Cinema, il mio bambino “difficile” (e “iperattivo”)

Sono cresciuto nell’entroterra abruzzese, in un piccolo paese di provincia. L’unico cinema presente in zona, negli anni Ottanta-Novanta, era un cine-teatro per adulti. Aveva una programmazione prettamente pornografica, fatta eccezione per i periodi di festa, nei quali venivano proiettati film “per tutti”, molto raramente di mio gusto.

La mia educazione filmica si è quindi sviluppata prevalentemente con il noleggio di film in videocassetta, la programmazione di Fuori Orario e de I Bellissimi di Rete4. Questo per quanto riguarda la mia adolescenza. Solo più tardi, grazie alla pirateria, ho potuto ampliare le mie conoscenze cinematografiche, riuscendo a studiare ed approfondire autori quasi invisibili nel mio Paese.

Ancora prima di entrare attivamente nel Cinema come regista, già sapevo che qualcosa non andava. Da spettatore, se sei alla ricerca di qualcosa che sia al di fuori del cosiddetto “panorama contemporaneo”, ovvero quei film distribuiti nelle sale e in televisione, hai sostanzialmente due modi: andare ai festival, in giro per l’italia, o affidarti alla pirateria. Solo in seguito ho scoperto che per il regista indipendente che sarei diventato le opzioni sono sostanzialmente le stesse. Andare ai festival e alle rassegne è un’operazione molto costosa, da spettatore. Un privilegio al quale accedi se sei benestante (e/o accreditato in quanto addetto ai lavori).

Dunque l’unico modo per accedere ad un diritto (quello di guardare i film che trovo interessanti) è quello di seguire le vie dell’illegalità, come per le droghe leggere o l’eutanasia. Questo, nel bene e nel male, è stato determinante.

Quando, in seguito, mi sono iscritto all’Accademia dell’Immagine de L’Aquila, avevo le idee molto chiare su ciò che mi interessava e su ciò che avrei fatto come autore. L’Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine era una scuola atipica: era in Abruzzo, nella terra della veracità, e non offriva un vero e proprio focus tematico. Veniva frequentata da quegli allievi che desideravano acquisire competenze generiche, inerenti l’intera “filiera produttiva filmica”. Una scuola dalla grande tradizione, con un piano di studi molto interessante, seppur piuttosto “istituzionale”. Tanti contro, qualche preziosissimo pro. Insomma, il fedelissimo specchio del cinema. La scelsi perché l’alternativa era il Centro Sperimentale di Cinematografia, la fucina del male. Desideravo un percorso di studi riconosciuto, attestato. Cosa ne avrei fatto poi delle nozioni apprese o ripassate sarebbe stato un problema mio.

É stata una frequentazione molto polemica la mia, ero antipatico e conflittuale. Alla storia del cinema ho sempre preferito la sua “contro-storia”; all’industria le visioni sepolte; alle competenze tecniche l’ostinazione dello sguardo. Le scuole di cinema sono il primo gradino della pericolante scala del cinema italiano. Lo scopo è quello di formare dei professionisti fedeli all’industria e al sistema, mai degli autori. O meglio, formare degli autori ove autorialità e competenza tecnica sono esattamente la stessa cosa, dimenticando che a volte l’una esclude l’altra. E ci riescono. Attualmente mi capita di indovinare da quale scuola proviene un film già dopo i primi 2 minuti. E se è di un alunno o di un insegnante di quella scuola. Oramai le caratteristiche di questo o quel modo di fare un film sono dichiarate in un modo raramente equivocabile.

Un film italiano non mi stupisce quasi mai, poiché ne leggo perfettamente le traiettorie sentimentali ed ideologiche, conosco le sue spinte cromatiche, le istanze pubblicitarie e politiche. Conosco le illusioni del regista, ciò che ha subito e quello che è stato spinto a credere. E ciò che, ad un certo punto, crede ciecamente ed impone a tutti. D’altronde faccio anch’io la stessa cosa, è terribile. Si diventa esseri schifosi, se non si presta la dovuta attenzione. Bisogna fare un lavoro parallelo davvero duro, per compensare il fiume di frustrazione ed egoicità che ci pervade l’animo ogni giorno. Ma torno per un attimo alla scuola e ai suoi meccanismi. Con pochissime eccezioni, gli alunni che ottengono il diploma fanno immediatamente carte false per trasferirsi a Roma e fare gavette disumane e brutalizzanti pur di entrare “ner cinema”. Sono disposti a qualunque sacrificio, adottano entro brevissimo tempo una visione chiusa e rassicurante, smettono di studiare. Si preparano ad essere i potenziali mostri di domani, contribuendo come possono all’operato dei mostri di oggi.

