La narrazione del cibo è senza speranza?

Il 5 ottobre a Siena Diletta Sereni  parteciperà alla Food Agorà “Quando la creatività incontra il cibo e cambia i territori” organizzato in collaborazione con il lavoro culturale all’interno del festival Siena Food Innovation.

narrazione cibo

Ho appena spento la tv e sono confusa. C’era lo spot di una nota catena di fast food, ma ci ho messo un po’ a riconoscerla. Mostra alcuni produttori italiani di carne durante una loro ipotetica giornata di lavoro, mentre pronunciano ipotetiche dichiarazioni d’amore per il loro mestiere, su quanto è di qualità tutto il processo, su quanto sono felici gli animali che hanno anche le spazzole per grattarsi. Poi prende la parola la nota catena di fast food per rivendicare che dà molto lavoro agli allevatori italiani e che per questo la carne dei suoi hamburger è 100% italiana.

Sono confusa, ma è perché sono ingenua: in realtà abbiamo questo problema da tempo. Questo spot contiene – in versione vaga e annacquata, ok – temi come la dignità del lavoro contadino, il controllo della filiera, il rispetto degli animali. Gli stessi temi che trovi nei discorsi “politici” del cibo. Quei discorsi – militanti, divulgativi, giornalistici – che spesso e volentieri hanno come bersaglio e nemico il modello agro-industriale incarnato al suo massimo proprio dalla nota catena di fast food.

È uno spot che segna forse la definitiva sovrapposizione di retoriche a cui assistiamo da qualche anno: alcuni temi dell’attivismo di filiera (espressione che mi sono appena inventata, negli Stati Uniti lo chiamerebbero Food Movement, da noi un nome non ce l’ha) sono stati saccheggiati dal marketing delle grandi aziende, che li ha trasformati in concept, per costruirci sopra una nuova retorica comunicativa ripulita e adattata alle aspettative del pubblico.

Mi chiedo, è un problema o una possibilità per chi – e mi ci metto dentro – quell’attivismo di filiera vuole continuare a tradurlo in parole? In parte forse possiamo considerarlo una possibilità: se anche la nota catena di fast food fa vedere i volti degli allevatori (anche se poi scopri che sono “fornitori indiretti e residuali”) forse allora la gente si convincerà ad interessarsi all’origine del cibo che compra? In gran parte però temo sia un problema, perché così sarà sempre più difficile raccontare, a chi ha poco tempo o voglia di leggere, la differenza tra un hamburger industriale e un allevamento come quello di Paganico, per dirne uno.

Molte parole sono già usurate: “naturale”, “artigianale”, “chilometro zero”, persino “biologico” o “bio”.  Anche loro sono passate attraverso lo schiacciasassi del marketing che ne ha capito la potenzialità e le ha ormai ridotte a puri slogan, a tic comunicativi, che fanno roteare gli occhi a chi è già insofferente a tutta questa morbosa attenzione al cibo. Le persone che vogliono mangiare carne tutti i giorni e pomodori d’inverno sono alla fine rassicurate dal fatto che tutta la politica che hanno intravisto nel cibo alla fine si sia rivelata solo nuovo materiale per le campagne pubblicitarie. La loro dissonanza cognitiva è scongiurata, possono serenamente non cambiare abitudini.

Expo Milano è stato il più grande motore di questo enorme malinteso: quella manifestazione dove un povero cristo afgano sedeva su una seggiola pieghevole e ripeteva solo “saffron, afghan” sul fiume di folla cieca, pronta a ingurgitare qualsiasi cosa, e la folla lo guardava estasiata da tanta autenticità per poi sciamare poco più avanti, dove i colossi dell’agro-industria incorniciavano il passaggio. I colossi seduti a fianco del minuscolo produttore di allora sono diventati qualcosa di ancora più infido da gestire: i colossi che parlano la stessa lingua del minuscolo produttore. Quasi la stessa lingua, in verità, ma un quasi che rischia di essere solo materia per semiotici e non una differenza concreta per chi ascolta di sfuggita e legge di corsa, cioè quasi tutti noi.

La narrazione del cibo è allora senza speranza? Come si recupera un senso? Come si fa a descrivere il lavoro dei campi senza sembrare dei “fighetti bio”, a raccontare un prodotto senza suonare come la pubblicità dei surgelati. Come si fa a superare la sovraesposizione mediatica del cibo e comunicare la differenza tra una filiera sostenibile e una che non lo è?

La risposta non ce l’ho, e verrà per prove ed errori. Il primo tentativo che voglio fare – e di cui parlerò anche il 5 ottobre Siena Food Innovation – è una scrittura di prossimità. Non dico chilometro zero, che appunto è ormai un termine svuotato, dico prossimità e intendo la possibilità di fare esperienza concreta di quello che viene raccontato.

La scrittura di cibo inizia a sembrarmi sempre più forte, quanto più diventa scrittura di terra, quanto più perlustra, setaccia, esplora il territorio e lo racconta. Quanto più mostra alle persone cosa e come producono i loro territori e le mette in condizione di poter esplorare quei territori a loro volta. Una scrittura che orienta i percorsi, che aiuta a leggere il paesaggio come somma di risorse o di problemi, che lo rende accessibile, decifrabile, a chi quel paesaggio lo abita oppure lo guarda da lontano. Una scrittura ben salda su una dimensione iper-locale, che abbiamo visto è diventata anche una delle ancore di salvezza del giornalismo in generale.

La prossimità così intesa è forse un nocciolo di valore che l’industria alimentare non può fagocitare nella propria comunicazione. Non solo perché non le appartiene, ma perché (l’industria) si basa sul principio opposto: strutturare filiere distribuite sulla base della riduzione dei costi. Può provarci, già lo fa, ma non regge, si vedono le crepe.

Questo tipo di narrazione del territorio non è né una cosa nuova – e penso forte a Luigi Veronelli mentre scrivo –, né l’unica risposta al problema. Per adesso dico che è un’opzione e che ho deciso di sperimentarla con un progetto appena nato: Agricoltori a Milano.

La dimensione agricola di Milano è un apparente controsenso con una storia affascinante. Mi sono data questo contenitore per raccogliere le storie di quelli che si prendono cura della terra intorno alla città e mappare le loro esperienze. L’idea è raccontare in che modo il territorio milanese si trasforma in cibo, far conoscere le micro-filiere esistenti e – questo sarebbe l’esito ideale – spingere le persone a occuparsi della loro prossimità, dal punto di vista agricolo e alimentare.

Per farlo incontrerò personalmente gli agricoltori e sarà per me interessante osservare, attraverso i loro racconti, la trasformazione della città vista dai suoi margini, cioè dove si trovano i terreni ancora coltivabili. A forza di perlustrare questi margini, vorrei comporre una narrativa di prossimità, una lettura della città dal punto di vista del cibo, capace di coglierne gli aspetti sociali e ambientali, e capace anche di suggerire nuovi percorsi su un territorio spesso dato per scontato.

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