Da “Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante, un ritratto delle italiane del XX secolo” (Iacobelli)
Per un opportuno inquadramento dell’opera di Elena Ferrante in un contesto culturale marcatamente europeo, si dovrà innanzi tutto partire dal modo in cui già L’amore molesto si collocava in un contesto letterario extraitaliano. Nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione del primo libro di Elena Ferrante infatti, una delle scrittrici più importanti della sua generazione, affrontava con modalità differenti, alcuni dei temi presenti in Ferrante. Con La vergogna, edito in Francia nel 1997 – ma in Italia, per i tipi dell’Orma editore, solo nel 2018, Annie Ernaux propone un frammento narrativo legato all’anno 1952 vissuto in una Francia tutt’altro che parigina, e traccia un’autobiografia di genere che si basa sulle origini indicibili di un intero ceto sociale extranazionale. Allo stesso modo Elena Ferrante, raccontando nella tetralogia de L’amica geniale le vicende di due amiche napoletane nate soltanto qualche anno prima, traccia la parte inedita dei connotati di un vasto ceto sociale italiano che, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, sperava con tutte le sue forze, confusamente, nel progresso e più vivamente nella propria ascesa socio economica.
Ernaux, partendo dall’episodio del quasi omicidio della madre da parte del padre, andrà a ricercare senza successo una relazione tra se stessa e le foto di quell’anno, gli articoli dei giornali di quel 1952, il lessico familiare dell’epoca, il proprio corpo di allora, gli abiti che indossava, il lavoro svolto dai genitori, la scuola che frequentava, l’urbanistica del proprio quartiere, la religiosità impostale. Tutto ciò in una spasmodica ricerca di simmetrie mancate tra l’indicibile della sua esperienza di figlia e il racconto che il mondo fa di se stesso.
Sulla vergogna sociale – che è un sentimento presente pressoché in modo costante ne L’amica geniale, e che è uno dei temi più importanti dell’ultimo romanzo di Ferrante La vita bugiarda degli adulti – Ernaux compie un’indagine relativa a tutte le asimmetrie che questo stato dell’emotività produce. Asimmetrie che rendono complicato ricreare un’ambientazione, per il rapporto di diseguaglianza tra un Io femminile, effigiato in un’istantanea datata 1952 e il mondo di fuori costituito dal Noi che quell’Io in teoria dovrebbe includere. L’intenzione di Ernaux ne La vergogna è quella di creare un linguaggio adatto a un discorso pubblico, molto più ampio di ciò che si immagina comunemente, attraverso lo strumento dell’autobiografia. Ferrante con L’amore molesto, edito in Italia cinque anni prima che fosse pubblicato La vergogna in Francia, getta le basi per quello che sarà un poderoso ampliamento del discorso pubblico sulla disparità di genere e sulla disparità sociale come binomio inscindibile.
Tutta la seconda parte di Storia del nuovo cognome e buona parte di Storia di chi fugge e di chi resta rappresentano, tra l’altro, un’illustrazione diretta del sentimento della vergogna sociale, insieme alla presa di coscienza di una disparità incolmabile che riguarda Elena (una delle due amiche della saga ferrantiana omonima dell’autrice) proprio nel momento in cui maturerà i risultati più brillanti della sua carriera universitaria. Con la comparsa della famiglia Airota infatti Elena capisce che la disparità in ambito sociale non nasce dal valore oggettivo di ciò che si è in grado di produrre ma dal contesto da cui si proviene e dalla capacità di assorbire, facendoli scrupolosamente propri, sia gli ordinamenti gerarchici sia i codici e i linguaggi emergenti che in quella fase miravano ad infrangere quegli stessi codici, come se l’infrazione riaffermasse il valore della regola: «Eravamo insomma dalla parte dell’infrazione, ma solo perché si riaffermasse il valore della regola»1.
