Sui confini d’Europa #9

Voci da Lesbo, Alcatraz per ventimila innocenti.

Foto di Stefano Stranges, Hotspot Moria, Lesbo

Sull’isola soffia un vento gelido, la pioggia ti arriva in faccia e piega gli alberi, dal mare si alza un ululato di tempesta, talmente forte che non riusciamo a sentirci. La bocca chiusa, i cappucci ben calati sulle orecchie, guardiamo l’orizzonte: all’alba sono arrivati dei gommoni carichi di siriani che si sono buttati sulla spiaggia tremanti, l’espressione smarrita, i vestiti fradici. Uno spettacolo che non dimenticherò mai. Un bambino e una ragazzina non parlavano, lo sguardo vuoto, immobili. Gli operatori umanitari li hanno messi uno vicino all’altra pensando che fossero fratello e sorella ma non era così: erano soltanto soli, sotto choc. Gli uomini avevano il volto cupo, alcuni adolescenti sfogavano l’adrenalina facendosi selfie, una donna era svenuta, la faccia bianca come la cera. Una bimba, avrà avuto sei anni, mi sorrideva piena di fiducia mentre le cambiavo la maglietta bagnata: i suoi occhi mi dicevano che dopo tante sofferenze si sentiva finalmente al sicuro, in Europa. Ho provato pena; e soprattutto ho provato vergogna.

Era marzo del 2016 e Lesbo da un anno viveva la prima lunga ondata di sbarchi (sono 850mila le persone arrivate in Grecia via mare nel 2015 secondo l’Unhcr), tantissimi volontari e ong facevano la staffetta per prestare soccorso e portare aiuti. L’hotspot di Moria era già pieno, i profughi affollavano alberghi vuoti, altri campi venivano allestiti in diverse zone dell’isola, a Skala Sykaminias, a Kara Tepe, lungo la costa che si affaccia verso la Turchia. È temporaneo, si diceva, è per l’emergenza. Intanto l’Europa firmava il patto con Erdoğan, sei miliardi di euro promessi al sultano per chiudere le frontiere turche e contenere le migrazioni.

Foto di Stefano Stranges

Quattro anni dopo, la situazione è oltre il limite di sopportazione. Tornare davanti ai cancelli di Moria e vedere gli ulivi piegati dalla spazzatura, i bambini che si arrampicano sulle rete di protezione esterna ormai ridotta a un colabrodo, è impressionante. Quello che nel 2016 mi era sembrato precario ora è impudrito, crollato, collassato su se stesso. Le strade si sono trasformate in un impasto di fango e rifiuti, le tende sono lacere, l’acqua sporca dalle colline scende viscida verso valle, le latrine sudice hanno le porte rotte, là dove c’era un ruscello ora ci sono soltanto bottiglie di plastica, scatolame e scarti che marciscono. Moria, pensato per 2500 rifugiati, è diventato il campo più grande d’Europa: nell’hot spot e sulle colline intorno sopravvivono ventimila persone, un numero che fa impallidire persino la giungla di Calais, arrivata al massimo a ottomila. Più della metà sono bambini, alcuni anche in condizioni critiche, con malattie croniche e potenzialmente mortali. Nessuno si può spostare da qui senza il permesso delle autorità e quasi tutti hanno il “bollino rosso” sui documenti, un “alt” chiaro anche per chi non capisce la lingua. Tutto è bloccato dalla scorsa estate e con la nuova legge sull’immigrazione, in vigore l’1 gennaio 2020, rientrare nelle categorie suscettibili di protezione umanitaria è diventato sempre più difficile; dal 1° marzo al 10 aprile, inoltre, il governo ha bloccato del tutto la possibilità di fare richiesta di asilo, in barba alla Convenzione di Ginevra. Davanti alla costa, la Guardia Costiera accoglie i barconi con bastoni e pallottole di gomma, a terra estremisti di destra aizzano gli isolani contro migranti e operatori umanitari, aggiungendo terrore a disperazione.

