Un estratto dell’introduzione al volume La questione mediterranea (Mondadori, 2019).
Il volume racconta il Mediterraneo come un luogo in cui si incontrano e intrecciano culture, vite e traiettorie, lingue e temporalità. Uno spazio che aiuta ripensare la complessità del presente.
La questione mediterranea: ovviamente il riferimento è al testo incompiuto del 1926 di Antonio Gramsci, conosciuto in seguito come La questione meridionale. In quel testo la geografia tracciava un assetto di potere. La subordinazione del Mezzogiorno al Nord Italia, e alla vicinanza di quest’ultimo con l’Europa moderna dall’altra parte delle Alpi, faceva, e fa, parte di una cartografia in cui il Mediterraneo e i diversi sud del mondo sono resi strutturalmente inferiori e subalterni fin dagli inizi dell’epoca moderna. La presunta neutralità scientifica esercitata nella misurazione dello spazio sostiene la distanza, garantendo la gerarchia dei poteri che appartengono a un luogo preciso nello spaziotempo moderno. Tali osservazioni di Gramsci sul potere della geografia di esporre la spazialità dei poteri ci invitano a comprendere che il Mediterraneo è culturalmente e politicamente prodotto; non è semplicemente dato come un “fatto” geografico o storico. Il Mediterraneo emerge storicamente dalle coordinate assolutamente terrestri del pensiero. Rispondere alla questione mediterranea perciò significa registrare i rapporti di potere che richiedono che il Mediterraneo venga narrato in un modo specifico rispetto ad altre realtà storico-culturali. Il fatto stesso, d’altra parte, che questo corpo d’acqua sia stato denominato da parte di chi pensa di possederlo emerge già nel suo nome: per chi il Mediterraneo è il Mediterraneo, e non il bahr al-Rum (il mare dei Romani) o al-Bahr al-Shami (il mare siriaco)?
La sovrapposizione delle configurazioni specifiche dei diversi vettori del tempo rende impossibile ridurlo a una misura astratta e universale. La storia non può restare separata da queste considerazioni maturate nel campo della fisica moderna. Lo spaziotempo è elastico, soggetto a curvature di forze differenziate composte di distanze e dinamiche. Imporre una regola e una narrazione singola implicherebbe sostituire la complessità di una costellazione di processi aperti, mai completamente determinati, con una gabbia metafisica. Rendendo questa considerazione in termini più banali: significa accettare solamente la storia di coloro che vogliono fermare (e con ciò rifiutare) la storia per permettere che il loro punto di vista resti l’unico accettabile. «Gli eventi del mondo non si mettono in fila come gli inglesi. Si accalcano caotici come gli italiani».
Assemblato materialmente attraverso processi storici e pratiche analitiche, il Mediterraneo è stato collocato nella cultura europea contemporanea in una combinazione di giudizi e geografie. Oggi è sospeso tra le presunte radici antiche in rovina e gli odierni svaghi di vacanze, mentre il recente arrivo di immigrati “illegali”, accompagnati dalle ombre delle migliaia di corpi che giacciono in fondo al mare, ha drammaticamente bucato questa immagine, spezzando la sua storia. Oggi, la complessità della formazione storica e culturale del Mediterraneo torna in tutta la sua forza. L’arrivo non autorizzato del migrante ha riaperto quell’archivio, stracciato la geografia che una volta lo aveva confinato in luoghi precisi – altrove, dall’altra parte, non in Europa – e ha esposto il Mediterraneo e l’Europa moderna a una serie di sguardi e voci inaspettati.
Tale interruzione si interseca anche con altre interrogazioni di più lunga durata. Le recenti rivolte contro i regimi autoritari nel mondo arabo che hanno insidiato vecchi sistemi e accordi, i conflitti micidiali nei Balcani, e la continua guerra coloniale dello Stato israeliano contro i palestinesi dal 1948 in poi rendono più profonde le domande che arrivano oggi dalla nuova e insospettata centralità del Mediterraneo e che premono non solo sulle questioni geopolitiche ma anche sulle definizioni di cittadinanza, di diritti e di appartenenza. Crediamo che proprio lungo questi confini, con l’emergere di altre mappe, si sgretolino le costrizioni di un inquadramento precedente di stampo esclusivamente europeo. La cartografia della nostra geopolitica, che pensa di inquadrare la formazione di questa situazione e spiegarne l’evolversi, sembra ormai inadeguata. Come si vedrà, non si stratta semplicemente di riconoscere gli altri e le altre con le loro storie e culture, ma di registrare i limiti dei nostri apparati di conoscenza. Piuttosto che ricercare un’ulteriore spiegazione accademica distaccata e neutrale (che inevitabilmente riprodurrebbe la “superiorità” universale del suo linguaggio), cerchiamo di trarre dal Mediterraneo, dalle sue storie e dai suoi archivi multipli, l’imperativo a ricevere una moltitudine di condizioni storiche e culturali che ci conducono in un percorso critico innovativo. Sulle orme delle prospettive portate avanti dagli studi culturali, postcoloniali e decoloniali, la proposta è di adottare degli strumenti che ci permettano di riorientare la questione del Mediterraneo in una serie di registri nuovi. Questa ri-mappatura e ri-narrazione del Mediterraneo evidentemente evoca le geografie plastiche di de-territorializzazione e ri-territorializzazione: uno sradicamento e ri-orientamento delle interpretazioni consuete. Porre la domanda su chi, cosa, come e perché inquadra e spiega il Mediterraneo porta a una valutazione critica dell’attuale economia politica del sapere (e del potere). Ascoltare i linguaggi usati per narrare il Mediterraneo e attraversare gli spazi in cui tali linguaggi sono trasmessi e tradotti significa piegare il quadro ereditato (senza cancellarlo), creando così uno spessore storico e critico che tratteggi la mappa di un Mediterraneo diverso, ancora da venire.
