“La cittadinanza come luogo di lotta” di Leonardo De Franceschi. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume.
Ius soli, ius culturae, seconde generazioni. Il Paese si è diviso per mesi sulla sorte di oltre ottocentomila minori cresciuti e in larga parte nati qui. Il fatto che alla fine abbiano prevalso le ragioni della paura e dell’odio non sposta di una virgola la necessità di mettere mano al cantiere di una cittadinanza visuale più aperta e inclusiva. Negli ultimi anni questa sete di diritti e nuove narrazioni sta cominciando ad esprimersi nel cinema e nella serialità, anche attraverso lo sguardo di registi e registe di seconda generazione, come Jonas Carpignano, Suranga D. Katugampala, Haider Rashid, Laura Halilovic, Elia Mouatamid, Amin Nour, Hleb Papou. È arrivato il momento di far ripartire una conversazione sullo stato della cittadinanza e su quello che intendiamo per italianità. Questo libro vuole affrontare le ragioni profonde della battaglia per la riforma, ripercorrere snodi e questioni chiave del dibattito, e insieme offrire un primo sguardo ragionato all’immaginario veicolato da film, corti, documentari, serie tv e web prodotti nell’arco di vari decenni su questa generazione in transito.
Il volume La cittadinanza come luogo di lotta nasce dall’urgenza, civile prima ancora che culturale, di rispondere a tre domande. Come condensare in poche pagine la storia e le ragioni profonde di questo movimento dal basso che vede protagoniste le seconde generazioni e reclama spazi e forme di agibilità materiale e simbolica, sul piano giuridico come su quello delle narrazioni? Quale intreccio di discorsi hanno preparato e poi sviluppato nell’arco di vari decenni il cinema e la serialità italiana per dare conto di questo segmento della società italiana in via di lento riconoscimento? In che misura ciascuno di questi titoli può essere utile come traccia di immaginario e deposito di storie, per far ripartire una riflessione d’insieme sul significato da attribuire ai termini cittadinanza e italianità?
Scelgo di riferirmi a questo segmento di società italiana formato da figli e figlie di migranti col termine seconde generazioni, nella consapevolezza che esso pone problemi a un crescente numero tanto di studiosi/e di scienze umane quanto di individui a torto o a ragione assimilabili a questa discussa e a volte abusata nozione. Continuo a ritenere questo termine-ombrello come il più funzionale nel lessico critico messo a disposizione dagli studi di settore, e lo utilizzerò nell’accezione lasca e ad ampio raggio proposta da Maurizio Ambrosini (2005) di «figli di almeno un genitore immigrato, nati tanto all’estero quanto in Italia» (p. 166), che suggerisco però di integrare con figli/e adottati/e, i cui tratti somatici non siano immediatamente associabili all’idealtipo dell’italiano/a medio/a. Inoltre, cercherò di impiegare questo termine da una prospettiva antiessenzialista, evitando quanto possibile ogni deragliamento da un orizzonte storico-contestuale chiaramente definito.
Il dibattito pubblico emerso nella seconda metà del 2017 ci obbliga a fare i conti, a ottant’anni dalle leggi razziali, con diffuse resistenze, abilmente amplificate da precisi settori della classe politica e dell’informazione, all’accoglimento nel corpo della nazione di individui, anche se minori e in età scolare, il cui fenotipo mal si associa con la narrazione dominante di un’italianità, mediterranea sì ma pur sempre bianca, narrazione che è la risultante di una dinamica di lungo periodo, innervata nello stesso processo di nation building dello Stato italiano e nelle principali tappe, spesso traumatiche, che ne hanno segnato l’evoluzione in questi oltre 150 anni.
