Un breve diario di titoli letti nei giorni del confino.
Igiaba Scego, La linea del colore, Milano, Bompiani, 2020, pp. 367, euro 19
È un libro importante. Innanzitutto perché conferma il gran lavoro che Scego ha fatto in questi anni, aprendo un percorso irreversibile per decolonizzare la letteratura italiana. La narrativa contemporanea senza Scego sarebbe più povera e provinciale. Scego toglie la patina di bianco che imbelletta la nostra letteratura e fa triangolare Roma con l’Africa Orientale e gli Stati Uniti. Bravissima a costruire personaggi di finzione ispirati a figure storiche, non solo nella protagonista, Lafanu, ma anche in personaggi secondari eppure di primo piano, come il calco narrativo costruito sulla figura – gigantesca, ma che Igiaba si diverte a ridimensionare un poco – di Frederick Douglass. Molto interessante anche la riflessione sull’arte e necessaria la critica all’attivismo delle donne borghesi bianche del secolo scorso. Detto tutto questo, non pensate a un romanzo a tesi. È un romanzo che si legge divorati dall’ansia di sapere cosa succederà nella pagina successiva. Chapeau.
Sara R. Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne, Roma, Alegre, 2019, pp. 303, euro 18, traduzione di Marie Moïse e Marta Panighel
Un saggio denso che ricostruisce l’appropriazione del discorso femminista radicale da parte della destra e del femminismo borghese. Si stigmatizzano i migranti maschi, soprattutto quelli musulmani (perlopiù dipinti come “stupratori”) nel tentativo strumentale di “difendere” le donne migranti, rappresentandole come “vittime” e invitandole a seguire i percorsi di emancipazione tipici dell’ideologia neoliberale (la carriera, la ricchezza, ad esempio). Farris propone un’analisi sociologica delle donne migranti working class, a cui da un lato si offre la retorica sulla libertà e i diritti mentre dall’altro si prospetta come unica forma di “emancipazione” la reclusione nei lavori di cura domestici, dove sono occupate per permettere alle donne occidentali di uscire dalla riproduzione sociale per entrare a creare profitti nell’ambito della produzione. Un saggio quanto mai necessario.
Raffaele Mozzillo, Calce, Firenze, Effequ, 2019, pp. 202, euro 15
Una storia di proletariato migrante che diventa lumpen in poche generazioni. Scrittura magistrale, anche se per i miei gusti troppo barocca, col rischio di scivolare nella maniera. Incipit folgorante, poi la trama diventa meno convincente, mentre lo stile rimane serrato. Manca l’umorismo e la solidarietà per essere una storia working class come la intendo io, ma di traumi del capitalismo ne compaiono a iosa. Il sistema che abbrutisce i lavoratori non viene però mai indicato nelle sue dimensioni strutturali, col rischio di diventare una forma di narrazione che demonizza i poveri, che sembrano responsabili dei propri traumi. Comunque un lavoro molto interessante e un autore da seguire nelle prossime scritture.
Caterina Ferrini, Orlando Paris, I discorsi dell’odio. Razzismo e retoriche xenofobe sui social network, Roma, Carocci, 2019, pp. 114, euro 13
A volte la semiotica può sembrare una disciplina “dry”, algida, che focalizza sull’analisi strutturale dimenticando la storia, le determinazioni di classe, la cronaca. Ma non è sempre così. Il metodo di lavoro semiotico può servire per mettere a nudo i dispositivi di enunciazione delle retoriche in cui siamo immersi. Può ad esempio servire alla perfezione per un debunking delle pratiche narrative con cui si stigmatizzano i gruppi sociali più oppressi. È quel che fanno gli autori di questo saggio quando applicano l’analisi testuale ai discorsi d’odio rivolti contro stranieri e migranti, a partire da un repertorio che è molto diffuso sui social. Il canale di emissione di questi testi sono i gruppi creati da Facebook da utenti (cripto)fascisti, i cui meme poi diventano virali. Una lettura fondamentale per capire come il senso comune possa diventare tossico. (Un utile esercizio potrebbe essere l’applicazione di questa griglia teorica alle pubblicità televisive che focalizzano fino alla nausea sulla presunta italianità delle merci).