Pensando con il tuffatore. Un corpo maschile, chiaramente scuro di pelle che sfida la versione europea di Gesù Cristo, la Vergine Maria e gli eroi greci tutti bianchi e ariani; un corpo che duemilacinquecento anni fa discende con grazia attraverso l’aria, fissando gli occhi spalancati sul futuro. Questo famoso dipinto si trova all’interno del coperchio di un sarcofago (la Tomba del Tuffatore) ed era destinato all’invisibilità. Ora però è visibile a noi, da quando è stato dissotterrato e aperto 50 anni fa, e illumina il presente in un’emergente riconfigurazione del passato. Questa figura flessuosa, in pieno volo, è circondata sui quattro lati interni della tomba da figure maschili reclinate in un simposio. Proviene dall’insediamento greco di Poseidonia, meglio conosciuto con il nome romano di Paestum, che si trova sulla costa tirrenica a sud di Salerno, vicino alla foce del fiume Sele. Come colonia greca, Paestum faceva parte dell’espansione delle città-stato della penisola del Peloponneso che si estendeva sul “mare oscuro del vino” di Omero in Asia Minore, verso nord fino alle steppe che si affacciano sul Mar Nero, e a ovest attraverso la Sicilia e l’Italia meridionale fino a le coste della Francia moderna e della Spagna. Come per tutti i colonialismi, invariabilmente anche qui ci fu la conquista, la sottomissione e la schiavitù delle popolazioni indigene. La terra non era vuota. Il controllo doveva essere strappato all’autorità locale; il sangue versato; le vite arbitrariamente terminate. Ciò significò la brutale imposizione sul suolo da parte di qualcuno, la memoria e il territorio di una cultura importata, e la sua gestione politica. Oggi, gran parte di questi “dettagli” svaniscono, persi nei miti di una nostalgia europea per la presunta purezza e nobiltà delle sue origini. Eppure il continuo richiamo a risonanze classiche in imperi più recenti è esposto nella grammatica architettonica di tutte le capitali europee moderne – da Londra, Parigi e la Berlino imperiale a Washington e a Roma fascista – dove l’architettura propone una presunta bianchezza degli edifici classici, che in realtà erano vivacemente colorati.
Pensare all’analisi storiografica in termini di un’operazione anacronistica significa proprio questo. Aprire la tomba, aprire l’archivio, disegnare rapidamente – come i pittori anonimi che avevano solamente poche ore per completare il loro progetto prima che il coperchio fosse chiuso, apparentemente per sempre – vuol dire suggerire un insieme di connessioni e coordinate con cui potremmo scegliere di navigare nella matrice afro-asiatica-europea del Mediterraneo. Ovviamente, senza abbandonare le competenze disciplinari che hanno portato alla luce questo passato, ciò significa anche rifiutare di ridurre i suoi materiali a un unico inventario di tempo. Dobbiamo adottare una relazione più ironica con le origini. In una sorta di archeologia dell’archeologia, cerchiamo di scoprire un’altra genealogia che non rispecchi semplicemente una volontà europea al potere. Attingendo al cuore della “civiltà europea”, alle sue “origini” greche e mediterranee, e a un’altra serie di interrogativi, possiamo incontrare ulteriori geografie di comprensione, altri assi d’interpretazione che rendono quel passato, apparentemente distante, sia vicino che potenzialmente dirompente. La piatta tassonomia del tempo, in cui tutto è al proprio posto cronologico e culturale, è bruscamente interrotta e frazionata, pronta per un altro collage di comprensione. Come il dipinto del tuffatore, eseguito per occhi non vedenti, ma ora recuperato ed esposto, anche noi possiamo prendere in considerazione gli elementi nascosti e sedimentati che propongono altri ricordi. Ci sono questioni di proprietà: chi ha il diritto di narrare e perché? Sotto quale tipo di genealogia la memoria è posseduta e autorizzata? Cercare di rispondere a queste domande porta a proporre uno spostamento delle premesse stesse delle scienze umane e sociali e della loro legislazione effettiva su tali questioni e prospettive. Spezzare l’imperativo filologico e ri-assemblare i suoi elementi in un’altra configurazione ci invita ad assumere una più profonda responsabilità sul nostro linguaggio; ciò significa riconoscere la sua precarietà e la sua vulnerabilità perpetua agli investimenti di un passato che non possiamo mai recuperare completamente né possedere. Un passato che ancora viene assemblato e riconosciuto, collazionato e registrato, che traccia e modella il nostro futuro.
