Dopo diciotto anni dalla sua pubblicazione, arriva in Italia “L’amante di Wittgenstein”, di David Markson. La recensione di Sofia Dei Cas.
Una volta, mentre infuriava una tempesta,
Turner si fece legare all’albero di una nave, per poter in seguito dipingere la tempesta.
Chiaramente non era la tempesta in sé che Turner voleva dipingere. Ciò che intendeva dipingere era una rappresentazione della tempesta. In questo senso il linguaggio è spesso impreciso, ho scoperto.
David Markson, L’amante di Wittgenstein
Il mondo è vivo e tutto ciò che è vivo è irrecuperabile e questa è la nostra fortuna.
Roberto Bolaño, L’ultima conversazione
Tra i lasciti editoriali che l’anno passato ci ha consegnato c’è la traduzione – ad opera di Sara Reggiani, editore Clichy – di un libro che alcuni di noi erano impazienti di leggere. Perché L’amante di Wittgenstein, scritto da David Markson e pubblicato negli Stati Uniti nel 1988, ha avuto un illustre recensore, David Foster Wallace. Questi, oltre ad averlo incluso in più occasioni nella sua personale lista di libri preferiti, ha dedicato al libro un brillante saggio, colmo di ammirazione, apparso in Italia nel 2003 con il titolo de La pienezza del vuoto e utilmente riproposto in postfazione a questa edizione de L’amante di Wittgenstein. «Quello di Markson» vi si legge «è un tipo particolare di grande libro, letteralmente profondo, e probabilmente destinato, nella pienezza sua e dei tempi, a diventare senza troppo clamore un classico».
Sembrerebbe, a un primo sguardo, che i tempi siano fin troppo maturi per Markson. Difficilmente riconosceremmo di avere fra le mani un nuovo classico se lo cercassimo tra le spoglie del suo impianto stilistico e tematico: nella protagonista solitaria e iperconsapevole, nel suo eloquio monocorde e impassibile, nel ritmo aforistico che lo scandisce, o nella sostanziale assenza di sviluppo narrativo all’interno del racconto. Nemmeno lo troveremmo nei suoi rovelli filosofici, considerati di per sé: siamo forse lettori troppo saturi di postmodernismo – e di filosofia analitica – per poterci nuovamente appassionare alle sottili questioni del riferimento linguistico, dell’opacità semantica, della coscienza come baricentro narrativo.
«La filosofia non è il mio mestiere» dichiara d’altra parte più volte la narratrice nel corso del suo sincopato monologo. Per fortuna, quindi, non è una cervellotica dissertazione di filosofia, fosse pure in senso lato, quello che possiamo trovare in questo libro. Ma che cosa, invece? Che cosa, soprattutto, di grande e profondo? Non ci ingannino i voli pindarici e le continue digressioni: quella che Markson va tessendo è una trama incredibilmente ambiziosa.
Il punto di vista narrativo prescelto è quello di Kate, una donna americana non più giovane, della cui vita veniamo a sapere poche cose: che è stata pittrice, che ha fatto improbabili viaggi in giro per il mondo, soprattutto in Europa, che ha avuto diversi amanti e perso un figlio, che ha tentato da un certo punto in poi di sbarazzarsi di ogni tipo di «bagaglio» accumulato nel corso degli anni, orientandosi verso un’esistenza spartana e solitaria, nei pressi di una spiaggia. Il suo amore per Wittgenstein non viene in effetti mai dichiarato: «credo che mi sarebbe andato a genio», si limita ad ammettere lei, ricordando solamente alcuni dettagli intorno alla sua persona – una frase sul dono, l’impressione visiva che suscitava quando lo si osservava pensare, il fatto che scolpisse, suonasse il clarinetto e avesse una volta adottato un gabbiano, a Galway. Il nome del filosofo viennese rischia così di passare inosservato, uno fra i tanti che affollano l’enciclopedia-mondo di Kate, che ne fanno un oggetto fantasmagorico e vorticoso.
Con il procedere della narrazione capiamo che ciò a cui stiamo assistendo è lo squadernarsi fenomenologico di questa vivacissima enciclopedia personale, la quale – come verosimilmente quella di tutti noi, ma in una modalità volutamente esasperata – ha la peculiarità di far convivere e dialogare di continuo oggetti e persone appartenenti a piani ontologici, o livelli di realtà, molto diversi. Le persone alle finestre nei libri di Emily Brontë, un gatto color ruggine intravisto (forse immaginato) tra gli spalti del Colosseo, le monete dipinte sul pavimento dagli allievi di Rembrandt, i pretendenti di Penelope, una polverosa vita di Brahms trovata in uno scatolone, i propri panni messi ad asciugare al sole, Lawrence d’Arabia, il cerchio perfetto di Giotto, le sveglie che suonano di continuo ne Le perizie di William Gaddis, il proprio riflesso in uno specchio che rivela la propria madre: queste solo alcune delle moltissime bizzarre entità su cui ritorna, ricorsivamente, il discorso dell’amante di Wittgenstein, non di rado avvitandosi su se stesso, anche perché i livelli di realtà si possono ulteriormente complicare se ci si sofferma, come la nostra narratrice è incline a fare, sulle multiformi rappresentazioni mentali che di cose e persone ci possiamo costruire nella testa.
Consideriamo un esempio, tra i molti possibili:
Nel frattempo la questione delle cose che esistono solo nella testa continua vagamente a tormentarmi, a dire la verità.