In questo senso entrambe le autrici, Ferrante e Ernaux, sottraggono al silenzio e consegnano al discorso pubblico i lineamenti di un vero e proprio ripiegamento relazionale e psicologico nel sentimento della vergogna di un certo femminile che sta lottando per assumere quello che Ferrante chiama senso di sé. Ripiegamento e reattività che avvengono al momento della presa di coscienza di una reale subalternità in cui un determinato status sociale pone quell’entità femminile al cospetto dello sguardo del mondo che si posa su un esordio di donna.
È Didier Eribon che, attraverso una personale analisi riguardo il proprio vissuto, mette sull’avviso circa la possibilità di una lettura ancora ulteriore di un tema che risuona fortemente in tutta l’opera di Elena Ferrante, e ancora di più ne La vita bugiarda degli adulti, quello appunto della vergogna.
Eribon è un sociologo e filosofo francese che per la sua autobiografia, Ritorno a Reims, edita in Francia nel 2009 e in Italia nel 2017, ha fatto una scelta di formato espressivo che lo ha portato a un esito inconsueto e tra i più interessanti. C’è infatti, a premessa di tutto il libro di Eribon, una domanda che l’autore pone a se stesso. Il modo in cui viene posta a partire dal linguaggio utilizzato, cioè quello specifico della materia accademica dell’autore, è indicativo oltre il senso della domanda stessa. Inoltre il quesito mette in luce le ulteriori possibilità offerte da una narrazione autobiografica e quanto sottile possa essere la differenza che sussiste, in termini di pienezza espressiva e valore umanistico, rispetto a altri formati come quello della saggistica, della narrativa e della poesia:
Perché io, che ho attribuito così tanta importanza al sentimento della vergogna nei processi di assoggettamento e di soggettivazione, non avevo scritto quasi nulla sulla vergogna sociale? […] Come se studiare la costituzione del soggetto inferiorizzato e quella, complementare, del complesso rapporto tra il silenzio su di sé e “l’assunzione” di sé, fosse oggi una posizione valorizzata, valorizzante e perfino richiesta dai contesti contemporanei della politica, quando si tratta di sessualità. Quando si tratta dell’origine sociale o popolare, invece, conservare tale atteggiamento è molto difficile e non ha quasi alcun sostegno nelle categorie del discorso pubblico2.
Eribon mostra con Ritorno a Reims come l’applicazione strumentale di un linguaggio acquisito, quando sta a illustrare l’ampiezza di una regione originaria, perciò pregressa a quella acquisizione, sconfini in una zona in qualche modo inesplorata, in cui il linguaggio originario e quello acquisito devono stabilire un ineffabile contatto. Contatto che riguarda sia la sfera privata che quella pubblica di chi scrive e di chi legge, seguendo in questo modo un intendimento politico diverso dalle modalità mediante le quali è stata convenuta come consona fin qui l’esprimibilità di un discorso politico. Scrive Eribon in proposito: «come se la genealogia individuale fosse inseparabile da una archeologia e da una topologia sociale, che ciascuno custodisce in sé come una delle sue verità più profonde, pur non essendo la più cosciente»3.
La domanda che Eribon pone a se stesso parte dal presupposto che il sociologo, il filosofo e la persona, in termini anche di identità sessuale che la soggettività racchiude nell’ambito di una specifica biografia, abbiano vissuto dal secondo dopoguerra in poi una frammentazione, e che questi frammenti abbiano assunto una tale distanza, e una tale incapacità di reciproco riconoscimento, da generare un sintomo: quello di un’insormontabile malinconia.
Da quest’ottica ne La vita bugiarda degli adulti è ancora più significativa la rigida divisione della Napoli di sopra e della Napoli di sotto come entità separate da qualcosa che riguarda un dissidio che alberga da sempre nella famiglia d’origine del padre della protagonista. Nella stretta contemporaneità è lampante a cosa abbia portato, nell’ultimo decennio, l’esclusione dal discorso pubblico, e quindi la dicibilità, di contesti mai decifrati secondo un linguaggio consono alla loro rappresentazione, cioè un linguaggio che vada al punto rispetto alla vergogna sociale che storicamente ha costituito il motivo della “dimenticanza” di una vastissima porzione di realtà.