I primi responsabili di questo piccolo sfacelo sono i responsabili formativi delle scuole. Invece di incitare alla ribellione, all’indipendenza e alla curiosità, si “educa”, si “inculca”, si “insegnano” i dogmi dell’industria del cinema. Ciò che conta è che l’alunno trovi un posto di lavoro nel sistema e ogni elemento critico che si frappone fra il candidato e il pachiderma-cinema è caldamente osteggiato, deriso, eradicato. Insomma, il cinema è innanzitutto un lavoro, una fonte di guadagno. Che possa essere anche qualcos’altro non viene mai menzionato. Quindi, ad esempio, conoscere le scelte rapide da tastiera all’interno di Final Cut (uno dei programmi di video editing maggiormente utilizzati, assieme ad Avid Media Composer), o scrivere un soggetto che contenga dei punti di svolta accattivanti diventano aspetti di indubitabile importanza, ignorando il fatto che si può benissimo montare un film con qualunque software, così come si può decidere di non montarlo affatto; così come si può realizzare un film, lungo quanto serve, senza l’ausilio di una sceneggiatura. Pensarla in termini diversi equivale a suicidarsi. In questo senso, mi reputo fortunato a vivere ed operare in provincia. Questo mi permette di non avere pressioni, vivo in una regione – l’Abruzzo – che non ha neppure una film commission.

Dunque arrangiarsi è una necessità, una filosofia di vita. L’Abruzzo è una regione ancora umana, empatica, compassionevole. Le persone ti aiutano, sono solidali e collaborative. Fare i film che faccio io è estremamente facile, il tempo qui scorre in maniera diversa. Se hai bisogno di contemplare, qui puoi farlo.

Fatto sta che per realizzare, ad esempio, il film In the fabulous underground, incentrato sulla figura di Anton Perich, filmmaker croato che negli anni Settanta ha operato a New York al fianco di Warhol e della sua Factory, feci man bassa delle attrezzature dell’Accademia dicendo che mi servivano “per realizzare il corto d’esame di fine anno”. Dovetti mentire per fare quello che mi interessava, cosa che continuo a fare tutt’ora. Portai le attrezzature in Croazia e poi a New York. Feci il mio film e per l’esame riciclai un vecchio e piatto lavoro, realizzato anni prima per un’associazione culturale. Era nato seguendo attentamente tutti i dogmi estetici del committente e, naturalmente, non vi era la minima traccia di cinema e libertà. All’esame presi 30 e lode, inutile dirlo. Inutile dire anche che questa è stata una lezione importantissima per me, una lezione che all’epoca sottovalutavo, ma che mi riferì molto sul funzionamento del sistema cinema.

Ho continuato a fare i miei film, senza alcuna pretesa ministeriale, industriale, commerciale, festivaliera, di carriera. Senza ambire mai ad alcun riconoscimento. Assieme a Betty L’Innocente ho sempre creato i film che volevo fare, senza chiedere l’aiuto e il permesso di nessuno. Film che al massimo costavano venti euro, che non davano lavoro a nessuno, neppure a noi. Piccoli film, insomma. Film che raramente ho proposto in giro e che, quando sono stati selezionati da qualche parte, hanno comunque raccolto il favore del pubblico e della critica.

Non ho mai compreso l’offerta cinematografica delle sale, l’isolamento assoluto nel quale vivono registi ed autori che stimo profondamente, le scelte dei comitati di selezione ai festival, i valori della critica e dei cosiddetti “addetti ai lavori”. Ma ho sempre dato al nemico il rispetto che merita.

Spesso mi sono ricreduto, ho trovato registi commerciali estremamente gradevoli sul piano umano (non è questo quello che conta?), critici non allineati e mai sazi, distributori e produttori onesti e sinceri. Non ho mai voluto far parte di correnti, essere etichettato come indipendente, ribelle, sperimentale (che per me non significa assolutamente nulla), resistente (idem), rivoluzionario (per carità). Ho conosciuto autori indipendenti odiosi, pieni di sé, tracotanti, egoisti, ottusi, bigotti, reazionari, piccolissimi nell’animo.

Dunque se c’è una cosa in cui credo è quella di non schierarmi in gruppi ideologizzati, odiare o amare qualcosa solo per l’aggettivo che ha su di sé. Uno dei problemi che rilevo riguarda purtroppo il cosiddetto mondo degli autori. Spesso c’è ipocrisia, poca cordialità, nessuna solidarietà, molta autoreferenzialità. Si formano dei piccoli branchi, spesso determinati dalle selezioni ai festival, che non si guardano a vicenda con rispetto, ma all’interno di una competizione non dichiarata, ove un solo gruppo può detenere la patente del buon cinema. Si crea la moda dei film che vanno contro la moda, che è di fatto la situazione più goffa e buffa che esista.

