La vita è ingiusta

Pubblichiamo in anteprima la prefazione del testo di Thomas Macho “La vita è ingiusta” (traduzione di Antonio Lucci) edito da Nottetempo.

Prefazione

«La vita è ingiusta. E non è giusto che la vita sia ingiusta», osservò l’eco-filosofo e anarchico Edward Paul Abbey, e questa citazione circola su internet, ripresa centinaia di volte. Ancora prima dell’inizio della guerra in Vietnam, anche il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy avrebbe detto: «Alcuni uomini vengono uccisi in guerra, altri uomini vengono feriti, e altri ancora non lasciano mai il paese. La vita è ingiusta». Insomma: “Pourquoi la vie est injuste?”, “Das Leben ist nicht fair”, “C’est la vie”, “La vita non è giusta”, “Das Leben ist ungerecht”, “¿Porqué la vida es tan injusta?” Domande ed espressioni simili sono ampiamente diffuse e commentano, come un grande sospiro, le noie di tutti i giorni. L’ultimo biglietto per un concerto viene comprato appena prima del nostro turno; in una graduatoria si ottiene (forse per l’ennesima volta) il secondo posto tra i candidati; poco dopo l’arrivo nel luogo dove si trascorreranno le vacanze il tempo peggiora e comincia a piovere. In tutte queste circostanze si può deplorare l’ingiustizia della vita, forse con un sorriso rassegnato. La frase appartiene al gioco linguistico delle delusioni. Spesso viene pronunciata socchiudendo gli occhi, senza grande pathos. Per lo più si commenta così un guaio, ma non una catastrofe; un peccato, ma non una vera disgrazia; una disdetta, ma non un destino traumatico.

“La vita è ingiusta”: questa interiezione inoltre potrebbe esprimere anche sbigottimento e dolore per incidenti tragici o catastrofi. La retorica della commozione, che si lega alle notizie dei disastri aerei, dei maremoti, degli incendi nei boschi, delle epidemie e degli attacchi terroristici, culmina spesso con un’allusione all’innocenza delle vittime: come se qualcuno dei passeggeri di un aereo precipitato, qualcuno degli abitanti di case finite sotto un’inondazione o bruciate, qualcuna delle vittime di un terremoto, di un’infezione virale o di un attentato dinamitardo avesse certamente meritato la morte, ma senza dubbio non tutte le vittime (o anche solo la maggioranza), e di sicuro non nello stesso momento. È stata questa domanda sulla contingenza e sul senso che Thornton Wilder ha affrontato nel suo secondo romanzo, The Bridge of San Luis Rey (1927), più volte riadattato per il cinema e premiato nel 1928 con il Premio Pulitzer: il problema della cecità o della provvidenza, a partire dal crollo di uno dei vecchi ponti sospesi di Lima avvenuto nel 1714, in cui morirono cinque persone. Il romanzo di Wilder tratta anche della conoscenza proibita che i roghi degli eretici forniscono al cronista della vicenda, il monaco francescano frate Ginepro: i sistemi filosofici e le formule statistico-matematiche grazie alle quali è possibile stabilire un’associazione tra la biografia delle vittime e la loro comune morte, nel fatale crollo del ponte. Il problema della giustizia o dell’ingiustizia della vita trova nel romanzo solo uno stringato commento finale: «Neppure la memoria è necessaria all’amore. C’è un mondo dei viventi e un mondo dei morti, e il ponte è l’amore, la sola sopravvivenza, il solo significato»[1].

