Che ogni oggetto di conoscenza sia contemporaneo all’epoca in cui se ne fa esperienza e soprattutto ai modi tramite cui tale esperienza si concretizza è cosa evidente, quasi banale. Ma lo è, banale ed evidente, solo a chi abbia lavorato all’obiettivo di inserire nella sua personale prospettiva di analisi e racconto della realtà quel minimo di dotazione concettuale che fa della mediologia una componente difficilmente espungibile da qualsivoglia discorso impegnativo e non deterministico sul mondo e del mondo mediatizzato d’oggi (e non solo d’oggi).
Se, tanto per intenderci, Marshal McLuhan ce lo figuriamo come qualcosa di diverso dal bersaglio di ironiche e distaccate osservazioni tra consumati accademici e, parimenti, sottraiamo l’identità di Walter Benjamin alla caricatura che talora gli si è voluto fornire di inquieto ed imbranato chiosatore, sarà giocoforza per noi assumere le prospettive che il loro pensare apre, assieme a quelle aperte da altri “classici” della non-disciplina mediologica (tutti di “anomali” pensatori, e ciascuno a modo suo), come chiavi tramite cui dar conto dell’esperienza di sapere: quell’esperienza che ciascuno sta facendo nel presente, raccontandosi (e rapportandosi a) una realtà sempre più intrisa di media, e alla quale da sempre è possibile attribuire veste di realtà in quanto, appunto, appare (soggetta a) mediazione. Ammettiamolo: ad uno che non abbia mai incrociato Ong o Havelock o Bolter, le due frasi appena lette non dicono nulla.
Tanto più importante diventa questo assunto quanto più ci addentriamo nel terreno minato dell’educazione. Minato in quanto segnato dalla gran quantità di insidie teoriche e pratiche che il riferimento all’idea di “natura” solitamente reca con sé (e in sé).
Una delle quali, ed è tra le più dannose, predispone (ipodermicamente) l’educatore, ben più di quanto non faccia con altri profili umani, a sottostare alla teoria ipodermica: per intenderci, una rappresentazione dello spazio comunicativo entro la quale, le volte che sono visti in scena i media (ma in scena ci sono sempre…), il rapporto stimolo/risposta che ne caratterizzerebbe il funzionamento è inteso come equivalente ad un meccanico o fatalistico rapporto di causa ed effetto; dato quello stimolo, ecco quella risposta. Corollario di un simile atteggiamento mentale, tanto diffuso quanto supinamente accettato, almeno nel villaggio pedagogico, è la tendenza a fare di tutti i media (esclusa, paradossalmente, la stampa) dei mass media, cioè degli agenti di un condizionamento diretto, univoco e soprattutto universale.
Anni ed anni di esperienza maturata a contatto con studenti dell’area educativa e con docenti della scuola mi hanno fermamente convinto del profondo e diffuso radicamento di un simile atteggiamento, un sorta di predisposizione che funge da barriera di contenimento ideologico nei confronti di ogni tentativo di riflettere e far riflettere su una visione non deterministica dei comportamenti comunicativi e, inevitabilmente, dei comportamenti educativi, soprattutto quelli di segno negativo (che, regolarmente, sono intesi come indotti da qualcosa che viene da fuori, insomma dalle “cattive compagnie”: l’altro ieri i fumetti e il cinema, ieri la televisione e i videogiochi, oggi la rete).
Probabilmente quanto sto affermando figura come un eccesso di rigidità ma è come se al di sotto del pensiero educativo corrente, nel suo strato preconscio, agisse, almeno alle nostre latitudini, una sorta di cortocircuito centrato su tre assunti pressoché incontrovertibili, rarissimamente sottoposti a discussione: Sono quelli che portano a ritenere che:
– tutti i media siano massmedia,
– i massmedia condizionino meccanicamente,
– la stampa non sia un media (tanto meno un massmedia).
Com’è evidente a chi invece mastichi un po’ di mediologia (basta un poco, ve l’assicuro) a nessuno di queste tre assunzioni può essere attribuita validità assoluta. Il fatto che lì, nel contesto dell’educazione, gli assunti di cui ho detto operino come se tale prerogativa fosse loro riconosciuta, è spiegabile facendo ricorso a nuclei di pensiero un po’ più densi e corposi.