Alessia Masini, Punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna (1977-1984), Ospedaletto (PI), Pacini Editore, 2019, pp. 275, euro 18
Ho apprezzato tantissimo questo saggio. Dal punto di vista teorico è una interessante applicazione dei cultural studies britannici. Se poi il campo di studi è il punk (inglese, ma anche italiano, soprattutto nella scena bolognese e milanese degli anni Ottanta), l’entusiasmo cresce ancora. In una sola pagina l’autrice parla dei Crass, di 1984 di Orwell, di Gramsci e Raymond Williams (li ho amati tutti). Di subculture working class (concetto che viene problematizzato, soprattutto nel caso italiano) e di Richard Hoggart, l’autore dello splendido The uses of Literacy. Consiglio la lettura a tutti quelli che hanno scoperto un certo tipo di fare politica, in rottura con partito e sindacato, grazie alle serate di pogo nei centri sociali. A me durante la lettura delle pagine di Masini suonavano in testa alcuni concerti: i Sick of It All visti alla Giungla di Firenze, i Negu Gorriak, i Kina, i Fugazi al vecchio CPA di viale Giannelli. E prima ancora lo shock dei punk del Virus di Milano che contestavano un convegno sulle “devianze giovanili” che ho visto in tv proprio nell’anno del Grande fratello, il 1984, quando avevo 9 anni. Il giornalista inorridito, io che dentro di me pensavo: questi sono fortissimi. Per molti, come me, questo saggio avrà un impatto emotivo generazionale. Cercatelo, leggetelo. Do it yourself.
Carlo Bonazza, Un’idea di Maremma. La visione dei fotografi 1860-1960, Grosseto, Photoedizioni, pp. 246, ill., euro 246, senza indicazioni di prezzo
Un libro meraviglioso sull’iconografia della Maremma. Carlo Bonazza, fotografo grossetano, ha fatto un lavoro fantastico di ricerca, indagando lo sguardo con cui i fotografi (dall’epoca dei grand tourist fino agli anni Sessanta) hanno immortalato – e costruito dentro alle ottiche – la Maremma e il suo mito. Sfogliare questo libro per me è stato un colpo al cuore. E i colpi mi arrivavano da tre lati. Da un lato, la Maremma come western “delle nostre parti” (e ci sono alcune fotografie che veramente sconvolgono, con vaccari che sembrano usciti da un albo di Bonelli). In secondo luogo, la Grosseto “bianciardiana”, le quattro strade del Lavoro Culturale di Lucianone e le foto di Corrado Banchi della strage di Ribolla. Infine, alcune foto – in particolare quella che lo stesso Bonazza ha voluto emblematicamente sulla quarta di copertina – dedicate al proletariato maremmano negli anni postbellici. Una foto che è l’antitesi dell’iconografia dei contadini di Fontamara, dei “cafoni” – ovviamente chiamati così solo da quelle merde che sono i “galantuomini”. I proletari maremmani di queste foto sono un mix di “guaperia” e irriverenza, fanno il verso alle star del cinema, ma sommano tutti i film assieme: un po’ John Wayne, un po’ Jean Gabin, un po’ tango, un po’ western. Difficile che gente così abbassasse lo sguardo di fronte al prete e al padrone. Figuriamoci davanti all’obbiettivo di un fotografo.
Jack London, Il tallone di ferro, Milano, Mondadori, 2020, pp. 277, euro 13, traduzione di Sara Sullam
Mondadori sta ristampando in nuove edizioni alcuni classici. Oltre agli splendidi romanzi di George Orwell, tradotti magistralmente da Andrea Binelli, torna sugli scaffali con una nuova veste un capolavoro: Il tallone di ferro. Un romanzo che racconta la prima onda del socialismo nordamericano e poi si lancia in una deriva distopica che anticipa i fascismi del Novecento. A tratti potrà sembrare didascalico, eppure dentro queste pagine ci sono nodi centrali dei decenni a venire. Il tutto scritto con quella scioltezza stilistica di Jack, che era un elefante in una cristalleria sia quando impugnava i guantoni che quando stringeva tra le dita una penna. Eppure sapeva portare i nodi al pettine come pochi. Da rileggere pensando ai nostri giorni, utilizzando anche l’interessante postfazione di Cinzia Scarpino che distanzia la figura di Jack London dalla sua proiezione narrativa (Everhard).
