“Parasite” di Bong Joon-ho e la natura fantasmatica dell’ascesa sociale.
Parasite, film di Bong Joon-ho vincitore della Palma d’Oro a Cannes, racconta le vicende di una famiglia indigente delle periferie di Seul composta da quattro disoccupati che, grazie ad un’astuta serie di inganni, riescono a farsi assumere dalla ricca famiglia borghese del manager Park. A cominciare dal protagonista Ki-woo, che si finge un esperto tutor di inglese, in breve tutti i membri della famiglia compiono la scalata sociale che agognavano, senza rivelare la loro parentela. Successivamente, si troveranno però a contendere la nuova posizione con coloro che la occupavano precedentemente: la vecchia domestica e suo marito. Questa lotta tra poveri, che deve rimanere celata alla famiglia di Park, porterà ad un tragico epilogo.
Nel raccontare questa storia di equivoci e d’inganni, Parasite descrive con chiarezza le strutture fantasmatiche che sottendono le dinamiche di potere esistenti. Racconta in maniera limpida quali siano e in che modo funzionino le logiche aspirazionali individuali e collettive, in che modo queste giustifichino e ripropongano le strutture ideologiche vigenti. Mostra con durezza i meccanismi interni, strutturali, del desiderio di ascesa sociale, ne evidenzia le contraddizioni e la sua natura allucinatoria. Inoltre, descrive come questo stesso desiderio finisca per giustificare e riproporre le strutture sociali esistenti. Parasite, infine, non offre un’uscita o una salvezza ai suoi personaggi: il circolo vizioso è destinato a riproporsi all’infinito, ingabbiando gli individui all’interno della struttura del loro stesso desiderio.
La pietra da collezione
Già in una delle prime scene, il film mostra allo spettatore un simbolo fondamentale. Quando Min-hyuk – l’amico universitario che offrirà il lavoro di tutor di inglese al protagonista – entra nella casa di Ki-woo, ha infatti con sé un dono particolare: una pietra da collezione appartenuta al nonno, trasportata in una massiccia e decorativa scatola di legno. Il regalo è opera di qualcuno che è riuscito nella scalata sociale: lavora come tutor per una famiglia dell’alta borghesia, frequenta l’università e sta per iniziare un periodo all’estero. Ki-woo, appena arrivato nella casa della famiglia ricca, adotterà una posa mimetica nei confronti della figura di Min-hyuk: farà il suo stesso lavoro, fingerà di frequentare l’università, sedurrà la stessa ragazza (esprimendo anche gli stessi desideri «quando andrà all’Università, le chiederò di uscire»). Min-hyuk, del resto, è colui che permette a Ki-woo di iniziare, parassiticamente, il processo di ascesa sociale raccomandandolo alla madre della famiglia ricca.
La reazione di Ki-woo davanti alla pietra è inaspettata e rivelatrice: «È così metaforica». La metafora che la pietra rappresenta è, nell’immaginario fantasmatico di Ki-woo, la possibilità effettiva dell’ascesa sociale funzionando da bene posizionale: un oggetto di manifesta inutilità il cui possesso statuisce il posizionamento sociale dell’individuo. Situazione quanto mai lontana dall’esperienza di Ki-woo e della sua famiglia, ridotti a vivere con l’essenziale e anche meno: è emblematica da questo punto di vista la scena in cui si riuniscono a tavola a festeggiare il ritorno del Wi-Fi dei vicini, unica possibilità di connessione a internet. Durante l’allagamento del seminterrato, la pietra sarà l’unico oggetto che Ki-woo avrà cura di salvare e portare con sé; nella scena successiva l’abbraccerà con forza quando il padre gli rivelerà di non avere alcun piano per risolvere la situazione («Perché continui ad abbracciare quella pietra?» «Non sono io, continua a seguirmi»); sarà l’oggetto che porterà con sé nel seminterrato quando penserà di uccidere definitivamente la vecchia governante e il marito.