Più precisamente, sono le istanze che portano a:
– associare l’agire di figure mediali con le particolari congerie culturali ad esse contemporanee dentro contesti dati,
– identificare tali figure e le loro matrici, al di là del fatto che i comportamenti e i modi di pensare che ne vengono siano interiorizzati dagli individui e dalle istituzioni e dunque vissuti come “naturali”,
– prendere le distanze da ogni tendenza irriflessa a considerare come “esteriori” e negativamente condizionanti le azioni provenienti da figure mediali diverse da quelle dominanti dentro contesti dati.
Una volta fatto lo sforzo di porsi in sintonia con l’approccio di cui ho detto appare in tutta la sua veridicità il reciproco rapporto di condizionamento tra l’istituzione scuola, almeno per come l’abbiamo conosciuta e praticata finora, e i media che fanno capo all’infrastruttura della stampa, con al centro il libro cartaceo: e qui non trovo difficoltà ad inserire nell’orizzonte dell’analisi anche la formazione universitaria, che dalla scuola ha tratto il modello didattico concedendole in cambio il modello epistemologico.
Appare quasi una pedanteria far notare come molte delle procedure che garantiscono il funzionamento dell’istituzione scolastica siano in perfetta corrispondenza con i tratti materiali della “forma libro”: la divisione del sapere in materie autosufficienti è legittimata dall’esistenza del modello “manuale” e dall’idea che ne viene di dominare/possedere/tenere in mano un sapere tutto intero, l’articolazione delle materie in porzioni disposte in sequenza equivale alla divisione in capitoli e paragrafi del testo a stampa e al loro ordinamento sull’asse del tempo, le verifiche degli apprendimenti consistono nell’apprezzamento delle zone di sapere testualizzato disponibili per la memoria e l’uso.
In breve, il tutto poggia su un rapporto di equivalenza tra apprendimento e lettura e in nessun modo, per questa ragione, si fuoriesce dalla logica dell’individualità: il singolo libro, il singolo docente, il singolo studente.
Non è un caso che il sistema scuola-libro abbia trovato legittimazione in società all’interno delle quali alla stampa, appunto, era riconosciuto un ruolo di esclusività nella riproduzione del sapere di livello medio e alto. In buona parte dell’Europa questo avviene nel corso dell’Ottocento e porta alle conseguenze che ben conosciamo: vale a dire la condensazione (sul piano epistemologico, didattico, sociale) di tratti di identità dell’istituzione ai quali non è garantito un valore perenne, come molti vorrebbero credere e far credere, in quanto appartengono alla storia, e dunque sono soggetti a cambiamento. Penso così alla centralità del codice scrittorio con la corrispondente marginalità dei codici visivi e acustici, e, a mo’ di corollario, all’attribuzione al primo del ruolo di interpretazione dei secondi. Penso alla marginalità delle pratiche di apprendimento non mediate dalla lettura e anche ad un insegnamento inteso come esposizione testuale uno a molti e ad un apprendimento praticato come studio individuale del testo. Penso infine, per toccare un piano più generale, all’alfabetizzazione strumentale assunta come funzione da attribuire alla scuola del popolo, o “primaria”, e all’acquisizione delle discipline (e della disciplina di studio) come funzione da riservare alla scuola della futura classe dirigente, appunto “secondaria”.
Evidentemente un simile assetto è ottocentesco. Però attraversa indisturbato quasi tutto il secolo scorso e si ripropone oggi. Vero è che in questo stesso periodo vengono messi apertamente in discussione i fondamenti di molti dei saperi di cui quel sistema costituisce il garante ideologico e materiale, e che in parallelo la domanda di formazione scolastica cresce massicciamente, ma è altrettanto vero che la stampa, pur se teniamo conto dei suoi limiti, continua a figurare ed essere intesa, in questa fase, come lo strumento che meglio si presta alle funzioni di produzione e riproduzione scolastica del sapere: di fatto, e basti un esempio, la comprensione della lettura fungeva e tuttora funge da elemento predittivo della riuscita a scuola, in qualunque tipo di scuola.