Nel tritacarne di una spirale di odio che, a partire dal giugno 2017, da settori marginali dell’opinione pubblica è diventata koinè, sono finiti quasi 815.000 minori, figli/e di cittadini/e stranieri/e di cui oltre il 58% nati/e in Italia (478.522) e che rappresentano nel complesso più del 9% della popolazione studentesca (dati MIUR 2017). A questi va aggiunto il milione abbondante di giovani stranieri/e di età compresa tra i 18 e i 30 anni (1.002.037,dati ISTAT 2017). Non tutti/e sono arrivati/e in Italia in età scolare ma diverse migliaia sì e quindi, se il parlamento avesse approvato la legge n. 2092, avrebbero potuto fare istanza di cittadinanza. A loro e a una quota consistente degli altri quattro milioni di cittadini/e stranieri/e che vivono nel nostro paese da più di cinque anni e contribuiscono con i loro consumi e contributi ad arricchire il Prodotto Interno Lordo e a tenere in attivo i conti dell’inps, continuano ad essere usurpati i diritti politici e quindi non hanno potuto partecipare alla recente tornata elettorale.
Contro italiani ed italiane senza cittadinanza è andato estendendosi un razzismo “popolare” che, come ben sottolinea Annamaria Rivera (2017), è un mix di «senso di frustrazione, spaesamento, rancore». Sara Ahmad (2000, p. 7) suggerisce un’unica via d’uscita: pensare l’identità stessa, che sia individuale o collettiva, come relazionale. Il suo richiamo, che ricorda l’appello di Jean-Loup Amselle (1990) a «sfuggire alla questione dell’origine» e a «postulare un sincretismo originario, una mescolanza di cui è impossibile dissociare le parti» (p. 189) spalanca un orizzonte programmatico nel quale le pratiche artistiche possono svolgere una funzione fondamentale, come ha suggerito Ariella Azoulay con il concetto di cittadinanza visuale. Se Azoulay si riferiva essenzialmente alla fotografia, sia Steffen Köhn che Jennifer E. Telesca (2013) propongono di allargarne l’orizzonte applicativo ad altri media, analizzando i modi in cui «le pratiche audiovisuali condizionano, esacerbano, ostacolano o rendono (in)consequenziali i diritti, i privilegi, i doveri e le concessioni tra le persone che sono incluse ed escluse, viste e non viste, udite e silenziate» (p. 339).
In Italia, il cinema e la serialità degli ultimi dieci anni abbondanti hanno prodotto un corpus di titoli che nell’insieme hanno contribuito a orientare in senso progressivo la messa a fuoco delle seconde generazioni come nuovo soggetto politico, lavorando per una riarticolazione in senso inclusivo della cittadinanza, sul piano formale e materiale.
Tuttavia, molto spesso autrici e autori “italo-italiani” del cinema e della serialità, davanti a personaggi/e di giovani di seconda generazione siano scivolati nelle trappole specularmente rassicuranti della tranche de vie naturalista o dell’apologo edificante. Non che gli/le stessi/e filmmaker di seconda generazione compiano sempre scelte congrue e funzionali rispetto ai loro obiettivi, sul piano dei modi di produzione, della retorica filmica o delle rappresentazioni. Agli uni ma in fondo anche agli altri, e alle altre, italiani/e di sangue, naturalizzati/e o di fatto che siano, raccomanderei in ogni caso di leggere di più, anzitutto la narrativa prodotta negli ultimi dieci-quindici anni da autrici come Igiaba Scego, Gabriella Kuruvilla, Ubax Cristina Ali Farah, Gabriella Ghermandi, Ingy Mubiayi e Laila Wadia, di trarne spunto, perché no di coinvolgere queste e altre voci letterarie di seconda generazione nella tessitura sceneggiatoriale.
Questo libro, come già L’Africa in Italia (De Franceschi, 2012) vuole anche essere un tributo al lavoro, spesso mirabile, oscuro, o poco riconosciuto, compiuto in questi anni, nell’industria dello spettacolo, da artisti e tecnici di seconda generazione. Alcune e alcuni di loro hanno scelto di impegnarsi al di qua della cinepresa. Sarebbe un errore sovraccaricarli di oneri e aspettative di ordine rappresentazionale, specie per ciò che concerne la narrazione delle seconde generazioni. Accontentiamoci di accompagnarli, sostenendoli magari anche in modo critico, ciascuno/a di noi nei limiti del ruolo (dei ruoli) che occupa, all’interno di una filiera industriale e culturale sempre più dispersa e frammentaria.