Ciò implica la restituzione degli oggetti alla densità del loro lignaggio culturale e alla risonanza delle loro memorie storiche, nella connessione archivistica al loro possibile futuro. Lo scopo è evidentemente di restituire la storia stessa a un’altra storia e recidere il nesso automatico con il distacco scientifico come garanzia della nostra lingua e conoscenza, assumendosi la responsabilità sia del linguaggio che della memoria. Riconoscendo nella colonizzazione greca intorno al Mediterraneo non solo un impero o una talassocrazia marittima, ma anche l’evidenza di diaspore ed esilio dalle città greche che inaugurarono l’impresa coloniale, si apre un varco nel tempo, rendendo il passato prossimo alle preoccupazioni contemporanee. Stabilire un emporio, praticare la colonizzazione, disciplinare il territorio secondo un determinato ordine culturale, sperimentare, contestare e assorbire l’ibridazione, erano elementi centrali nell’esperienza di Paestum circa duemilacinquecento anni fa, come lo sono oggi. In questa prospettiva si può stabilire un arcipelago che non sia semplicemente spaziale e geografico, ma anche temporale, e che ci permette l’esplorazione anche attraverso il tempo. Nelle singolarità innegabili che incontriamo, possiamo scorgere le comunità di una costellazione che rende il passato comprensibile alle proiezioni future.
Se il tuffatore nella tomba è la prova di una cultura migratoria e ibrida – quella greca nell’Italia meridionale che confina con quella etrusca, romana e lucana – egli ci indica anche un Mediterraneo migrante. Quest’ultimo ha chiaramente offerto ospitalità a molti nomi e molteplici direzioni: fenicio, greco, cartaginese, romano, bizantino, arabo, normanno, genovese, catalano, veneziano, ottomano… Pensare con questi termini e storie significa ancora una volta aprire l’archivio e insistere su una fluidità che trabocca oltre i confini terrestri di ciò che oggi è prevalentemente una narrazione nazionale di questa complessa geo-storia. Inoltre, implica portare al simposio di oggi, inebriato dal liquore determinista del neoliberalismo, discussioni più profonde che portano la questione della migrazione moderna dalla sua frequente emarginazione in termini socio-economici a essere considerata motore delle culture mediterranee e della stessa modernità. Le domande di appartenenza attraversano i nostri confini giuridici, culturali e storici, e restano senza risposta. L’accesso alla cittadinanza, il diritto di narrare, il diritto di avere diritti disturbano l’assetto politico esistente. Il migrante diventa la cifra, la non-persona, la cui pratica e presenza decodifica le relazioni asimmetriche di potere che orchestrano la violenza arbitraria del presente.
Questo approccio fa parte di una prospettiva critica secondo cui lo spazio è storia. Ciò non significa semplicemente che la storia si verifica in un luogo preciso, ma piuttosto che è il luogo che conferisce a essa forma e sostanza. Vuole dire spostare l’attenzione dalla cronologia degli eventi e dalle scale della temporalità a quelle della sua ecologia materiale che si sovrappone, per insistere (come direbbe Franco Farinelli) che la geografia è storia.Così il Mediterraneo si allontana da un inquadramento statico e dallo sfondo delle narrazioni storiche approvate, per diventare a sua volta una storia.