Tutto questo avveniva malgrado che, parallelamente, stessero affermandosi, soprattutto sul terreno del condizionamento ideologico e del loisir, i media dell’audiovisione: dunque radio, cinema, televisione. che tanta parte hanno avuto nel formare gli individui e i gruppi.
Se un simile assetto resta tuttora in piedi è perché i confini tra l’azione dell’infrastruttura della stampa (e dunque di un certo tipo di sapere scolastico) e l’azione dell’infrastruttura dell’audiovisione (e dunque di un certo tipo tipo di sapere sociale) permangono ben netti: da una parte il formale e dall’altra l’informale; su un versante i mass media della comunicazione via scrittura (con tutti gli sbarramenti, le limitazioni e i dosaggi che essa stessa garantisce, per sua stessa natura) e su un altro versante i mass media della comunicazione via suono e immagine (sprovvista di sbarramenti “naturali” all’accesso); la proiezione del sapere sull’asse del tempo, a scuola, e, fuori, la concentrazione dell’esperienza sul vissuto dell’immediatezza e del presente. La stampa come tecnica e narrazione della scuola, insomma; e l’audiovisione come tecnica e narrazione dell’oltre/fuoriscuola. Senza che ci siano sovrapposizioni tra le due aree: tutt’al più, la presenza di qualche scaramuccia nella zona di contiguità.
Con l’avvento del digitale e della rete e il loro fungere da infrastruttura sempre più pervasiva e profonda molti dei presupposti non soltanto tecnici ma soprattutto culturali del quadro che ho presentato sono destinati a venir meno. Per esempio, perde di senso la gerarchia tra i codici: l’interattività multimediale dà ai linguaggi visivi e acustici quella funzione riflessiva e metacognitiva che prima era attribuita solo alla lingua verbale e soprattutto scritta e che faceva di questa il “decisore” del destino cognitivo ufficiale di quelle. Vengono anche meno i presupposti fondanti l’idea stessa di “materia”, o “disciplina”, nonché la loro sanzione materiale sotto forma di “libro”: la logica di rete procede per legami, non per approfondimenti. Non solo, perde di senso la fedeltà ad una didattica centrata sull’individuo, sul suo isolamento di lettore, e ne acquista un’idea di apprendimento/insegnamento centrata sull’azione, la condivisione e lo scambio.
Se i presupposti materiali per questa radicale trasformazione non mancano, e certo sono più facili da vedere nel mondo esterno che in quello interno alla scuola, più nell’area del consumo che in quello dell’azione educativa ufficiale, ciò che assolutamente manca allo stato attuale, ed è il caso di cominciare seriamente a preoccuparsene, è la consapevolezza di quanto sia necessario e urgente che ci si impegni, in ambito educativo, a dar vita ad una narrazione, ovviamente centrata sui fatti ma non sprovvista di desiderio e fantasia, che voglia e sappia porsi all’altezza di una simile svolta.
Il contesto certamente non aiuta: siamo alle prese con un paese e soprattutto un’intellettualità poco disponibili a trattare in modo consapevole e serio il tema generale dei media e dei loro intrecci con le pratiche culturali, sociali e politiche. Ancora oggi, diversamente da quanto avviene anche in paesi vicini, l’ideologia dominante a proposito di tecnologie digitali fa leva su un diffuso atteggiamento di diffidenza e comunque su un livello piuttosto basso di familiarità con le pratiche materiali.
A contatto con studenti orientati a professioni educative, ho continue verifiche di quanto sia radicato tale atteggiamento, anche in giovani che comunque fanno un uso costante delle strumentazioni digitali, e di come non bastino esperienze di lettura e studio a infrangere un muro così compatto. Per far breccia è necessario proporre terreni e sollecitare movimenti diversi da quelli consueti. Insoddisfatti di quanto ci riusciva di trarre dallo studio di un nostro saggio/manuale, peraltro disponibile solo in versione digitale (Storia e pedagogia nei media), con Mario Pireddu abbiamo tentato la via della “narrazione”, sollecitando liberi collegamenti tra i concetti presentati nel testo e frammenti di racconto prelevati dai repertori filmici personali. È solo un inizio, per di più molto parziale e personale. Ma indica una strada e una metodologia percorribili.