Foto di Stefano Stranges, Inside the tent of a family from Afghanistan, Moria Refugees Camp

Lesbo, la letteraria isola di Saffo dalle spiagge bianche è diventata un’Alcatraz per innocenti, una Guantanamo per gente che scappa dalla guerra, un pezzo di terra in fondo all’Europa che nessuno di noi avrebbe mai voluto vedere.

Basel ha costruito con le sue mani una tenda-ristorante dove serve falafel: mentre li cuoce su un fornello precario, ci racconta che è arrivato qui tre mesi fa da Idlib, in Siria, ultima sacca di resistenza contro Assad. Faceva il meccanico a Damasco ma era ricercato dal regime; per salvare la sua famiglia dalla vendetta del dittatore, prima di scappare a Idlib nel 2016 ha dovuto divorziare dalla moglie. Fare falafel gli risparmia l’umiliazione di chiedere cibo, dice, e intanto gli occhi gli si riempiono di lacrime. Waled è un agronomo, in Afghanistan lavorava per il Ministero dell’Agricoltura quando i talebani sono entrati in casa sua e gli hanno preso la figlia. Un rapimento lampo che si è concluso poche ore dopo, un avvertimento che Waled non ha sottovalutato: ha fatto i bagagli e il giorno dopo era già all’estero. Gli estremisti lo considerano un nemico della patria e, per la furia di esserselo lasciato sfuggire, hanno ucciso suo nipote. Lui da cinque anni si sposta con la moglie e i due figli nel tentativo di arrivare finalmente in un paese sicuro. La pazienza e la calma sono il suo esercizio quotidiano per resistere alla depressione: «Mi rifiuto di pensare che l’Europa sia questo inferno che vedo ogni giorno – mi confessa – questo non può essere che un limbo da cui usciremo, prima o poi».

Foto di Stefano Stranges
Fight on the road to Mytilene.
Several families are trying to go to Mytilene town from the Moria refugees Camp,
to protest the inhuman condition inside the Camp. 3th of february.
Lots of people, women and children was enjured from the gas fired by the police.

Nazgol ha 19 anni, è iraniana: ha vissuto un anno da sola nel settore A, quello per i minori non accompagnati. Ha il demone dell’arte, Nazgol, e da quando è a Moria disegna. Ha dipinto decine di quadri, le sue opere ricoprono un’intera parete al The Hope Project, il centro di sostegno per i rifugiati fondato da Eric e Philippa Kempson, due inglesi che da trent’anni vivono a Lesbo e che dal 2015 hanno raccolto migliaia di profughi dal mare. Tre dei suoi quadri sono stati anche battuti ad un’asta benefica da Christie’s, a Londra. Nazgol disegna la grande signora nera con la falce sopra le tende di Moria e una bocca cucita che sanguina; rappresenta scheletri dentro le tende dei profughi, ragazze con gli occhi bendati dalla bandiera greca. Dietro ogni quadro, scrive un pezzo della sua storia: «Avevo grandi sogni nel mio cuore. Ho perso tutto, avevo una vita bellissima che mi è stata negata. Ho pianto. Ho combattuto. I miei desideri si sono sbiaditi. E poi sono cresciuta, ho trovato me stessa di nuovo. Sono diventata un’altra persona». Esprime la solitudine che ha attraversato, la paura con cui ha convissuto. «Dipingere è un modo per fare capire ciò che sento e ritrovare le immagini del passato e del paese che ho perduto», mi dice, e conclude: «tutto è orribile a Moria ma io sono più forte di tutto». Anche Abdullah disegna. È un giovane afgano schivo e gentile, che la sua famiglia ha aiutato a fuggire dal paese, nella speranza che almeno lui potesse avere un futuro migliore. Nella sua tenda ha quadri e un quaderno con decine di schizzi a matita: sono soprattutto volti, ritratti di compagni, appunti di piccoli momenti quotidiani. Con i colori e le tele avuti da The Hope Project, riproduce i paesaggi della sua infanzia e la fatica del presente, con uomini che spezzano le catene chiedendo libertà, i volti trasfigurati dalla tensione.

