Pubblichiamo degli estratti[1] di Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita, un’analisi di Pietro Saitta[*] sulla lunga durata di un disastro e sull’ordine sociale derivato da un evento apocalittico come il terremoto di Messina del 1908.
Fu proprio dopo quel sisma che Santi Romano e altri giuristi elaborarono la tesi della “necessità come fonte primaria del diritto”, che legittimerà poi la cultura emergenziale a cui oggi siamo ormai abituati; è da qui che l’autore «ripercorre la storia di Messina, dei suoi abitanti marginali e del Mezzogiorno, alla luce di categorie analitiche mutuate dagli studi postcoloniali e subalterni, oltre che dalle teorie sul sistema-mondo. Testimoni privilegiati e diretti sono differenti generazioni di reietti dei cantieri edili, di abitanti delle baracche e simili figure ugualmente impegnate a sopravvivere e “resistere”, sfruttando gli interstizi lasciati liberi da un sistema pervasivo e spietato che si rinnova da decenni[2]».
«Per me questa politica, questi politici sono soltanto politicanti, non politici. Perchè per me la vera politica, io ti posso garantire una cosa, che per me la vera politica è stata solo gli anni ’70, ’80 e ’90. Quella è stata la vera politica, quella che ti prometteva, quella che faceva veramente qualcosa per la città, quella che effettivamente dicevano: “sì, oggi non ti posso dare un posto di lavoro, intanto portami 50 voti e io tra 2 mesi ti posso dare un posto di lavoro”. E io ti posso dire una cosa, che ho conosciuto persone che hanno una certa età, che adesso sono pure in pensione, che sono delle persone che hanno usufruito di queste persone… perchè all’epoca c’erano dei veri politici. Politici che avevano i capelli bianchi, però che si facevano rispettare. Per me quella era una politica vera! A cominciare dagli anni ’80. Conosco poco quella degli anni ’70 perchè avevo un certo tipo di età; però quella degli anni ’80, io lì ho conosciuto la vera politica, diciamo. C’erano dei politici che gestivano questa città, non ti credere che era una bella epoca, ma chi è megghiu ora chi stamu murennu ‘i fame? [ma che è meglio ora che stiamo morendo di fame?] All’epoca i soldi arrivavano in questa Regione. Per me la politica che c’è attuale… io ne ho viste… attualmente una politica seria non c’è. Tu ti devi rendere conto che noi abbiamo alla Camera, al Senato, delle persone che si prendono 600 mila euro l’anno per un suono di campanella: “prego Onorevole”… 600 mila euro l’anno, il signor Schifani e il signor Fini… questi sono schiaffi alla povertà! La gente muore di fame. Non credere che non ci sono persone che non si lamentano. Vedi che ci sono persone che si lamentano veramente perchè non hanno più da dove appigliarsi, perchè da dove si appigliano scivolano da tutti i posti. Come sto facendo io al momento… mi appiglio da tutti i posti, però scivolo; perchè non c’è un appiglio da cui mi posso aggrappare. Però ti posso dire anche una cosa, per me oggi come oggi una politica seria non c’è.
Ma secondo te era giusto che per trovare un lavoro dovevi trovargli 50 voti a un politico?
No, non era giusto, però era una cosa che funzionava. Lo sai perchè? Perchè c’era pure quel politico che ti dava i buoni per la benzina, quello che ti dava 20 chili di pasta. All’epoca si usava così; però quello che ti prometteva ti dava veramente, perchè te lo diceva in faccia: “non lo posso fare ora però tra 2, 3 mesi lo posso fare”, te lo diceva chiaramente. Io ti posso dire, di queste persone sai quante ne ho conosciute? Una persona a un mio cugino gli ha promesso un posto nel policlinico. Gli ha detto “mi devi dare 10 milioni” all’epoca, anni ’90-’95. La madre gli ha detto “io i 10 milioni te li do subito, però domani mattina mio figlio deve strisciare il tesserino al policlinico”. Dico, c’è gente che se le comprava le persone… Negli anni ’70, ’80 le cose erano diverse… mio padre, guarda, era impiegato comunale; l’altro fratello era impiegato comunale alla Regione, l’altro zio era impiegato all’ufficio tecnico dove sono stato io precario, e la buon’anima di mio nonno era direttore al Satellite, all’accalappiacani. A me è dispiaciuto molto che mio nonno è morto nel ’74, perchè se moriva negli anni ’90 la cosa era diversa. Io a quest’ora negli anni ’80 sai dov’ero? Seduto al Comune di Messina ero con lui, questo è più che sicuro. Però mio nonno ha avuto pure la compiacenza di fare entrare tre figli lì dentro, ognuno di loro con la sua mansione, non hanno avuto mai problemi. Per me oggi come oggi non c’è più una vera politica. Te lo metto per iscritto. (Turi, 48 anni, licenza media).