Questo discorso è naturalmente frutto di semplificazione e generalizzazione, me ne rendo conto, ma credo che serva ad illustrare un problema che esiste e che va quindi posto all’attenzione degli altri, di quelli che hanno voglia di ascoltare. Questo per me è uno dei problemi del cinema. Lo si fa molto spesso perchè si ritiene il proprio sguardo indispensabile, più meritevole di quello altrui di attenzione e riconoscimenti. E si pretendono entrambi. Si vive il cinema come una competizione, che è specchio della società del lavoro, ove più guadagni, più sei conosciuto, più parlano di te, più sei meritevole. O viceversa, addirittura. I cosiddetti “autori sperimentali”, fuori dal circuito dei fondi pubblici, più sono avulsi dal sistema e più sono arroganti.

Dispiace dirlo, ma dove spesso ho creduto di trovare comunanza ed empatia ho ricevuto cocenti delusioni sul piano umano. Insomma, un mondo, quello del cinema, diviso in classi che si guardano con sospetto e, come nel panorama politico della sinistra, hanno sostituito alla lotta di classe “l’invidia di classe”, per parafrasare una riflessione del mio amico Leonardo Persia (storico del cinema, Rapporto Confidenziale).

Personalmente, non ho mai chiesto soldi allo Stato non per pregiudizio, ma per mancanza di comprensione dell’altro. Non ho mai voluto un produttore per lo stesso motivo. Tranne una volta. Tranne quando abbiamo deciso di fare Ananke, il mio “esordio”.

Con questo film ho voluto dare fiducia ad un produttore-distributore, ad una troupe uscita dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Tutte figure che per un regista come me, e alla luce di quanto detto sopra, dovrebbero essere la personificazione del limpido Male, se fossi ideologizzato.

L’ho fatto per tre motivi: perchè il film ne aveva bisogno, perchè io ne avevo bisogno e perchè servivano i soldi che non avevo per realizzarlo. Pochi, pochissimi soldi, ma pur sempre fuori dalla mia portata. Ma per ottenere questa minuscola e necessaria somma ho dovuto sostanzialmente fare due cose: anticiparli quasi tutti, indebitandomi in maniera quasi insostenibile e mentire per l’ennesima volta. Nel dettaglio, ho dovuto scrivere una sceneggiatura, poichè la storia del film non solo è ancora un criterio ineludibile per l’assegnazione del contributo, ma è anche uno dei fattori che ne determinano “la qualità”. Mi piacerebbero dei criteri differenti, come intelligentemente faceva notare Mauro Santini (regista indipendente pesarese, regista di talento, caro amico) ad una tavola rotonda alla Mostra del Cinema di Pesaro un paio di anni fa.

Quella di Ananke non era una vera e propria sceneggiatura, era più una scaletta. A volte mi limito a qualche nota presa qui e là, per un film. Per Ananke abbiamo dovuto fare del lavoro extra, lavoro che sapevamo non essere necessario, che difatti, nella sua versione montata, non ha nulla a che vedere con la sceneggiatura presentata al Ministero e al produttore. Ad ogni modo, grazie a questa sceneggiatura siamo riusciti ad ottenere un contributo di ventiduemila euro, se non ricordo male. Per una serie di motivi che non sto qui ad elencare e che esulano dalle mie responsabilità il contributo non è mai stato incassato, i miei debiti sono rimasti, il film (girato in super16) è uscito in una versione incompleta (non in pellicola e con una qualità visiva molto bassa), alcuni fornitori devono ancora essere pagati e nessuna somma è stata disponibile per la promozione e la distribuzione. Grazie a Pedro Armocida, direttore della Mostra del Cinema di Pesaro, siamo riusciti a mostrare il film in anteprima al suo festival, in una rassegna dedicata agli esordi italiani più interessanti. Questo ci ha permesso di essere selezionati anche al Science+Fiction di Trieste, qualche mese dopo. Nessun altro festival in Italia ci ha selezionato, spesso perché non avevamo neppure i soldi per iscriverlo. Alcuni scartano il tuo film senza neppure vederlo, ma questa è un’altra storia. Abbiamo fatto tutto da soli, contattato curatori, selezionatori, critici ed esercenti sui social network, per sottoporre alla loro attenzione il film. Betty ha (e continua a fare) un lavoro enorme e siamo riusciti a proiettarlo in una decina di occasioni. Rassegne, più che altro. Rassegne i cui curatori fanno un lavoro ammirevole, di ricerca sul territorio, con un budget ridicolo, senza arrendersi, con fondazioni, sponsor ed enti pubblici che tagliano le risorse sempre di più. Nel 90% dei casi si parla di luoghi che non possono nemmeno garantirti un rimborso spese. Quando vengono pagati i diritti per la proiezione del film, questi finiscono alla produzione. Dunque se puoi permettertelo accompagni la proiezione del tuo film a tue spese e lo presenti al pubblico. Molto di rado noi abbiamo potuto. Ma ringraziamo queste persone, è grazie a loro se Ananke ha potuto contare su un po’ di pubblico.