Foto di Stefano Stranges

In ogni tenda sono in tanti a parlare, ognuno ha una tragedia da mettere a nudo, una preoccupazione da condividere. Un uomo ha ascoltato le storie dei suoi compagni in silenzio poi, mentre siamo sul punto di andare via, ci ferma e ci mostra una foto di Khamenei, la Guida suprema dell’Iran, insieme ad altri notabili a Teheran. All’improvviso si anima, comincia a parlare in modo concitato, gli occhi sembrano uscirgli dalle orbite. Mi caccia in mano dei fogli in cui c’è scritto che è stato condannato a morte dal regime per oltraggio alla religione e che se torna verrà impiccato: nel documento si spiega per filo e per segno come sarà eseguita la sentenza. Infine mi mostra la richiesta di permesso di soggiorno che ha fatto appena arrivato a Lesbo, 14 mesi fa. Non ha ancora ricevuto risposta dal governo, nessuno finora si è interessato del suo caso. Da 14 mesi aspetta di sapere se dovrà vivere o morire.

Foto di Stefano Stranges

Sul campo di Moria a Lesbo, è già stato scritto di tutto; tutti i nomi sono stati trovati per definire i ventimila rifugiati che lo affollano – i disperati, i dannati, i dimenticati – così come si sono spese parole, lacrime, indignazione, dati, denunce, appelli, ma loro sono sempre lì, su quelle colline di olivi polverosi, ogni giorno più allo stremo. C’è chi, come Waled, fa il minimo indispensabile per non attirare l’attenzione e mettere in pericolo se stesso e la sua famiglia, in attesa che arrivi il via libera per un posto migliore, dove non si rischi la vita per una coltellata o per una polmonite non curata; dove non si dorma per terra su coperte piene di scarafaggi o rosicchiate dai topi e dove il cibo sia sufficiente e non avariato o pieno di vermi, quasi i rifugiati fossero dei moderni Papillon imprigionati nella Guyana francese degli anni ’30 del Novecento. E c’è chi, come Abdullah, alla roulette russa della giustizia greca non crede più, e preferisce pagare un trafficante che gli falsifichi i documenti e gli permetta di infilarsi su un traghetto per Atene: 800 euro è il prezzo per liberarsi di Lesbo e tentare la strada verso l’Ungheria, attraverso un’Europa tanto inospitale quanto piena di pericoli.

Foto di Stefano Stranges. A group of syrian refugees inside their tent at night.

A me l’idea di vivere sul confine è sempre piaciuto, perché puoi stare da una parte, con una cultura, le abitudini, gli orizzonti che conosci, e poi in un attimo sei anche dall’altra, con lingua e prospettive diverse. Possibilità diverse. È così radicata in me questa propensione all’attraversamento che dopo tanti anni ho capito che è una questione esistenziale profonda: l’essere nata in bilico fra Italia e Francia, parte di una minoranza religiosa, ha forse favorito in me una propensione al nomadismo. L’essere queer come forma di vita – io sono qui, ma anche là – mi pare una preziosa occasione di resistenza alle etichette, a ciò che ci hanno servito come scontato, a un “destino” che mi è sempre sembrato una via corta per la rinuncia, per la rassegnazione. Valicare la frontiera è un rischio, certo, ma è soprattutto una speranza: che di là ci sia di meglio, che l’inaspettato porti una crescita e che l’incontro con il diverso generi una ricchezza.

Foto di Stefano Stranges
Fight on the road to Mytilene.
Several families are trying to go to Mytilene town from the Moria refugees Camp,
to protest the inhuman condition inside the Camp. 3th of february.
Lots of people, women and children was enjured from the gas fired by the police.