Il giudizio letterario di Wilder nei confronti di frate Ginepro e delle sue ricerche può essere interpretato come un’implicita critica a una concezione programmatica, socio-politica, della frase “la vita è ingiusta”. Perché una simile interpretazione considera la frase non come semplice interiezione o come considerazione filosofico-teologica, ma come un imperativo: “La vita è ingiusta”, e da ciò deriva che dobbiamo tentare di renderla giusta. Contribuiscono a sostenere questo tentativo le leggi sociali, le assicurazioni, le tasse – anche se, per esempio, le abnormi differenze globali relative al patrimonio e al reddito possono essere appianate solo in misura molto ridotta attraverso tassazioni diversificate o aiuti allo sviluppo. Nonostante ciò numerose istituzioni, governi e organizzazioni si impegnano per una parziale riduzione degli svantaggi esistenziali e delle ingiustizie collettive come la povertà, la fame, la malattia, l’analfabetismo o l’elevata mortalità infantile. Ogni tentativo di leggere e di seguire l’affermazione “la vita è ingiusta” come un imperativo, deve però necessariamente operare insieme a statistiche, elenchi di criteri e grandi quantità di numeri e dati. Le odierne teorie della giustizia non possono prescindere da previsioni, proiezioni e valori medi, e questo perché fanno immancabilmente riferimento a un futuro migliore: a un aumento della giustizia media (secondo diversi parametri). Ne consegue tuttavia che queste teorie debbano rimanere in larga misura sconsolate [trostlos][2], nel senso letterale del termine. Possono vincere le ingiustizie del passato solo attraverso l’appello ai miglioramenti futuri: alle vittime può solo essere assicurato che con le loro sofferenze hanno reso, e rendono, possibile il progresso.

Ma quale consolazione offre a chi oggi non ha da mangiare la notizia di una lotta alla fame che si sta rivelando efficace a livello strutturale? Quale riparazione promette la statistica di una mortalità infantile in diminuzione a quei genitori che hanno appena perso un bambino? Quale compensazione porta un accordo di pace ai parenti di chi è stato ucciso? E in quale conforto dovrebbero sperare i cari delle vittime della LoveParade di Duisburg del 2010 a seguito della posizione espressa ufficialmente, in base alla quale le future grandi manifestazioni dovranno essere pianificate da professionisti (a costo di annullarle seduta stante)? Le teorie della giustizia devono per lo più ignorare i confini tracciati dalla vita individuale. In questo consiste la loro inevitabile ingiustizia, che dà alla frase “la vita è ingiusta” ancora un altro significato. Perché l’ingiustizia della vita consiste anche nella sua incommensurabilità, che viene necessariamente cancellata dalla comparatistica di carattere teoretico-programmatico, malgrado sia proprio una comunità di mortali – senza speranza nel cielo, nella redenzione e nel Giudizio Universale – a dover riconoscere l’obbligo nei confronti di una giustizia esistenziale. Questa comunità vuole sopportare la contraddizione tra mortalità e giustizia, e tentare di risolverla simbolicamente – nella certezza che proprio nell’impossibilità di sottrarre l’uomo alla morte (come sottolinea Heidegger nel § 47 di Essere e tempo)[3] sia il fondamento di una sintesi politica in relazione alla quale sono immediatamente riconoscibili i limiti della sostenibilità, delle condizioni e delle possibilità di una rappresentanza democratica.

Qui si potrebbe obiettare che nel presente testo vengono confusi diversi concetti di giustizia – spheres of justice nel senso di Michael Walzer[4] e religione. Ovviamente, è opportuno distinguere tra colpa esistenziale, morale ed economica, ma è anche opportuno e necessario indagare le reciproche trasposizioni e trasformazioni di questi concetti di colpa e le loro evidenze. Ovviamente, è opportuno distinguere tra giustizia politica, sociale, economica, giuridica ed esistenziale, ma è anche sensato e necessario esplorare i nessi e le contraddizioni tra questi concetti di giustizia, e per lo meno intrecciare le modalità di approccio. Forse non dovremmo dimenticare che la Giustizia non è una tabella o un calcolo matematico, ma una dea, un anelito [Sehnsucht], un’utopia.

Note

[1] Cfr. Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey, trad. it. di L. De Bosis, Il Corbaccio, Milano 1940, p. 220.

[2] Il termine tedesco trostlos, aggettivo che indica l’essere “desolato”, “sconfortato”, “sconsolato”, è formato da due componenti: il sostan- tivo Trost (“consolazione”, “conforto”) e il suffisso -los, che denota generalmente un’assenza, una perdita, una mancanza. Dunque è traducibile con “sconsolato” a patto che il termine si intenda letteralmente, secondo la sua etimologia originaria che indica l’“essere privi di consolazione”. [n.d.t.]

[3] Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2001, pp. 286-290.

[4] Cfr. Michael Walzer, Sfere di giustizia, trad. it. di G. Rigamonti, Laterza, Roma-Bari 2006.

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