Ora il film è entrato nel catalogo di una piattaforma VoD in Francia, verrà proiettato negli Stati Uniti e forse in Giappone. In Italia oramai è un “film vecchio”, che non proiettano quasi più.

Questa è più o meno l’esperienza di Ananke. Una storia che comunque ritengo felice, fortunata, soddisfacente. Nonostante il degrado e le difficoltà immani, spesso indegne e immeritate. Ananke è uno di quei film che nascono male, con l’appellativo “difficile”, come i bambini “iper-attivi” alle scuole elementari, umiliati, sottovalutati, che solo più avanti dimostrano di avere anch’essi un potenziale. Spesso maggiore di quelli docili. Un film che nasce già con un’accezione negativa, affibbiata non solo dal Ministero che ne valuta la fattibilità, ma anche da chi in quel film dovrebbe crederci ed aiutare a realizzarlo e proporlo.

Ananke mi ha insegnato che quando cerchi un produttore devi mandare duecento email al mese e se sei immensamente fortunato ricevi una risposta dopo sei mesi. Vaga e disinteressata. Allora opti per il telefono, ma molti produttori non rispondono a numeri di telefono che non conoscono. Poi magari lo spirito santo scende dal cielo e ti unge il capo. E ne trovi uno, che però dice che il tuo film “non lo vedrà nessuno, perché nessuno vorrà proiettarlo”. Quindi ti aiuta ma non investirà un solo centesimo di euro. Magari ha ragione, magari no e sono solo tutti prevenuti.

Ananke per me è il film più normale del mondo, è stato accolto meravigliosamente bene ovunque sia andato. Lo hanno visto bambini, anziani, giovani, laureati, operai, analfabeti, ingegneri, preti, atei, filosofi, parrucchieri. Sempre con lo stesso risultato. Dunque l’impressione che produttori, distributori ed esercenti si complichino enormemente la vita quando si ergono a paladini del gusto popolare, è forte e tenace in me. É sempre e comunque una questione di etichette e definizioni, che nel momento in cui nascono soffocano e limitano. Ed ecco che anche il genere diviene discriminazione. Quella che dovrebbe essere unicamente una convenzione critica per facilitare la fruizione del pubblico diviene vero e proprio metro di giudizio in fase realizzativa e distributiva e spesso ghigliottina, per i film. Quindi un film horror, o di fantascienza, diventa “difficile” da realizzare in Italia, al contrario della commedia o del dramma “garbatelliano”. O di un qualunque film girato senza troupe, che non è neppure considerato cinema, a volte. Questo va ben oltre la mia comprensione.

Cosa devo aspettarmi dal mio ultimo film, Incanto? Un film girato senza sceneggiatura, senza troupe, con una handycam da quaranta euro e una vhs-c Grundig comprata in Germania ad un euro, quasi tutto girato in zoom digitale, che definire low-fi è un eufemismo. Costato come un chilo di scarola al mercato, senza attori, senza una trama, girato e montato con Betty nel tempo libero. Ecco, non mi aspetto niente. E non mi sono mai posto alcun problema nei confronti di questo film, poiché altrimenti non lo avrei neppure mai realizzato. É solo uno dei molteplici film possibili, e se il nostro Paese non avesse dei problemi con la molteplicità e non la vivesse come una minaccia, nessuno di noi avrebbe dei problemi. Ora è pronto, è sul mio hard disk da un paio di mesi. Devo solo capire dove mandarlo e a chi. E non è un lavoro semplice.

Ancor prima di parlare di Ministero, Stato, Commissioni e soldi pubblici, sono questi i problemi quotidiani con i quali io devo avere a che fare. Lo Stato può anche darmi dieci milioni di euro per realizzare il mio film, ma se il produttore lo reputa ‘difficile’ e l’esercente lo trova ‘noioso’ perchè è in bianco e nero, sulla base di non so quali regole scolpite in chissà quale roccia, preoccuparmi di come agisce il Ministero mi pare una fatica inutile, non ancora alla mia portata.

