Walter Benjamin collezionava libri per bambini.
Ai dettagli e al significato di questo collezionismo bizzarro e poco noto è dedicato Orbis Pictus, raccolta di cinque saggi di Benjamin sulla letteratura infantile, pubblicato nel 1981 e riproposto quest’anno in una nuova edizione dall’editore Giometti & Antonello. In accompagnamento ai saggi, il volume offre l’indice aggiornato della collezione personale di libri per l’infanzia del filosofo, la postfazione del curatore e traduttore Giulio Schiavoni e un inserto fotografico. Tanto l’argomento e il tono specialistico dei saggi quanto il loro carattere occasionale (tre su cinque sono recensioni) ne spiegano la generale assenza dal corpus più noto della produzione del tedesco. Il piccolo miracolo di Orbis Pictus è di inserire questi scritti frammentari e apparentemente marginali in una cornice editoriale capace di dischiudere l’importanza cruciale che i libri per bambini hanno avuto nella vita di Benjamin. Non solo: Orbis Pictus non si limita a spiegare il valore degli argomenti trattati nei saggi per il pensiero dell’autore, ma in un certo senso, con una mossa tipicamente benjaminiana, il libro riesce a mostrare, a rendere visibile questo tema. Infatti, una volta letti i saggi, il lettore incappa nelle ben trentasette pagine che riuniscono i titoli della collezione personale del nostro. Questo massiccio, interminabile elenco di libri per l’infanzia non solo soddisfa l’esperto, ma permette concretamente di vedere e attraversare quella che Schiavoni definisce «un’ossessione psicologica che sfiora la bibliomania» (p. 126). Infine, nell’inserto fotografico gli editori alternano illustrazioni dei testi infantili discussi nei saggi a foto dell’infanzia di Benjamin stesso, producendo così un effetto d’indistinzione tra il bambino-oggetto di studio e il filosofo-bambino Benjamin che prende sul serio le favole, colleziona abbecedari e si appassiona alle figure.
Nella passione collezionistica del filosofo si percepisce intatto il godimento originario e il senso di magia che i bambini sperimentano davanti al libro illustrato. La cura con cui descrive i dettagli delle illustrazioni, i meccanismi pedagogici dei sillabari e le paradossali deformazioni in cui incorrono le lettere degli abbecedari non ha niente a che fare con il distacco scientifico dell’esperto, ma tradisce piuttosto il piacere del consumatore incallito. I saggi raccolti in Orbis Pictus devono la loro bellezza proprio alla capacità di Benjamin di trasmettere come gioia pura una fenomenologia dell’incontro tra il bambino e il libro. Chi non si riconosce nella descrizione dei bambini che «conoscono le figure come le loro tasche» (p. 28), perché «le hanno rovistate così bene da una parte e dall’altra da non dimenticarne neppure un angolino o un filino”? Le pagine del libro diventano “tessuti colorati e quinte variopinte», in cui il bambino «calca la scena dove vive la fiaba, e drappeggiandosi nei colori ch’egli cattura leggendo e guardando, si trova nel mezzo di una mascherata cui anch’egli prende parte» (p. 27).
La fascinazione per il mondo del bambino non va fraintesa né per smarrimento nostalgico né tantomeno per infantilismo. La scelta di guardare all’infanzia orizzontalmente costituisce per Benjamin una lucida posizione filosofica e politica. Ciò emerge chiaramente in uno dei temi dominanti dei saggi, ovvero la polemica verso tutti quei pedagoghi, educatori ed editori che nel corso dei secoli hanno trasformato il libro per bambini in strumento di progetti disciplinari ed etici fondamentalmente ideologici. Benjamin ricostruisce la storia del libro per l’infanzia smascherando i momenti in cui la si è piegata a catechismo della classe dominante. Se, nell’Illuminismo, questa tipologia di libro doveva fare del bambino l’«uomo più pio, migliore, più socievole» (p. 16), tale aridità è perdonata di fronte alle «aberrazioni» dei suoi contemporanei, che con la loro «oziosa preoccupazione di produrre oggetti adatti ai bambini” hanno inscritto nel testo infantile un “gesto sdolcinato, che non corrisponde al bambino, ma alle corrotte rappresentazioni di esso» (p. 17). Secondo Benjamin, infantilizzare il bambino significa trasformarne la fantasia in una «domanda psicologica nel senso di una società produttrice di merci» 1, ma soprattutto screditarne la capacità di accedere ad un’esperienza dell’autentico e del diverso. I bambini rappresentano infatti, agli occhi di Benjamin, una modalità di esperienza e conoscenza diametralmente opposta a quella dell’esistenza borghese, e che per questo nasconde un potenziale sovversivo da sedare nella sdolcinatezza dell’infantilismo. Il bambino – e in ciò si inizia a capire l’interesse filosofico del nostro per l’infanzia – fa coi suoi giochi ciò che il collezionista fa con i suoi reperti: compie un esercizio dell’inutile, che trasforma e ricombina la “cartaccia” della realtà in modi nuovi e imprevedibili. Il senso del collezionismo (e della filosofia) per Benjamin risiede infatti nel coltivare il sogno di un mondo «dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili»2, e non è un caso che i personaggi messianici disseminati nelle opere del filosofo – il collezionista, il flâneur, gli “aiutanti” kafkiani, gli studenti – siano, oltre che figure dell’inutile, peculiarmente infantili. Se la realizzazione dell’inutile viene rimandata da Benjamin ad un rovesciamento messianico di incerta collocazione, di essa si può avere un assaggio, o riconoscere una traccia, solo nello spazio ancora incontaminato del bambino e dei suoi libri.
