In occasione del suo quarantennale, la legge 194 presenta ancora mancanze da colmare, che ispirano nuove e necessarie lotte (trans)femministe.
È il 1967, una ragazza di 17 anni di nome Gigliola Pierobon dopo quattro ore in treno arriva a Padova. In tasca ha quarantamila lire, deve darle alla “mammana” che l’aiuterà a abortire. Stesa su un tavolo da cucina le viene introdotto un lungo ago di ferro nella vagina. L’operazione, molto dolorosa e svolta in condizioni igieniche precarie, le causa un’infezione che curerà da sola, in silenzio.
La grande maggioranza delle interruzioni di gravidanza, in quegli anni, avveniva clandestinamente, spesso con metodi rozzi, dannosi e potenzialmente letali, quali i decotti di prezzemolo, di chinino, gli aghi da maglia inseriti nell’utero. Solo per le donne più abbienti c’erano le cliniche private, illegali o estere.
Qualche anno dopo, nel 1973, Gigliola subisce un processo con l’accusa di procurato aborto. Da testimone diventa accusata. “Come nella caccia alle streghe, dovevo confessare di aver visto il diavolo, perché l’inquisitore fosse soddisfatto. E io ho confessato. Avevo visto il diavolo” (Pierobon, Il processo degli angeli, 1974).
Nel 1973, in Italia, vigevano ancora le norme del Codice Rocco, del 1930, per le quali l’aborto era definito reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Pena prevista: da uno a cinque anni di reclusione per le donne che si procuravano da sole l’aborto; da due a cinque anni per quelle che si sottoponevano all’interruzione e a chi lo praticava, con una possibile riduzione della pena solo “se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”.
Negli anni trascorsi tra l’aborto e il processo Gigliola è cambiata e non tace. Si è avvicinata al femminismo, non è più sola come quel giorno di sei anni prima su quel tavolo da cucina. Appena riceve la notifica del rinvio a giudizio Lola, così la chiamano le compagne, la rende pubblica, non subisce in silenzio.
In questo passaggio si esplica con chiarezza la potenza della formula “il privato è politico”.
Il processo Pierobon genera una mobilitazione di massa. Non solo le femministe scendono in piazza con una grande manifestazione, ma entrano nel processo, invadono il tribunale e si autodenunciano per aver abortito.
Il 5 giugno 1973 a Padova “arrivarono donne da tutte le parti d’Italia… Siamo state lì a cantare, a gridare slogans, a fare discorsi finché ebbe inizio il processo… andammo in corteo dentro il tribunale. Nell’aula gremita, a un certo punto cominciammo a gridare ‘Tutte noi abbiamo abortito’. Il presidente fece sgomberare l’aula… Noi, le donne, eravamo partite all’attacco”. 1
Il movimento femminista porta alla luce in modo eclatante la drammaticità dell’aborto clandestino – esso sì una violenza conseguente il controllo sociale sulla sessualità femminile – e rivendica il diritto di abortire, come diritto di ogni donna di autogestire il proprio corpo, di autodeterminarsi.
L’aborto deve essere depenalizzato.
La posta in gioco era chiara già in “Sessualità e aborto”2, uno dei primi documenti sul tema di Rivolta Femminile, datato 1971: “Noi di Rivolta Femminile sosteniamo che da uno a tre milioni di aborti clandestini calcolati in Italia ogni anno costituiscono un numero sufficiente per considerare decaduta di fatto la legge antiabortiva. La comunità femminile ha rischiato la vita, l’ostracismo civile e religioso di uno stato patriarcale affrontando clandestinamente le pratiche abortive alle quali tuttora è affidata l’ultima parola per sottrarsi a un processo di gestazione non voluto. Ci rifiutiamo oggi di subire l’affronto che poche migliaia di firme, maschili e femminili, servano da pretesto per richiedere dagli uomini di potere, dai legislatori, quello che in realtà è stato il contenuto espresso da miliardi di vite di donne andate al macello dell’aborto clandestino. Noi accederemo alla libertà di aborto, e non a una nuova legislazione su di esso, a fianco di quei miliardi di donne che costituiscono la storia della rivolta femminile perché solo così faremo di questo capitolo fondamentale della nostra oppressione il primo capitolo di presa di coscienza da cui minare la struttura del dominio maschile”.