Si tratta di un passo lungo, e a suo modo splendido, che è bene riportare per intero in ragione del modo in cui getta egualmente luce sul passato e sul presente della storia locale e nazionale, nella prospettiva di chi si colloca “in basso”.
In una stagione come quella contemporanea, fatta di “rivoluzioni” auspicate, di “antipolitica” e di rigetto per la “vecchia politica”, questo testimone ci parla invece di una peculiare nostalgia. L’incipit di questo stralcio, il suo riferirsi ad una “vera politica” che va dagli anni settanta agli novanta sembra, sia pure impiegando una bizzarra cronologia, presagire al mito aureo e trito di un’autenticità politica, di un idealismo scevro dagli interessi e al servizio della collettività. Invece niente di tutto ciò è in arrivo. Al contrario, l’interlocutore ci stupisce con una straordinaria operazione di détournement e ribaltamento delle categorie. La sua nozione di autenticità del politico non ha nulla di arcadico, romantico o eroico. È invece una visione iper-realista, disincantata, utilitarista e particolarista a cui però, in modo paradossale, non sono estranei i motivi della partecipazione, dell’uguaglianza e della relazione diretta tra politica e cittadinanza. Fondamentalmente si tratta di una corsa “ai resti”, di una partecipazione non disinteressata alla competizione politica e di una lotta per accedere alla ridistribuzione.
Turi, insomma, riporta la politica su un piano terreno e persino fisico. Si tratta in primo luogo di uno scambio “alla pari” tra il cittadino e il politico. L’immagine che egli propone, infatti, è quello di un politico alla portata di mano, che è accountable non in ragione di quanto dichiara di fare, ma di quanto effettivamente fa per coloro che ne hanno determinato il successo. Questi, il politico, non è un attore pubblico corrotto, ma un “appiglio” a disposizione di chi “scivola”. Egli, in tal modo, è colui che deve aiutare i cittadini a sottrarsi al vortice dell’incertezza e garantire una mobilità sociale che non ha per oggetto lo status, ma la sicurezza economica del lavoratore. Turi non desidera lavorare in Comune perché la posizione sociale dell’impiegato è migliore di quella del muratore; ma perché il primo può contare su delle entrate certe, ancorché modeste, che il secondo non ha. Il problema che egli pone è quello della redistribuzione e dell’uguaglianza, in una chiave però “egocentrata”.
Mentre si può restare turbati dall’immaginario politico espresso da questo lavoratore messinese e dalla franchezza del suo linguaggio, non si può fare a meno di notare che le categorie invertite che egli impiega ci parlano in realtà dei limiti della “buona” politica e delle retoriche incentrate sulla pubblica utilità e sull’interesse generale che l’accompagnano. Infatti Turi ci dice che quel particolare tipo di “militanza” che caratterizzava, secondo la sua personale cronologia, la migliore stagione della politica italiana, è a tutti gli effetti un modo di essere presenti nell’arena politica, per potere contare e fare fronte ai fallimenti dei discorsi. La politica non è in grado di dare sicurezza e non può creare né lavoro né stabilità per tutti. Essa non fa nulla per nulla e distribuisce i benefici solo in ragione dell’impegno che un cittadino sa riversarvi. La politica è un modo istituzionalizzato di sancire le disuguaglianze (“noi abbiamo alla Camera, al Senato, delle persone che si prendono 600 mila euro l’anno per un suono di campanella: “prego Onorevole”… 600 mila euro l’anno, il signor Schifani e il signor Fini… questi sono schiaffi alla povertà!”). Raccogliere voti, pertanto, è solo un modo per resistere e opporsi al divario.