Come in una sorta di nevrosi da contatto, il mana contenuto nella personalità dell’amico “elevato” socialmente («Gli studenti universitari hanno una vera forza dentro» dice la madre a proposito di Min-hyuk) si potrebbe trasferire su Ki-woo attraverso la pietra. Essa rappresenta l’oggetto transizionale, che contiene in sé la promessa che la scalata sociale sia una possibilità reale. Non a caso, il momento in cui Ki-Woo deciderà di posarla è durante il sogno-delirio in cui ce l’ha fatta, è diventato ricco e ricompra la casa con il fantasma-padre dentro. La scalata sociale è conclusa, della pietra non c’è più bisogno, può essere riposta nel fiume. Precedentemente però, senza di essa ad assicurare che gli sforzi profusi nella scalata sociale siano produttivi, vi è solo immobilismo.
Questa valenza teleologica della pietra si accompagna ad un altro tema ricorrente in Parasite: l’urgenza di avere un piano, di sapere cosa si sta facendo e dove si sta andando, la possibilità di costruire una sensatezza delle azioni presenti in vista di un risultato futuro. Se è andato via il Wi-Fi, c’è bisogno di un piano per ripristinarlo. «Allora hai un piano!» dice il padre a Ki-Woo quando si finge universitario, rimarcando tuttavia che l’anno prossimo si iscriverà veramente all’università. Un piano è ciò che manca al padre nella palestra dove sono rifugiati, alluvionati senzatetto, dopo la rocambolesca fuga dalla villa di Park. Un progetto è ciò che potrebbe permettere alla famiglia di affrancarsi dalla totale indigenza. Ma la valenza del piano si vede soprattutto quando la sua esistenza, per lo meno allucinatoria, viene a mancare: «tutti i piani che facciamo sono destinati a fallire» dice il padre nella palestra, dopo l’alluvione. Se nessun progetto è possibile, allora l’ascesa sociale non può avvenire e Ki-woo è condannato a sopravvivere, invece di vivere, per tutta la sua esistenza. Nel momento del crollo del padre, è Ki-Woo a farsi carico del compito di ripristinare la possibilità dell’arrivismo sociale. Assieme alla pietra scende nel seminterrato per uccidere i suoi concorrenti parvenu.
La pietra e il piano rappresentano quindi i mezzi che riuniscono gli sforzi compiuti con il fine atteso. Sono i mediatori fantasmatici, il primo come simbolo, il secondo come strategia, che contengono in sé la certezza che il risultato desiderato sia effettivamente raggiungibile, che gli sforzi non siano vani.
Ctonio e Uranico
Per tutto il film i due mondi, quello dei ricchi e quello dei poveri, percorrono due rette parallele e non si incontrano. I borghesi non si rendono mai conto di quanto accade nella loro stessa casa e i reietti possono continuare, come gli scarafaggi della prima scena, a parassitare il mondo scintillante e leccato dei ricchi – dice la madre, mentre bivaccano sul divano all’insaputa dei proprietari: «Il denaro è un ferro da stiro, sarei gentile anche io se fossi ricca». Anche la famiglia di Ki-Woo non riesce mai a entrare in contatto reale, quello dei rapporti di forza, con quella di Park: nonostante si credano furbi e scaltri, cadono nella trappola ideologica che fa sembrare i ricchi come se fossero solo degli sciocchi («È una donna semplice», dice Min-hyuk all’inizio descrivendo la moglie del manager), facili da ingannare e raggirare.
In un solo momento avviene un contatto, che scatenerà l’omicidio tra i due padri famiglia: quando bisogna travestirsi da indiani il padre di Ki-Woo, visibilmente innervosito dal dover prendere parte a tale buffonata, domanda implicitamente al manager per quale motivo lui debba stare a questo gioco. La risposta è, per una volta, sincera e lacera la barriera di plasticosa incomunicabilità che permea il mondo borghese: lo devi fare per i soldi, perché ti pago, «Consideralo parte del tuo lavoro». L’incanto che teneva in piedi una narrazione della borghesia come svampita, credulona e, in un certo senso, innocente viene meno: si mostra in tutta la sua crudeltà la dinamica di potere che organizza il mondo in dominanti e dominati. Di lì a poco – complice anche il disprezzo verso quella che nel film è chiamata “la puzza dei poveri” – il padre di Ki-Woo ucciderà il manager con una pugnalata, senza neppure sapere perché l’ha fatto.