Il 6 dicembre 1975 più di ventimila donne sfileranno a Roma in una manifestazione a favore dell’aborto libero, gratuito e assistito. “Le mobilitazioni del movimento femminista – scrive Beatrice Busi – mirano alla depenalizzazione e non a una legislazione ad hoc sull’aborto. Una posizione comune sia al Movimento di liberazione della donna, inizialmente federato al Partito radicale e poi resosi autonomo, sia al Movimento femminista romano, che nel 1976 scrive: «Noi ribadiamo la nostra posizione per la totale abrogazione del reato di aborto. Qualsiasi forma di legislazione sull’aborto, anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna».
I motivi li descrive bene il documento “Autodeterminazione: un obiettivo ambiguo”, contenuto nel Sottosopra rosa del gennaio 1976, che entra nel merito della legge sull’aborto proposta in parlamento ed esprime la posizione di molti altri gruppi di autocoscienza di Milano, Torino, Firenze: «L’unica cosa che vogliamo da una legge è la cancellazione del reato, dunque la depenalizzazione». L’autodeterminazione, dice quel documento, non è più tale se ci si subordina agli interessi dei partiti – il conflitto con il Pci fu accesissimo – e della logica parlamentare; se ci si affida alla regolamentazione esterna dello stato; se, una volta ottenuta la legge, si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle istituzioni ospedaliere, giudiziarie, amministrative”.
Nel 1973 viene discusso un primo progetto di legge per la parziale depenalizzazione dell’aborto, presentato dal deputato radicale Loris Fortuna.
Una parte del movimento femminista sostiene adesso che sia importante intervenire sulla materia attraverso una legge, molte altre sottolineano ancora che l’unica strada verso l’autodeterminazione è quella della cancellazione del reato di aborto.
Il legislatore riuscirà a scontentare entrambe.
Cinque anni dopo, il 22 maggio 1978, verrà approvata la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, con 308 voti a favore e 275 contrari.
I nodi critici della legge sono chiari sin da subito alle femministe, nonostante fosse un enorme passo avanti viene negata la capacità della donna di autodeterminarsi, di scegliere per se stessa.
Al contempo la legge scatena le ansie moralistiche e apocalittiche della società conservatrice e del mondo cattolico.
Nel 1981 si andrà al voto per il referendum abrogativo. Il movimento femminista, a quel punto, non può più contare su una presenza massiccia sul territorio, ma la vittoria dei no all’abrogazione della legge sarà comunque schiacciante (67,8%).
Ventidue articoli, stringati, chiari, un testo di legge facile da comprendere leggendolo.
E leggendolo è chiaro il suo intento, già dal titolo: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. La Legge 194 è, in prima istanza, una legge sulla salvaguardia della maternità, la disciplina dell’aborto arriva solo in seconda battuta.
Una sequenza che si riflette, lampante, negli articoli della legge.
Nell’Articolo 1 si sottolineano le priorità: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.
Nell’Articolo 2 si stabiliscono i doveri dei consultori, che sono tenuti ad informare “contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza.” Tanto che “i consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
L’Articolo 3 parla dei finanziamenti ai consultori.
L’interruzione di gravidanza arriva solo all’Articolo 4, con tutti i se del caso: “Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia”.
Prima di rilasciare il certificato che autorizzi a procedere con l’interruzione di gravidanza, ribadisce l’Articolo 5, “il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.
E poi c’è l’Articolo 9, quello che dovrebbe disciplinare la cosiddetta obiezione di coscienza e che di fatto, semplicemente, la consente.
