Dopo oltre un secolo di storia le Officine Meccaniche Reggiane, ormai abbandonate, diventano la sede del Tecnopolo di Reggio Emilia.
Arrivando alla stazione di Reggio Emilia, la vecchia stazione ferroviaria, la prima cosa visibile è un enorme capannone grigiastro sovrastato da una scritta gialla, perentoria: REGGIANE. Fondate nel 1901 con il nome di “Officina Meccanica e Fonderia Ing. Romano Righi e C.”, le Officine Meccaniche Reggiane sono una lente attraverso la quale è possibile ripercorrere l’intera storia economica, industriale, bellica e sociale di Reggio Emilia. Una storia fatta di grandi innovazioni, sviluppo, riconversioni, licenziamenti, lotte operaie, occupazioni.
Le Reggiane sono state per il capoluogo emiliano un po’ quello che la Fiat è stata per Torino: durante il loro periodo di massima produzione ogni famiglia aveva almeno un componente o un conoscente che lavorava in quell’enorme fabbrica di 260 mila metri quadrati, fatta di capannoni incastonati tra la linea ferroviaria da una parte e la pista per gli aerei costruiti in quegli stessi stabilimenti – che poi sarebbe stata da tutti chiamata Campo Volo – dall’altra.
Le Reggiane iniziano la loro attività produttiva con la fabbricazione di convogli ferroviari. Durante la prima guerra mondiale, grazie all’assorbimento del Proiettilificio di Modena, a questi vengono affiancati i proiettili d’artiglieria. Negli anni Venti le Officine conoscono un primo periodo di crisi, che si risolve solo nel 1933 grazie all’acquisto della maggioranza azionaria da parte dell’Iri. Poi, nel 1935, il conte Giovanni Caproni intuisce che l’ascesa del militarismo fascista può tradursi in una possibilità produttiva e acquisisce dall’Iri il pacchetto azionario di maggioranza: inizia così il periodo d’oro delle Reggiane, quello in cui alla precedente produzione si affianca la fabbricazione di aerei da caccia.
Negli anni 1941-1943 le Officine Meccaniche Reggiane si collocano al quarto posto in Italia – dopo la Fiat, l’Ansaldo e la Breda – per importanza, numero di dipendenti, volume di lavoro, arrivando a occupare più di 11.000 dipendenti. Oltre ai propri modelli costruiscono aerei e motori per conto della Siai Marchetti, della Piaggio e della Fiat.
Ma quello che costituisce la fortuna delle Reggiane e dello sviluppo industriale di Reggio Emilia fino alla seconda guerra mondiale, ne segnerà anche la fase più tragica.
Nel 1943, infatti, le autorità d’occupazione tedesche bloccano l’attività produttiva del settore aeronautico, che nel frattempo è diventato di gran lunga il più rilevante.
Il 28 luglio 1943 migliaia di operai manifestano contro il proseguimento della guerra: mentre escono dallo stabilimento un distaccamento di bersaglieri apre il fuoco contro la folla. Nove di loro, tra cui una donna incinta, vengono uccisi in quello che verrà ricordato come l’eccidio delle Reggiane.
Nonostante i rigidi controlli da parte del regime, accentuati dalla delicatezza del settore, l’antifascismo in fabbrica è molto diffuso e non mancano episodi di volantinaggio e disegni di falce e martello sui macchinari.
L’8 settembre 1943 un gruppo di soldati riesce a scappare proprio grazie all’aiuto di alcuni operai, che gli forniscono delle tute da lavoro da sostituire alle divise militari in modo da renderne più agevole la fuga. È a partire da quella data che molti operai e qualche dirigente prendono parte attiva alla costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale.
Il 7 e 8 gennaio 1944 le Reggiane subiscono un duro colpo: gli stabilimenti di Reggio Emilia vengono pesantemente bombardati dagli alleati. Il bombardamento provoca danni ingentissimi, pochi macchinari si salvano e la produzione viene spostata in altre aree del nord Italia.
Con il secondo dopoguerra il polo reggiano riprende vita, ma è necessario avviare una riconversione verso il settore agricolo: silos, trattori, macchinari di vario tipo. Così, seppur lentamente, l’attività produttiva riparte.
Ma l’episodio più leggendario avviene nel 1950: a fronte del licenziamento previsto di 2100 operai le maestranze occupano gli stabilimenti e danno il via a quella che rimarrà la più lunga occupazione nella storia operaia italiana.
Molti lavoratori, sostenuti da una rete di solidarietà creatasi tra gli agricoltori e i commercianti della zona, si recano in fabbrica pur non percependo alcuno stipendio, e riescono a produrre un modello di trattore, l’R60, che diventa immediatamente icona della lotta operaia e simbolo della possibilità di lavorare senza padroni. Quello stesso trattore sarà alla testa del corteo che l’8 ottobre 1951 segnerà la fine dell’occupazione: una fine purtroppo deludente, dato che la ditta viene messa in liquidazione e soltanto 700 operai vengono riassunti nelle Nuove Reggiane.
Da allora le Reggiane hanno prodotto impianti per zuccherifici, locomotive, gru portuali (fra cui quella utilizzata per il recupero della Costa Concordia).