Ma è una fatica che dobbiamo pur fare, poichè il Paese è nostro e la Cultura che rischia di scomparire è anch’essa la nostra. Dunque da domani so che se vorrò un piccolo contributo per realizzare Liebe, il mio prossimo film, dovrò confrontarmi con un “Consiglio superiore del cinema e dell’audiovisivo” interamente nelle mani dello Stato, composto da non so chi. Commissione che gestisce quel 15% a disposizione dei famosi “film difficili”. E io dovrò sperare di non fare un “film impossibile” e rientrare in questa percentuale di opere fortunate, ma sempre e comunque “difficili”, all’interno di una legge che considera cinema, televisione e videogiochi come ingredienti nello stesso pentolone. E, cosa più grave per me, che si pone l’obiettivo di “adattare” il cinema alle evoluzioni delle tecnologie e dei mercati. Dunque io, che come gesto filmico e politico scelgo e uso formati fuori uso, supporti desueti fuori dal presente, processi di lavoro abbandonati, devo considerarmi un “disadattato”? La molteplicità, appunto.

Una legge dove ai grandi (imprenditori) è garantito sempre di più e noi piccoli, che di diventare grandi non abbiamo alcuna intenzione, poiché sappiamo bene che “il potere annulla le potenze”, ci scanneremo fra noi, sperando in qualche osso da rosicchiare.

Quali sono stati gli sponsor di questa legge? Quattro registi premi Oscar, cioè quello che più lontano può esserci da me e da coloro che sono nella mia identica situazione, che la premiazione degli Oscar neppure la guardano. Azzardo: gli stessi che faranno parte del famigerato Consiglio superiore? Staremo a vedere.

Il cinema come industria che esclude ogni altra concezione. Un senatore (di Forza Italia, credo) su Rai 1 ci donava un commento e diceva che «la legge è eccellente, poichè finalmente si farà pulizia: non si darà più denaro per fare quei film che nessuno vede e questo è molto positivo». Il senso profondo di questa affermazione non lo comprendo, non capisco dove affondi le proprie radici e forse non voglio neppure saperlo.

Ma c’è qualcosa di profondamente infelice e triste in tutto ciò. Si premia chi incassa, una specie di “cinema a provvigione”. Il cinema ci ha messo decenni ad emanciparsi dal capitalismo dal quale è nato, divenendo cultura, arte, espressione dell’ingegno umano, del sentire e dell’intelletto. E di qualcosa di più grande, intangibile. Sarà ancora così da domani?

Per quanto mi riguarda, sopravvivo ricordando sempre che non mi spetta nulla, che non sono indispensabile a nessuno, che non occupo alcuna posizione. Provo a fare dei film che per me sono importanti e necessari, ma non mi aspetto che lo siano per gli altri.

La molteplicità, dicevamo. Quella di Liebe, forse, che parla di morti e anime, che girerò con foro stenopeico solo di notte, in un’isola del Mediterraneo con tre persone e due cani. Non riesco a scriverlo, Liebe. Il fatto che sia un film spirituale mi frena molto, così come frena Betty. Il nostro mondo è meccanico e materiale, è difficile creare qualcosa di oramai alieno. Stiamo parlando di qualcosa che non esiste più? Le cose che per me sono importanti sono diventate folclore e leggenda, nel mondo digitale che mi circonda? Ho bisogno di qualche soldo, per realizzarlo. Soldi che non ho neanche voglia di cercare, quello è un altro lavoro parallelo che non ho voglia di fare. È ignobile e triste. Non so cosa pensare, ma diverse ore del giorno le spendo realizzando che tutto questo non mi interessa affatto. E so di sbagliare. So di avere una responsabilità e cerco di svolgere il mio “lavoro” in maniera onesta e in punta di piedi. Nessun Ministero può influire su questo, nessun produttore, nessun ente, nessun esercente, nessun censore può incidere in alcun modo sul mio operato. Farò Liebe nel modo che avrò a disposizione e al massimo delle mie capacità percettive.

Finché c’è un film da vedere vuol dire che siamo ancora vivi, poi invece siamo inghiottiti dalla indifferenza, dalla differenza tra un fantasma e l’altro. Il cinema ha spesso questa funzione proiettiva, prima proiettiva e poi protettiva, nel senso che protegge dall’essere tutto uguale, siamo destinati o provenienti dal cinema, siamo destinati a provenire da dove siamo già provenuti. (Enrico Ghezzi, “La verità è il primo inganno” )

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