“Di certo nel 1978 il legislatore non aveva ascoltato le critiche femministe e laiche mosse, tra gli altri, all’art. 9 – hanno scritto Angela Balzano e Stefania Voli – critiche che rimangono valide soprattutto alla luce delle percentuali di obiezione raggiunte. La legge concede infatti l’obiezione ai medici senza chiedere loro alcun servizio o onere sostitutivo: essi sono liberi di non eseguire aborti e tale mancata prestazione viene scaricata sui colleghi non obiettori traducendosi in un surplus di lavoro non riconosciuto in termini economici né di carriera. Inoltre all’art. 9 si vieta l’obiezione di struttura, ma non si fissano i parametri per contenerla e garantire la continuità del servizio. Oltre al danno la beffa: oggi sappiamo di interi ospedali in cui è impossibile ottenere anche solo un certificato per interruzione volontaria di gravidanza. Tutto questo nella vita quotidiana delle donne si traduce in peregrinaggi alla ricerca di un ospedale con personale non obiettore, con tempi di attesa che rischiano di allungarsi oltre il termine consentito (90 giorni), esponendo a pericoli maggiori la loro salute. Il quadro è stato aggravato dai tagli alla spesa sanitaria e dalla riforma dei consultori, che hanno snaturato la loro vocazione originaria e specifica, rendendoli luoghi distanti dai bisogni delle donne”.
Gli alti tassi di obiezione – con percentuali che legittimano il riferimento all’obiezione di struttura ossia la negazione del servizio, vietata dalla 194 – rendono di fatto la legge sempre più spesso inapplicabile.
Sui nodi critici di questa legge imperfetta si è giocata e continua a giocarsi una battaglia sul corpo delle donne.
“Chiusi nella finzione individualista neoliberale – ha scritto Paul B. Preciado in un articolo apparso a gennaio 2014 su Libération nel quale criticava il nuovo progetto di legge sull’aborto proposto dal governo Rajoy – viviamo con l’ingenua sensazione che il nostro corpo ci appartenga, che sia la nostra più intima proprietà. In realtà la maggior parte dei nostri organi è gestita da diverse istituzioni governative ed economiche. Di tutti gli organi del nostro corpo, l’utero è stato senza dubbio quello che nella storia è stato oggetto della maggiore espropriazione politica e economica”.
Ovunque, soprattutto negli ultimi anni, la legislazione sul diritto di aborto ha subito processi restrittivi che di fatto ostacolano la libertà di scelta.
Ovunque il (trans)femminismo ha risposto.
Contestando una cultura che legittima l’idea che il destino della persona sia all’interno della famiglia eterosessuale, nominando a alta voce tutte le parole che la morale e i moralisti ritengono fuori norma.
Lo si è visto il 26 maggio, le soggettività che compongono Non una di meno con i loro corpi, i canti, le filastrocche, i manifesti, i giochi e i giocattoli hanno attraversato moltissime piazze italiane per urlare “Vogliamo la contraccezione gratuita. Vogliamo l’accesso gratuito all’assistenza sanitaria per l’ivg, la gravidanza e il parto indipendentemente dalla cittadinanza e dai documenti. Vogliamo gli obiettori fuori dalle strutture sanitarie pubbliche e dalle farmacie. Vogliamo la RU486 a 63 giorni e senza ospedalizzazione, somministrata anche nei consultori pubblici. Vogliamo l’eliminazione delle sanzioni amministrative per le donne che ricorrono all’aborto fuori dalle strutture sanitarie pubbliche. Vogliamo welfare per l’autodeterminazione, la sanità pubblica, laica e a nostra misura, i consultori aperti alle donne di qualunque età, alle persone gay, lesbiche, trans e alle migranti. Vogliamo l’educazione sessuale nelle scuole.”
C’è un’emergenza e c’è un progetto politico reazionario, il (trans)femminismo ha risposto a entrambi, perché sia chiaro che non permettiamo a nessuno di combattere questa battaglia strumentale sui nostri corpi, una battaglia che ha il preciso fine politico di erodere su più fronti il già precario terreno dei diritti.
Perché vogliamo molto più di 194 (e ce lo prenderemo).