Proteggere la letteratura dell’infanzia dalle mire repressive e autoritarie dell’adulto significa, quindi, salvaguardare la possibilità stessa della filosofia come esercizio politico dell’inutile. In Orbis Pictus Benjamin scrive che «la vecchia scuola costringe soltanto ad una corsa incessante verso mete, ad una lotta reciproca per “sapere” ciò che pretende l’adulto onnipotente», in tal modo «sbarrando però le porte al sapere reale» (p. 48) . Che cosa s’intenda per “sapere reale” Benjamin lo chiarisce immediatamente: esso è «l’esercizio inconscio attraverso il gioco» (ibidem). Ma come si fa a praticare questa filosofia giocosa, a non smettere di giocare, a non trasformarsi in “adulti onnipotenti”? La risposta di Benjamin può essere così riassunta: si può trasformare la filosofia in gioco solo attraverso un lavoro sul linguaggio. Il problema del linguaggio costituisce forse la questione essenziale per capire il senso del suo particolarissimo percorso intellettuale e, indirettamente, anche la fascinazione per l’infanzia che anima Orbis Pictus. Fin dagli scritti giovanili Benjamin sviluppa un’originale teoria animistica e mimetica del linguaggio, secondo cui tutto nel cosmo parla e si comunica in una rete di somiglianze e analogie. La prerogativa umana è di saper mimeticamente tradurre questi linguaggi in nomi e parole, e quindi in conoscenza. Nel corso della storia, questa primordiale capacità mimetica si è andata sempre più affievolendo, dando vita ad una dispersione linguistica in cui viene meno l’origine onomatopeica delle parole, e quindi la loro immediata adesione alla verità delle cose3. In Sulla lingua in generale e sul linguaggio degli uomini, Benjamin spiega il processo di corruzione e disgregazione del linguaggio ricorrendo all’immagine biblica della caduta celeste. Se nello stato paradisiaco «mediante la parola l’uomo è unito alla lingua delle cose»4, in seguito alla caduta biblica il linguaggio diventa un mero strumento convenzionale di comunicazione. L’equivocità del nome e delle lingue fa sì che il linguaggio sia dominato dall’astrazione e dal giudizio, ovvero dall’imposizione violenta del significato, della morale, del vero. L’unico luogo in cui rimane una vestigia della magia del linguaggio originario, di cui Benjamin dice che «era così naturale, facile e spontaneo come un gioco da bambini» (p. 39), è, ovviamente, proprio l’esperienza dell’infanzia come corrispettivo ontogenetico dello sviluppo storico del linguaggio5.
In quest’ottica si può pienamente comprendere il valore delle pagine in cui Benjamin analizza il funzionamento dei sillabari e discute del delicatissimo processo tramite cui i bambini imparano a parlare. Il libro per bambini è il campo di battaglia in cui si gioca un perenne scontro, già perso in partenza, tra il linguaggio come gioco di “far finta” e la lingua dominatrice dell’adulto. Nel «carnevale di parole e di lettere» (p. 28) dei sillabari, in cui le lettere sono modellate come oggetti e le immagini prendono la forma di parole, sopravvive, solo per essere soppresso nel suo superamento, lo strato mimetico e gioioso del linguaggio paradisiaco. In questo senso, «le lettere dell’alfabeto costituiscono gli stipiti di una porta su cui potrebbero stare benissimo incise le parole che Dante lesse alle porte dell’Inferno» (p. 39). Il libro per bambini segna la soglia in cui la speranza messianica espressa dal linguaggio come gioco viene, seppur tra colori e immagini, evaporando. Ma per questo motivo la letteratura per l’infanzia va, a maggior ragione, presa terribilmente sul serio. Se dai vecchi sillabari parlava “la serietà della vita” con la sua imposizione «del nero su bianco, della legge e del diritto, dell’irrefutabile, dell’essere posto per l’eternità» (p. 56), in Orbis Pictus Benjamin comunica l’urgenza di pensare a testi che facciano fiorire il linguaggio dell’infanzia e la fantasia infantile piuttosto che irregimentarla. In ballo non c’è soltanto la felicità e l’educazione del bambino, ma soprattutto quella dell’adulto, che solo dal bambino può imparare ad usare le parole e le cose senza sottomettersi alla “schiavitù dell’utilità” e alla violenza del vero e del giusto. In quest’ottica, gli straordinari esperimenti linguistici che negli anni hanno sempre più caratterizzato l’opera di Benjamin, non sarebbero altro che tentativi di approssimarsi alla lingua perduta dell’infanzia, al suo potenziale trasformativo.
La filosofia di Benjamin cerca di trasformarsi in «esercizio inconscio attraverso il gioco» attraverso una scrittura che predilige la simultaneità alla continuità, la somiglianza al sillogismo, il dettaglio all’intero. Dietro alle costellazioni di citazioni senza fonte, al sistematico adombramento dell’autorità autoriale, alla scomposizione del linguaggio in frammenti e immagini, Orbis Pictus ci aiuta a riconoscere la ricerca di Benjamin di quel perduto linguaggio mimetico, il cui laboratorio è proprio il libro per bambini.
Note
- W. Benjamin, Pedagogia coloniale, in Critiche e recensioni, Einaudi, Torino 1979, p. 178
- W. Benjamin, Parigi. La capitale del xix secolo, in Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 148.
- W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995.
- W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sul linguaggio degli uomini, in Angelus Novus, op. cit., p. 63
- W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, op. cit., p. 68.