Questo forse è l’elemento più interessante della modalità in cui il padre di Ki-Woo fruisce dell’ideologia: il raptus omicida non è prodotto dalla comprensione consapevole della dinamica di potere esistente, ma solo un movimento inconscio. Di lì a pochi minuti, divenuto ormai lui il fantasma del seminterrato, si scuserà con l’immagine di Park appesa al muro, non sapendo il motivo della sua azione. È questo, in fin dei conti, ciò che accomuna padre e figlio: anche Ki-Woo non imparerà nulla da quanto ha vissuto, non capirà neppure alla fine che quella dell’ascesa sociale è solo una narrazione ideologica, una modalità efficace di mantenere lo status quo, elargendo ai subalterni non la ricchezza, ma solo la sua possibilità fantasmatica.
I tre fantasmi
In Parasite possiamo riconoscere tre fantasmi, tre dispositivi ideologici capaci di nascondersi in bella vista: il fantasma della borghesia, ovvero la modalità allucinatoria con cui la famiglia di Ki-Woo vede quella di Park; il fantasma del seminterrato, l’abitante osceno della camera inconscia della borghesia; in ultimo, la pietra da collezione, che rappresenta la struttura fantasmatico-desiderativa della classe oppressa.
Il primo fantasma è quello che monopolizza gran parte del film: Ki-woo e i suoi familiari distorcono il mondo borghese in funzione del loro desiderio e della frustrazione. Nella loro rappresentazione i ricchi sono gentili, sempre rilassati, semplici perché non devono pensare a nulla, certamente felici. Sono l’oggetto del desiderio, sia nel senso di invidia della posizione sociale sia letteralmente, come mostra Ki-woo quando vuole sposare la giovane rampolla borghese. Ma sono anche ignari, facilmente raggirabili, per permettere ai subordinati di parassitarli, di mangiare illegittimamente un pezzo della torta ideologica: vivere per un poco nella grande casa dell’architetto, bere alcolici ricercati, godere del grande giardino della villa, dove i raggi del sole sono ancora più belli.
Il secondo fantasma è il rimosso dei dominanti, che non vedono la lotta tra poveri che avviene nell’universo ctonio del seminterrato nascosto ai loro occhi, luogo della piena manifestazione della crudeltà della competizione arrivista. Del fantasma del seminterrato si sente il fetore in metro (dice il padre-manager quando, senza troppi giri di parole, dichiara che i poveri puzzano), se ne possono indossare le mutande per risvegliare gli appetiti sessuali, come fa sua moglie. Se per caso questo fantasma si dovesse incontrare dal vivo, come capita al figlio piccolo, si rischia la vita. Il povero è osceno: fuori dalla scena, dalla rappresentazione del mondo del ricco, provoca convulsioni come la vista di un segreto immondo, eccita sessualmente in quanto proibito. Si potrebbe pensare che la cancellazione di questo fantasma dal dicibile e dal pensabile sia dovuta al fatto che anche il ricco, a sua volta, un tempo, ha vissuto i seminterrati, memoria cautamente rimossa.
L’ultimo fantasma, il vero lato tragico del film, è l’oggetto del desiderio degli oppressi, ovvero riuscire a raggiungere lo status desiderato che si sposta escatologicamente sempre nel futuro prossimo, irraggiungibile in realtà perché allucinatorio. Questo status non è solamente un benessere materiale. Più di tutto forse è la possibilità di sentirsi a proprio agio nel mondo di plastica dei ricchi, fatto di gentilezza e semplicità; smettere di lottare quotidianamente nella speranza di raggiungere qualcosa. Soddisfare definitivamente il bisogno di dare significato all’agire presente, immergendolo in un futuro di sempre identica, semplice, ricca, tranquillità.
Finalmente arrivare.