Immagini e posizionamento etico
Cosa significa, oggi, fare antropologia della schiavitù? E quali implicazioni può avere, a questo proposito, l’utilizzo dell’immagine come strumento di restituzione etnografica? Sono questi i due interrogativi con cui Raúl Zecca Castel ha impostato il dialogo con gli studenti del Liceo di Scienze Umane Gambara di Brescia coinvolti nel progetto .
Se la schiavitù è stata ufficialmente abolita in tutti i paesi del mondo, infatti, secondo il Global Slavery Index del 2018 sarebbero oltre 40 milioni le persone che vivono in condizioni ascrivibili a tale sistema di sfruttamento, vittime di lavoro forzato e/o minorile, sfruttamento sessuale, servitù debitoria, traffico di persone e altre forme estreme di abuso. A tal proposito si è spesso fatto riferimento a definizioni come nuove schiavitù, quasi-schiavitù, schiavitù moderne o contemporanee, nonostante l’utilizzo del termine “schiavitù” abbia sollevato diverse criticità.
Senza entrare nel merito di tali dibattiti, e qualunque sia la posizione in proposito, fare antropologia della schiavitù, oggi, significa evidentemente confrontarsi con esperienze di dolore e sofferenza umana che interrogano direttamente il posizionamento etico e politico dell’antropologo e di chiunque si approcci a situazioni simili. Lungo tale prospettiva, la questione etica del posizionamento emerge in modo ancor più dirimente quando si fa ricorso all’utilizzo delle immagini, siano esse fotografie o produzioni audiovisive. L’esposizione del corpo di soggetti in condizioni sofferenti apre infatti il discorso a considerazioni che, ben prima delle legislazioni sulla tutela della privacy, interrogano la coscienza dell’antropologo (così come del fotografo o del documentarista) e chiedono conto della sua legittimità di rappresentare e diffondere al mondo tali immagini. Si tratta, in fondo, dell’annosa questione che riguarda fini e mezzi, e che domanda non solo se i primi giustificano i secondi ma, ancora prima, se è possibile stabilire una frontiera oltre la quale non è consentito spingersi; una soglia ultima tra la necessità di documentare e denunciare una realtà di sfruttamento e il dovere del rispetto della dignità individuale e collettiva dell’essere umano in quanto tale.
Per sollecitare tale dibattito – inevitabilmente destinato a non trovare risposte univoche e definitive –, agli studenti è stata proposta la visione di alcune immagini estremamente provocatorie che, per quanto non direttamente legate al mondo dell’antropologia, assolvono tuttavia a quella “missione” che secondo chi scrive dovrebbe rappresentare la spinta politica alla base di ogni ricerca etnografica.
La prima immagine sottoposta agli studenti è il celebre scatto di Kevin Carter, “Bambino con avvoltoio”, vincitrice del Premio Pulitzer nel 1994. In primo piano, un bambino sudanese evidentemente denutrito è accasciato su un terreno del tutto brullo, mentre a pochi passi di distanza un avvoltoio dal profilo tenebroso sembra attenderne pazientemente la morte per cibarsene. Tramite questa immagine, Carter aveva inteso sensibilizzare l’opinione pubblica in merito al tema della forte carestia che stava colpendo il Sudan e, più in generale, in merito al tema della fame nel mondo. In seguito alla pubblicazione della foto, tuttavia, Carter cominciò a ricevere aspre critiche – oltre che insulti e minacce –, la maggior parte delle quali lo accusavano di aver sfruttato la tragedia di un bambino senza aver fatto nulla per aiutarlo. Di qui, non riuscendo più a sopportare le enormi pressioni mediatiche e il peso delle innumerevoli situazioni di ingiustizia sociale che aveva testimoniato nel corso della sua vita, Carter, a soli 33 anni, prese la decisione estrema di suicidarsi.
Un’altra immagine, ancora più drammatica, è quella realizzata da Frank Fournier, vincitrice del World Press foto nel 1985. In seguito all’eruzione del vulcano Nevado del Ruiz, in Colombia, oltre 25.000 persone rimasero sepolte sotto le macerie dei loro villaggi. Omayra Sanchez, una bambina di 13 anni, fu fotografata (e filmata) mentre era intrappolata sotto il fango, con la sola testa ad emergere e a chiedere aiuto. Dopo 3 giorni di agonia, Omayra cedette all’ipotermia. «I suoi grandi occhi neri, pieni di rassegnazione e saggezza, ancora mi perseguitano nei miei sogni», scrisse Isabel Allende. Come lo scatto di Carter, anche quello di Fournier sollevò infinite polemiche sull’opportunità di esibire al mondo gli ultimi terribili istanti di vita della piccola Omayra, ma servì anche come un pesantissimo atto d’accusa rivolto alle autorità colombiane, colpevoli di aver ignorato i preallarmi che erano stati inviati e di non essere intervenute tempestivamente con i soccorsi.
A distanza di così tanti anni, entrambe le fotografie hanno suscitato un evidente turbamento negli studenti, segno del fatto che, ancora oggi, quelle immagini evocano qualcosa che trascende il loro contenuto. Significativo è stato l’intervento di uno studente che ha voluto ricordare il caso di Stefano Cucchi, geometra romano massacrato da alcuni militari dell’arma dei carabinieri mentre era sotto custodia cautelare nel 2009. In quel caso, la sofferta decisione di rendere pubblica la foto del suo volto tumefatto da parte della famiglia significò l’inizio di una svolta per una vicenda che, altrimenti, non avrebbe fatto altrettanta presa sulla coscienza del paese.
Da parte sua, anche il sapere antropologico, sempre più spesso, cerca nella forma dell’audiovisivo modalità di restituzione che possano affiancare o integrare la forma più classica della monografia etnografica. Nel mio caso personale, la realizzazione di un documentario che rendesse visibile quanto raccolto sul campo tramite il metodo dell’osservazione partecipante e delle con i soggetti della mia ricerca, si è posta esattamente lungo quella prospettiva politica di denuncia sociale espressa da Carter e Fournier; a maggior ragione se in considerazione del fatto che l’oggetto dell’indagine riguardava una realtà di sfruttamento umano spesso descritta in termini di schiavitù contemporanea.
La visione di Come schiavi in libertà, un’inchiesta sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti haitiani impiegati nelle piantagioni di canna da zucchero della Repubblica Dominicana, è stata così un’ulteriore occasione per riflettere sul significato e il valore di uno strumento come quello dell’immagine applicato all’indagine antropologica sulle nuove forme di schiavitù, tenendo sempre presente il dovere di rispondere a una coscienza etica, rispettosa della dignità e dell’integrità delle persone che ci offrono i loro racconti e il loro sguardo sul mondo.