Prevedibilmente si avrebbe gioco facile ad opporre che quello di Turi e dei suoi patroni politici è anche, e soprattutto, un modo di riprodurre quella stessa disuguaglianza. Ma a tal riguardo le sue parole chiariscono anche che la politica “nuova”, qualunque cosa essa sia, è ben peggiore di quella che l’ha preceduta. Questa infatti sarebbe una politica che non include, distante dai suoi “piccoli elettori” e autoreferenziale.
Turi, come si intuisce, vive sulla propria pelle le recenti trasformazioni dell’economia locale; le stesse, peraltro, che abbiamo ricostruito nel precedente capitolo. Riepilogando questa storia e approfondendo un po’ la sua biografia, notiamo che egli nasce a metà degli anni Sessanta a Bordonaro, un quartiere popolare – o “villaggio”, come recita la toponomastica ufficiale locale – in cui case decrepite e baracche finiranno col convivere con orribili palazzine, e in cui, nei circa quindici anni che vanno dalla metà degli anni Novanta ai giorni nostri, il numero degli abitanti passerà da 3.000 a 9.000 unità. Turi proviene da una famiglia i cui membri, grazie a un nonno che dimostra certe abilità relazionali, sperimenteranno in alcuni casi una rilevante forma di mobilità sociale. Una parte dei suoi familiari, come abbiamo visto, lavora infatti nelle posizioni più varie dentro la pubblica amministrazione. Così facendo questa famiglia segue un destino che è in qualche modo collettivo e che investe migliaia di altre persone in una città che va sempre più caratterizzandosi in direzione del terziario.
Turi, però, resta escluso da questo processo. La sua scolarizzazione, intanto, non va oltre la licenza media. Ma questo non è un problema perché, come spiega in altre parti della sua testimonianza, per tutto il corso degli anni Ottanta lavora presso i cantieri navali come operaio specializzato, trascorrendovi una stagione che ricorda come la più bella della propria vita professionale, sia per gli aspetti relativi al lavoro che per quelli economici. Ma agli anni Ottanta si avvicendano quei tardi anni Novanta che segneranno l’inizio di una lunghissima crisi dell’economia cittadina e familiare. È dunque qui che egli incontra una politica che, nei termini di Foucault, se non lascia morire, fa vivere così.
[…]
Se molte classiche ricerche storiografiche o sociologiche erano indagini intorno alle insorgenze contadine e operaie del passato e ai modi in cui insoddisfazione e sfruttamento hanno prodotto rivolte, questa è invece una ricerca sull’ordinarietà e la riproduzione della subalternità, pur in presenza di quelle strutture politiche e sindacali che dovrebbero ostacolare il compiersi dello sfruttamento e che, anzi, dovrebbero prevenirlo e impedirlo.
Insomma sembra che, com’è accaduto alla narrativa, anche la storia nazionale contemporanea appaia popolata da “eroi relativi”[3]: da soggetti, cioè, dominati dalle circostanze e dalle relazioni. Individui, quindi, che non vivono né in reale conflitto, né in rapporti esasperati con gli altri. “Non-eroi”, si potrebbe dire, la cui caratteristica principale – quella peraltro che fa di essi dei personaggi peculiari, meritevoli di analisi – è costituita dalla loro capacità di subire ad oltranza e di non sapere rinunciare all’essere monadi in balia di una “intelligenza collettiva” che, pur dispersa, opera all’unisono contro di essi, umiliandoli e destinandoli a una vita di privazioni e briciole.
Sia pure prudenzialmente, con Magatti e De Benedittis, potremmo forse parlare di “nuovi ceti popolari”, attivi all’interno di un mercato del lavoro segmentato, caratterizzati da bassi livelli di istruzione, accentuato individualismo, familismo, angoscia relativa al futuro e persino limitate capacità di lettura del presente[4].