Vanessa Roghi, Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 281, euro 19
Un gran bel libro su Rodari che squaderna nei suoi margini tante questioni importanti. Io ho provato a leggerlo, soprattutto nelle prime 100 pagine, riflettendo su quanto Rodari fosse ispirato dalla classe operaia. Al punto che, notoriamente, dichiarò di considerare come suo committente non tanto l’editore quanto la classe operaia. Ma il suo debito verso gli operai non lo pagò con una scrittura realistica, come avrebbero fatto tanti scrittori più celebri e ossequiosi verso le direttive del partito, ma con una scrittura fantastica, che prelevava a piene mani dal surrealismo francese – ricorderete la celebre definizione del bello elaborata da Lautremont, assieme al principio che la poesia doveva essere fatta per tutti. E questo fa Rodari in tanti anni: mette al servizio di tutti la fantastica, fa entrare i libri nelle case dei figli degli operai, e li rende orgogliosi del mestiere dei loro genitori. Insegnandoci che il gioco più bello è quello di rifare il mondo. Di rifarlo più bello e meno ingiusto.
Miguel Mellino, Andrea Ruben Pomella, Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, Roma, Alegre, 2020, pp. 332, euro 18
Un saggio rilevante per togliere il bianco di dosso a tanto marxismo europeo e ai movimenti sociali che cercano di metterne in pratica le teorie. Importante per decolonizzare immaginario, teorie e prassi. Per toglierci di dosso l’idea di stare al centro del mondo, di considerare i problemi razziali (e quelli di genere) come secondari rispetto allo sfruttamento economico, quando invece il capitale si replica proprio grazie alla subordinazione di razza e genere. Dalla splendida lettera di Aimé Césaire fino al recupero di figure del marxismo dei paesi oppressi rimaste in disparte (o oppresse dalla teorie eurocentriche), attraverso personaggi emblematici come CLR James, famoso per il suo saggio sui giacobini neri, e poi Huey P. Newton, ricordato più per la sua militanza che per lo spessore teorico, fino al femminismo postcoloniale delle donne oppresse elaborato da Gayatry Spivak. Senza dimenticare Claudia Jones e una figura indimenticabile come Raymond Williams, figlio di un ferroviere gallese, autore di saggi e romanzi fondamentali sul movimento operaio classico ma qui interpretato sotto una nuova luce.
Simone Pieranni, Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp.157, euro 14
Il titolo è ovviamente un richiamo alla fortunata serie Netflix che ha alimentato l’immaginario distopico degli ultimi anni. Ed è un titolo che colpisce nel segno. Perché la Cina non è più, come in molti pensano ancora, “la fabbrica del mondo”, il produttore a basso costo di paccottiglia prima, poi l’assemblatore – ad alto costo di vite operaie – di dispositivi telefonici. È oggi l’ago di punta delle trasformazioni tecnologiche del capitale e del pianeta. E il futuro che si scrive in Cina è un futuro di biotecnologie volte a disciplinare la società: tracciatura di spostamenti e di dati, riconoscimento facciale, sistemi di crediti sociali. Un’accelerazione verso il governo tecnologico dei rapporti sociali che convive con alto tasso di sfruttamento e turni lavorativi di dodici ore da un lato; ma anche, dall’altro, con un sistema di investimenti pubblici in ricerca e istruzione inimmaginabile in Europa e in Usa; con una velocità di trasformazioni che il vecchio mondo europeo, nella sua senile arroganza, non riesce neanche a concepire. La Cina è un campo di contraddizioni che non si racchiude in una formula semplice e Pieranni riesce benissimo in questo breve e intrigante libro a tenere tutte le contraddizioni assieme. Dove andrà il futuro, lo sapremo presto, molto presto, con i ritmi di questa Cina.