Pensando a, e con, la complessità storica e culturale della formazione del Mediterraneo, cercando di definirlo e configuralo, ci si rende conto della necessità di oltrepassare non solamente i confini disciplinari e nazionali (e qui emergono le sfide degli studi culturali e postcoloniali) ma anche di disorientare e riorientare le coordinate epistemologiche che siamo abituati ad applicare. Nelle pagine seguenti lo studio del Mediterraneo diventa l’occasione per sperimentare una serie di ragionamenti che demoliscono la rappresentazione della ragione che si crede in grado di rendere il mondo trasparente alla propria volontà. Insistere sulla valenza storica e politica delle forme di vita e di cultura che sfuggono alla gabbia razionale dentro cui tutto è ridotto a una grammatica di pensiero unico significa proporre sia un altro Mediterraneo sia un altro modo di ragionare e praticare il mondo. Qui le arti visive, musicali e letterarie ci insegnano qualcosa. Forniscono dei linguaggi diversi con cui mappare e far emergere un Mediterraneo che sfugge a una definizione monotematica, confinata in una logica accademica e disciplinare, per proporre degli ordini critici inaspettati e innovativi. Contemporaneamente, la presunta dialettica del movimento del progresso storico è smontata, non per cancellare la storia in sé ma per interrompere la sua linearità astratta e riconfigurarla nella stratificazione materiale e temporale che ne compone la presenza nel presente. Con queste prospettive il Mediterraneo diventa un laboratorio della modernità dal punto di vista storico e culturale, e allo stesso tempo propone una profonda provocazione epistemologica che ci permette di riaprirne l’interpretazione nel quadro della modernità.
Lavorando con i materiali disponibili – i concetti e le definizioni del Mediterraneo che abbiamo ereditato – con tutti i limiti linguistici e culturali del caso, ci si trova ad adottare un certo scetticismo critico nutrito dalla conoscenza della costruzione coloniale e dell’invenzione storica del Mediterraneo, largamente sostenuta dal mito dell’ordine imperiale latino. La questione della definizione dei suoi confini storici, politici e teorici diventa quasi sempre una questione esclusivamente europea. In parole povere, lo spazio geograficamente definito “mediterraneo” non combacia con un’unità storica o culturale; esso è sovradeterminato da una prospettiva europea. Pensiamo che da questa frizione tra spazialità condivisa e storie differenziate emerga una problematica che possiamo chiamare “il Mediterraneo” senza imporci la necessità immediata di definirlo, lasciandolo a decantare come orizzonte e domanda. Ovviamente, dati gli attuali rapporti di potere, il Mediterraneo come definizione e pratica politica fa parte dell’ordine moderno europeo e occidentale, a sua volta sottotraccia di un assetto coloniale. Registriamo tuttavia anche il suo attraversamento da parte delle storie e culture subalterne e subordinate che costituiscono il lato oscuro e rimosso della specificità spaziale-temporale di questa costellazione geo-storica e critica.
Stiamo cercando di ragionare su qualcosa qui, ma non necessariamente razionalizzarla. Questo tentativo critico è rispecchiato nello stile deliberatamente episodico, perfino frammentario, nell’assemblaggio delle schegge del discorso a seguire.
Negli anni Cinquanta dell’ultimo secolo Theodor W. Adorno elaborò un’importante distinzione tra la forma del saggio critico e l’articolo scientifico. Il saggio critico – e Walter Benjamin e Hannah Arendt ne sono tra i maggiori proponenti – offre un modo di scrivere e pensare che si oppone a una verità garantita dai protocolli disciplinari. Si disfa e si frantuma così il richiamo a un’eterna veridicità sostenuta dalla scientificità e dall’idea assoluta della ragione che conferma la coincidenza tra la razionalità sociale e il suo presunto carattere oggettivo. Le divagazioni e le riflessioni funzionano come un’eresia, perché equivalgono alle pause, gli intervalli e l’annullamento della razionalità discorsiva. Perciò si ricerca il metodo nel processo della comprensione di se stessi, mentre si confuta l’illusione che possa esserci una qualche attività storica fuori dalla storia. La distinzione elaborata da Adorno diventa ogni giorno più rilevante proprio mentre la macchina accademica si allinea sempre di più alla cosiddetta gestione trasparente del mercato, progressivamente soppiantando le conoscenze critiche con le competenze tecniche quantistiche. Contro questo meccanismo riteniamo necessario, come diceva Adorno, insistere su tutto ciò che «potrebbe irritare o risultare pericoloso», per scoprire la memoria della conoscenza non concettuale che aderisce al pensiero.
L’algebra del potere, che produce conoscenza e storia universali mentre discredita altre conoscenze come locali e indigene, e quindi limitate, corrisponde ai poteri che formano e disciplinano il mondo in modo tale che le loro coordinate concettuali e materiali diventino una cosa sola. Proprio come propone l’agenda neoliberale, non c’è alcuna alternativa. Tuttavia, se siamo disposti a mettere in discussione la nostra gabbia concettuale, dobbiamo allora anche riconoscere che l’attuale economia della conoscenza si basa su una precisa e precaria disposizione dei poteri. Le pretese universali di tale disposizione non ne possono offuscare la specifica formazione storica e la collocazione culturale all’interno dell’economia politica che colonizza il mondo, imponendosi come universale. Lungo questa falda intendiamo portare le nostre analisi e scavare i nostri percorsi critici.
Pensando con il tuffatore