Mentre è agevole concordare sulla presenza di tutti questi tratti nel profilo generale della popolazione osservata, è tuttavia problematico, nella prospettiva postcoloniale che fa da riferimento al presente testo, parlare di “nuovi” ceti popolari. Infatti, per lo meno nel particolare contesto oggetto dell’indagine, questi ceti si sviluppano in continuità con quelli del passato. Si potrebbe dire, anzi, che i “popolani” di oggi sono per buona parte quelli di ieri. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, i protagonisti di questo libro occupano sostanzialmente gli stessi quartieri e le stesse posizioni dei loro avi, secondo un ordine sociale che si sviluppa all’indomani del sisma del 1908 e, ancora, al termine della Seconda guerra mondiale, quando la crisi agraria sospinge la popolazione dell’interno dell’isola verso le città costiere. Se essi sono nuovi ceti popolari, lo sono presumibilmente solo in ragione dell’assenza di una memoria relativa al passato, per la sovrapposizione di altri valori e atteggiamenti dettati dal mutato quadro economico e sociale, e per il parziale accesso a consumi voluttuari.
Tuttavia se si dovesse giudicare la realtà a partire dall’osservazione condotta, appare inoppugnabile il dato di fatto che la mobilità sociale non sembra avere riguardato questi soggetti, che i loro livelli di istruzione restano bassissimi, che la loro esposizione ai ricatti occupazionali nel contesto urbano ricorda quelli semi-feudali del passato rurale e che il loro individualismo è il frutto non tanto della contemporaneità (il neoliberismo, il postfordismo, la globalizzazione, etc.) quanto di un “addestramento” o un “sapere” che si sviluppa nei decenni e nei secoli. Deve essere questa “memoria” (un particolare tipo di memoria, quasi del tutto priva di ricordi puntuali; praticamente un istinto) delle sconfitte politiche, delle bastonate della polizia, dei tradimenti interni ed esterni alla classe d’appartenenza, che li ha spinti nell’arco di qualche generazione ad assumere quegli atteggiamenti cinici, dai tratti peraltro paradossali, che vedremo tra poco. Del resto abbiamo già visto nella prima parte del libro che quello rinvenuto in azione in questa parte d’Italia è il passaggio da un governamento basato sulla violenza di Stato a uno più capzioso, che impiega la legislazione sociale e la democrazia per condurre a sé gli animi.
Note
[*] Pietro Saitta è ricercatore in Sociologia generale presso l’Università di Messina. È autore di numerosi saggi sui temi della sociologia urbana e dell’ambiente, dell’immigrazione e della criminologia critica; tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Economie del sospetto (Rubbettino, 2006) e Getting By or Getting Rich? The Formal, Informal and Criminal Economy in a Globalised World (Eleven, 2013).
[1] P. Saitta Quota Zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita, Donzelli, Roma 2013, pp. 123-128.
[2] Dalla quarta di copertina di Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita.
[3] Enrico Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Einaudi, Torino 2009.
[4] Mauro Magatti e Mario de Benedittis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli, Milano 2006. Magatti e De Benedittis impiegano il termine “ceto” anziché “classe” perché il primo appare loro in grado di rendere meglio conto della complessità della stratificazione sociale nel mondo contemporaneo, che non sarebbe riconducibile unicamente o in via assoluta alle condizioni economiche. Se questo appare condivisibile nei suoi termini generali, nel caso da me osservato appare più problematico. La condizione degli individui da me studiati appare infatti ancora analizzabile in termini di “classe”, poiché la sussistenza resta per molti di loro un problema fondamentale e perché appaiono in generale marginali rispetto a certi processi di produzione simbolica rimarcati da quegli autori. Tuttavia, poiché non intendo addentrarmi in una discussione teorica sulle differenze tra classe e ceto nell’esperienza contemporanea, mi avvarrò comunque dell’illuminante contributo di Magatti e De Benedittis, sia pure impiegando con qualche grado di libertà la loro terminologia.