Sostanzialmente perché mi è appena venuto in mente che il fuoco che forse accenderò nell’area smaltimento rifiuti, per vederlo brillare sulle bottiglie rotte, è un’altra cosa che esiste solo nella mia testa.
Se non fosse che in questo caso è una cosa che esiste solo nella mia testa nonostante non l’abbia acceso, il fuoco.
Anzi, esiste nella mia testa anche se probabilmente non accenderò mai il fuoco.
E, a essere sinceri, quello che davvero ho in testa non è nemmeno il fuoco, bensì quel dipinto di Van Gogh che ritrae un fuoco.
Per quanto, in realtà, ora non stia di fatto visualizzando il dipinto stesso, bensì una riproduzione del dipinto.
E la riproduzione riporta una didascalia che segnala come il dipinto si chiama Le bottiglie rotte.
Ed è conservato agli Uffizi.
Ovviamente non c’è alcun dipinto di Van Gogh chiamato Le bottiglie rosse agli Uffizi.
Non c’è da nessuna parte un dipinto di Van Gogh chiamato Le bottiglie rosse, in effetti, nemmeno nella mia testa, avendo detto io stessa che ciò che ho in testa è solo una riproduzione del dipinto.
Mi sa che mi sono confusa.
Ciò che intendevo dire, penso, è che sto visualizzando un dipinto che Van Gogh non ha dipinto, e che ora è diventato una riproduzione di quel dipinto, e che tanto per cominciare ritrae un fuoco che io non ho acceso.
«Con quali assurdità il linguaggio si ostina a sorprenderci», chiosa Kate in un altro momento del suo racconto. Esso, avrebbe osservato Wittgenstein, traveste di parole il pensiero, creando, tra le altre, l’illusione dell’uniformità: proprio come panni sempre uguali che nascondono morfologie anche molto differenti.
Nominando, per esempio, abbiamo l’impressione di fare sempre la stessa cosa, di essere coinvolti nello stesso banale e referenziale «gioco linguistico»; a ben vedere, invece, le strade che percorriamo possono essere di volta in volta molto diverse, tortuose anche, e lo stesso vale per le nostre altre differenti e multiformi attività linguistiche. (Ripercorrerle e riconoscerle a partire dagli usi, pazientemente e senza ansie metafisiche, è ciò che fa Wittgenstein nei suoi scritti più maturi, in modo esemplare nelle Ricerche filosofiche).
Nella sua vita ordinaria, con enunciati e parole Kate sperimenta delle volte la sensazione di trovarsi di fronte a «cose quasi impossibili da dire», assaporando uno spaesamento tipicamente wittgensteinano: l’incapacità di trovarsi nel proprio linguaggio. Ciò che più a monte sembra inquietare la nostra narratrice, in effetti, è il rapporto fra il suo io e la realtà, l’immagine cioè di una mente, la sua, che raffigura i fatti, «tutto ciò che accade», e che eo ipso fa del mondo il suo mondo.
Ma, del resto, cosa c’è che non sia anche nella mia testa?
È come un maledetto museo, a volte.
Come se fossi stata designata curatrice di tutto il mondo.
Che è quello che ero e che, per così dire, indiscutibilmente sono.
Lo spettro del solipsismo fa la sua apparizione in questo passaggio, nel sentimento di claustrofobia – e di estraneità – che esso evoca. Impossibile non pensare di rimando alle più austere parole di Wittgenstein, che nella proposizione 5.6 del suo Tractatus logico-philosophicus esprime un pensiero molto vicino a quello di Kate: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».
Anche Kate all’inizio del suo monologo, come Wittgenstein in procinto di scrivere il Tractatus, sembra volerci dire: questo è il mondo, «come io l’ho trovato»; e anche Kate, come Wittgenstein, sembra, al culmine della sua esplorazione, trovare piuttosto il linguaggio, e sbattere la testa contro le sue pareti. Il mondo le appare alla luce di questa scoperta un po’ meno vivo, ingabbiato, lontano o opaco come possono essere gli oggetti di un museo.
Sono insomma le medesime parole – il medesimo linguaggio – che ci avvicinano alle cose e che al contempo ce ne fanno allontanare. Come se le maglie linguistiche che costituiscono il mondo, che lo rendono possibile per noi – che ne fanno quello che è – e che donano al contempo a ciascuno una sua voce individuale, come se queste maglie, così potenti e prodigiose, potessero apparire talvolta come una strana maledizione, un irretimento dell’esperienza dal quale si vorrebbe uscire, pur avvertendo la follia del desiderio: «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo».
Ce la possiamo quasi concretamente immaginare, alla fine del libro, l’amante di Wittgenstein: nella sua casa vuota a battere a macchina, o in spiaggia ad appiccare uno dei suoi rituali, fatui, incendi notturni; sentiamo quasi il ronzio incessante dei suoi pensieri concatenati, che la riportano per un istante a Hissarlik, là dove tanti anni prima sorgeva Troia, che la spingono poi a rimuginare sulle sue gonne a portafoglio stese sui cespugli, sulla forma che assumeranno, gonfiate dal vento; la vediamo quasi, con la fronte aggrottata nello sforzo di ricordare la Rapsodia per alto di Brahms, e poi di nuovo per un istante riportata al suo denso, fragile presente, sopraffatta da immagini e rappresentazioni, spaesata di fronte a tante parole, avvinta e sconcertata da un mondo che le sta davanti, sfuggendole sempre.