Nel 1992 il gruppo Fantuzzi ha rilevato l’azienda, che ha preso il nome di “Fantuzzi Reggiane”, a sua volta acquistata dalla multinazionale americana Telex nel 2008, data che segna il dislocamento della sede e il definitivo abbandono degli stabilimenti adiacenti alla stazione ferroviaria. Così alcuni capannoni, invasi dalle infiltrazioni e circondati dalle sterpaglie, sono diventati atelier di writer e street artist che hanno realizzato le loro opere sulle facciate, altri hanno accolto extracomunitari in cerca di riparo.
Nel capannone 19, ex reparto sbavatura e fonderia della ghisa delle Officine Meccaniche Reggiane, il 26 ottobre 2013 è stato inaugurato il Tecnopolo di Reggio Emilia, alla presenza del ministro per gli Affari regionali e le Autonomie (nonché sindaco di Reggio Emilia) Graziano Delrio, del vicesindaco Ugo Ferrari, della presidente della Provincia Sonia Masini.
Con lo slogan di «Il futuro è tornato» il Tecnopolo reggiano – il primo a essere inaugurato di una serie di Tecnopoli previsti in varie città dell’Emilia Romagna – si inserisce nel più ampio progetto della riqualificazione dell’Area Nord della città, per la quale è previsto l’allestimento di un “Parco della conoscenza, dell’innovazione e della creatività” che coinvolgerà anche gli altri capannoni dismessi e che nell’ottica del Comune dovrà essere un polo capace di unire in sinergia sapere industriale e conoscenze umanistiche, con l’obiettivo di sviluppare idee innovative finalizzate ad aumentare la competitività di Reggio Emilia.
Così il capannone 19, sottoposto a un restauro conservativo su progetto dell’architetto Andrea Oliva – su una delle sue pareti è ancora visibile la frase, firmata da Mussolini, «La salvezza della patria sta nel lavoro e nella disciplina» – all’interno dei suoi 3500 metri quadri ospiterà i laboratori di ricerca di Rei-Reggio Emilia Innovazione, dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e di Crpa (Centro ricerche produzioni animali), dando lavoro complessivamente a circa 90 ricercatori.
Un progetto costato 5,5 milioni di euro, di cui 3,1 a carico del Comune e 2,4 a carico della Regione. I fondi destinati alla ricerca, il cui obiettivo è quello di creare una rete di contatti e di relazioni con le aziende e con altri centri di ricerca pubblici e privati, di diffondere informazioni sulla tecnologia e sul territorio, di promuovere start up, saranno invece pari a 10,6 milioni di euro. Non è chiaro, però, se tutti i dipendenti siano stati correttamente retribuiti: poco prima dell’inaugurazione, infatti, un artigiano è salito sul tetto della struttura e ha steso degli striscioni lamentando il suo mancato compenso, per poi essere prelevato dalle forze dell’ordine e “accompagnato” in questura.
Fortunatamente, al di là della kermesse politico-istituzionale, l’inaugurazione del tecnopolo si traduce anche in un’occasione per ripercorrere la storia della struttura che lo ospita.
All’interno del capannone, infatti, sono state allestite due mostre, visitabili gratuitamente dalle 16 alle 19 tutte le domeniche fino al 24 novembre. La prima è una mostra fotografica che ospita i lavori di Fabio Boni, Fabrizio Cicconi e Alessandra Calò, tre fotografi che presentano il loro sguardo sugli operai, le macchine e i luoghi che hanno fatto la storia delle Reggiane.
Il lavoro di Fabio Boni nasce da un’idea di Corrado Rabitti (Zoolibri), e immortala il momento di ingresso nei capannoni un attimo prima del loro definitivo smantellamento, che coincide con il loro ultimo istante di vita. La fabbrica e i suoi oggetti sono visti così nel loro morire, nel passaggio da oggetti abbandonati a oggetti che verranno rimossi, distrutti, e che non sarà più possibile vedere nel luogo che per anni ha dato loro un senso, e a cui loro ne hanno dato uno.
Le foto di Fabrizio Cicconi immortalano gli ultimi operai delle Reggiane intenti nell’opera di meccanica, tornitura, saldatura: i loro sguardi, capaci di esprimere la fierezza e al contempo la fatica, la stanchezza, fissano lo spettatore chiamandolo inesorabilmente in causa. Alessandra Calò, invece, propone una efficacissima sovrapposizione dei volti dei lavoratori alle tavole con disegni e grafici dei progetti da realizzare: ne emerge così una mappatura del volto dell’operaio, un volto inscindibile dal suo lavoro, che si riflette in esso e dal quale viene a sua volta riflesso.
La seconda esposizione è una raccolta di documenti e materiali curata da Biblioteca Panizzi, polo archivistico/Istoreco, Spazio Gerra e Sovrintendenza archivistica regionale.
Si intitola “Archivio storico delle Officine Reggiane. Recupero, salvaguardia e valorizzazione” ed è suddivisa in quattro sale espositive, denominate rispettivamente “L’archivio salvato”, “Un secolo di lavoro”, “Ali reggiane” e “Una fabbrica, una città”. Ospita i materiali salvati dall’umidità che ha invaso i capannoni dopo l’abbandono, alcuni macchinari conservati nelle fabbriche e altri dai collezionisti, fotografie e locandine pubblicitarie (bellissime) e video di repertorio (altrettanto belli).
Percorrendo le sale e osservando il materiale esposto si ha la sensazione di attraversare, sicuramente non in maniera esaustiva ma non per questo meno coinvolgente, gli oltre cento anni di storia delle Reggiane. E più di tutto l’insostenibile, struggente – e anche un po’ rabbiosa – sensazione che tutto questo ci riguardi ancora.