Ecco perché la realtà politica che abbiamo di fronte è per me così fortemente distopica: perché chiudere frontiere che sono opportunità? Come è possibile non vedere che, fra le tante insensate crudeltà di cui siamo testimoni lungo i muri di confine fra gli stati, attraverso braccia di mare pieni di cadaveri dove ancora i bagnanti si tuffano d’estate, in mezzo a fili spinati che trattengono i vestiti laceri della gente, c’è anche tutto questo spreco di talenti, intelligenze, creatività umane? L’agronomo Waled, Fatima la ginnasta, Masouneh l’illustratrice di moda, gli artisti Nazgol e Abdullah: sono migliaia le competenze dimenticate, lasciate a languire nelle ore vuote nella “giungla”, schiacciate dalla fame, dalla paura, dalla malattia, dalla violenza quotidiana e prima ancora annientate dall’umiliazione di passare mesi, anni senza niente da fare; potenzialità enormi vanificate dal tempo che passa fra una fuga, un respingimento, un campo di transito, una prigione. Intere esistenze sprecate – quando ne avranno altre? E quale altro figlio o figlia renderemo al genitore che ha visto morire in mare il suo per un salvataggio volutamente tardivo o in una tenda per un incendio divampato per errore? Intere esistenze che gridano vendetta e che sono soltanto numeri da sistemare nella partita doppia dei governi, formiche viste dall’alto di un elicottero prima di un’ennesima riunione fra autorità in cui si “affronta il problema dei migranti”.

Foto di Stefano Stranges
Fight on the road to Mytilene.
Several families are trying to go in the Mytilene town from the Moria refugees Camp,
to protest the inhuman condition inside the Camp. 3th of february.
Lots of people was injured from the gas fired by the police.

Perché quello sono: una grana da risolvere, e che in ogni caso non viene mai risolta. Il 4 marzo, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, accompagnata dai presidenti del Consiglio e del Parlamento europeo, Charles Michel e David Sassoli, ha ringraziato il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis per quello che sta facendo per proteggere le frontiere. La Grecia è lo scudo d’Europa, ha detto, legittimando in questo modo i raid fascisti in atto proprio in quei giorni contro le persone migranti, gli operatori umanitari e i giornalisti a Lesbo, e la violenza della polizia e dei militari armati contro uomini donne e bambini che premono lungo il fiume Evros, al confine con la Turchia. Navi speciali hanno attraccato al porto di Mytilene per imbarcare i migranti appena sbarcati e salpare verso una destinazione imprecisata: the mainland, dicono sbrigative le guardie, il che significa tutto e niente (Atene? Centri chiusi nel nord del paese in attesa dell’espulsione definitiva e del rimpatrio?) ma sembra comunque una chimerica via d’uscita a chi è intrappolato nell’inferno di Moria.

«E’ una sorta di gioco perverso che stanno facendo con la nostra salute mentale. Da un lato dicono che i rifugiati con il bollino rosso sui documenti non possono trovare una sistemazione ad Atene, dall’altro vendono il biglietto della nave a quegli stessi rifugiati con il bollino rosso», testimonia Waled. «Ogni notte migliaia di rifugiati, anche donne e bambini, si fanno dieci chilometri di strada da Moria a Mytilene nella speranza di riuscire a partire. Dal 1° marzo molte ong internazionali sono chiuse, e da quando i volontari se ne sono andati la situazione qui è diventata davvero tremenda. Non ci danno nemmeno un sacchetto di plastica per i rifiuti e per settimane intere non fanno la raccolta dell’immondizia al campo. Le difficoltà quotidiane si sono moltiplicate e non riusciamo nemmeno ad andare al mercato a comprare qualcosa da mangiare a causa delle minacce dei fascisti, che ci attaccano con i coltelli, le catene e le pietre. Non è sicuro nemmeno per le donne e i bambini. Ad essere onesti anche morire è meglio che stare in questa situazione».

