi non consegnati. La giornata lentamente finisce, verso le sette smette di piovere. Sono in ritardo di almeno un paio d’ore, ma eccettuati i ripassi ho finito il giro, e senza uno straccio d’aiuto. Ho la tosse, mi cola il naso, la debolezza mi assale. Mi chiama un capo, gli dico che sto rientrando. Arrivo in sede e trovo i colleghi, anche loro con pacchi non consegnati, qualche fisso ne ha più di me. Il magazzino rimbomba di musica techno commerciale. Ma come cazzo fanno a lavorare con questo casino di merda, chiedo a un collega rockettaro. Neanche lui si capacita. Mollo la scatola dei resi, ne hai riportati parecchi, mi dice un impiegato di Amazon. Lo guardo, allibito, è asciutto, non si è schiodato del magazzino. Ingoio a stento una raffica di bestemmie, penso a qualcosa da rispondere. Alluvione, punizione divina, allagamento, le parole mi roteano in testa, ma non dico niente.
Riporto il furgone alla base, torno a casa, metto ad asciugare i vestiti, faccio una doccia bollente. Non ceno neanche, sprofondo nel letto. Ho gli incubi, sogno Firenze allagata, invasa da plesiosauri, squali, mostri marini. La mattina dopo ho la febbre a trentotto, chiamo il medico e mi metto in mutua per il resto della settimana. Una sera vado a vedere l’ultimo film di Ken Loach. Parla dei corrieri in subappalto per le multinazionali nell’Inghilterra profonda. Tema interessante. Loach descrive una vera e propria tragedia. Le condizioni dei nostri equivalenti oltremanica a quanto pare sono ancora più dure: finte partite iva, multe pesantissime, affitti dei furgoni esorbitanti. Almeno da noi i dipendenti hanno il loro bravo contratto nazionale. Da noi non è passato il rullo compressore del thatcherismo. Dopo questa esperienza di cinema civile, mi devo confessare: sono colpevole. Sono un cliente Amazon prime. Non mi limito a comprare roba on line, ho addirittura l’abbonamento che quella roba me la fa arrivare l’indomani. In mia discolpa posso dire che in genere cerco quello che non riesco a trovare nei negozi fisici. Certi cinturini di nylon per i miei orologi che gli orologiai non tengono, libri che in libreria arriverebbero dopo quindici o venti giorni a prezzo pieno, paccottiglia elettronica a prezzi stracciati. Ma lo ribadisco, Vostro Onore, sono colpevole. Sono un complice del sistema che carica le rotte, sono io, anch’io, che spingo il pedale dei furgoni dei corrieri, e non solo il mio, fisicamente, ma anche quello dei colleghi che consegnano a casa mia. È colpa mia, anche, se i colleghi fanno la vita che fanno. Malissimo, mi dice Loach, dal sedile posteriore dell’auto. Dovresti disdire l’abbonamento. Vorrei dirgli di stare un po’ zitto, sto andando al lavoro, ho la musica accesa. Change of ideas, change of ideas, What we need now is a change of ideas, urlano i Bad Religion dallo stereo. Sono pure compagni tuoi, no, quei vecchi punkettoni, fammeli sentire. Ho gli occhi pesti, mi aspettano nove ore di sbattimento e non sono in vena di prediche, il contratto è finito, tra due giorni è Natale. E poi qual è l’alternativa, chiedo al regista, la Corea del Nord? L’economia pianificata? Un mio vecchio amico diceva che ci si ritrova con gli arsenali pieni di missili e le code per il pane. Mi sembra pure peggio, no? Faresti meglio ad ascoltarlo, mi dice il ragazzo accanto a me. Ha i capelli lunghi, gli anfibi sul cruscotto. Stai zitto anche tu, coglione, che non sai un cazzo di come gira il mondo. A te piacciono invece, le prediche, vuoi che non me lo ricordi? A che ti serve vedere i film impegnati se non ci rifletti sopra, mi risponde il ragazzo, saccente e indisponente come sanno essere i ragazzi. Tira i via i piedi dal cruscotto, gli dico, e metti la cintura. Alzo il volume, così non sento i due ciarlare fra loro. Davvero, non sono in vena di prediche. Arrivo alla sede, parcheggio. Il vecchio è sparito, il ragazzo lo lascio in macchina con gli anfibi sul cruscotto. Vai a lavorare, povero bischero, mi dice. Io alla tua età farò lo scrittore. Le bollette me le pagheranno i lettori. Lo guardo, gli faccio una carezza sui capelli lunghi. È saccente e indisponente, ma spero di ritrovarlo in macchina, alla fine del turno, quando avrò più bisogno di lui. Mentre me ne vado lo stronzetto riaccende lo stereo. Change of ideas, change of ideas, What we need now is a change of ideas, urlano ancora i Bad Religion.