Moria, come sintetizza efficacemente Alison Terry-Evans, «è il risultato di molti errori, corruzione e semplice abbandono». Alison è australiana ma da molti anni ormai ha scelto di vivere a Lesbo. Quando l’arrivo dei profughi sull’isola ha cominciato a trasformarsi in emergenza, ha inventato le “Dirty girls”, una gigantesca opera di riciclaggio di vestiti, coperte, giubbotti di salvataggio e in generale qualunque cosa fosse rimasta sulla spiaggia dopo gli sbarchi. Ad aiutarla, il primo anno, sono arrivate centinaia di donne da tutto il mondo, che hanno raccolto, smistato, lavato e consegnato abiti e lenzuola pulite nei campi di accoglienza. Oggi le Dirty girls hanno tre lavanderie all’attivo – una a Lesbo, una ad Atene e una a Salonicco – e restituiscono in media una tonnellata di roba pulita al mese, soprattutto lenzuola e coperte. Alison mi racconta che va di persona al campo di Moria e per ogni coperta sporca ne dà una pulita in cambio: «Spesso, però, non hanno niente da darmi», aggiunge. Molti usano gli stessi vestiti per mesi, non ci sono medicine, l’assistenza sanitaria è del tutto insufficiente, spesso al campo non arriva né cibo né acqua ed eppure, mi assicura, non ci sono furti, né ribellioni contro le autorità. Anche le manifestazioni sono pacifiche, ma la polizia risponde con i gas lacrimogeni, come è successo lo scorso 3 febbraio. «Gli isolani si lamentano dei migranti ma la verità è che dal 2015 i greci si sono arricchiti – spiega Alison – mi riferisco ai contributi arrivati dall’Europa ma anche al lavoro per albergatori e ristoratori, che hanno fatto affari con i medici e i volontari che sono arrivati a Lesbo per l’emergenza. Per non parlare di quelli che sfruttano i migranti stessi, facendoli lavorare per pochi euro o addirittura senza pagarli». Mi guarda con un sorriso amaro: «Hai visto che belle strade ci sono a Lesbo? Le chiamano le “migrants roads” perché sono state risistemate con i soldi dei migranti».

Foto di Stefano Stranges
Fight on the road to Mytilene.
Several families are trying to go in the Mytilene town from the Moria refugees Camp,
to protest the inhuman condition inside the Camp. 3th of february.
Lots of people, women and children was enjured from the gas fired by the police.

Le frontiere sono fatte di chi le vuole attraversare e anche di chi, nella confusione delle opposte fazioni, grida allo scandalo e intanto sfrutta la situazione. A Moria una dose di eroina o di anfetamine, scorciatoia per fuggire dalla realtà, costa 5 euro: ma chi vende la droga ai rifugiati? Alison è lapidaria. «Sono greci. Come sono greci gli uomini che di notte, lungo la strada che porta al campo, aspettano a fari spenti per approfittare di donne e ragazzini disperati».

Intanto a Moria è scoppiato un altro incendio; i video fatti con mano tremante attraversano l’etere, le donne si disperano, la polizia serra le fila. Si attendono notizie, prima non si può confermare, poi non si riesce a smentire: è morta una bambina di sei anni, probabilmente ci sono altre vittime. La tensione, la confusione e la disperazione ancora una volta sono padrone del campo.

Foto di Stefano Stranges
Gangs inside the Hotspot

Waled si chiude nella sua tenda, non può far altro che attendere, ancora una volta. Intanto vengo a sapere che Abdullah, mentre tentava di raggiungere la Serbia, ha perso un piede, schiacciato da un treno in corsa. Bruxelles, sembra lontana anni luce da qui. Von der Leyen, dalla sua navicella nello spazio chiuso dei palazzi dell’Unione, rilancia il suo solito monito per le frontiere esterne, ora ben corroborato dalla paura del coronavirus: «Presto, chiudete tutto!».

 

Print Friendly, PDF & Email
Close