Il capitalismo della sorveglianza e le briciole digitali

Una lettura del libro di Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss Univ. Press, 2019).

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La scoperta e la cattura del «surplus comportamentale»

Il capitalismo della sorveglianza ha poco più di una decina d’anni, ma la sua proliferazione è stata tanto rapida da aver imposto come ineluttabile trasformazione storica un racconto che avrebbe potuto avere un altro esito. Ha anche un padre certificato: Google.

All’inizio c’è un semplice motore di ricerca, i cui sviluppatori, Sergey Brin e Larry Page, sono due fra i molti «tipi svegli incapaci di fare profitti» della Silicon Valley: hanno un ottimo algoritmo, ma non ci guadagnano. Nel 2002 esplode la “bolla del dot.com” e la breve promessa di paradiso della new economy si capovolge in un inferno di fallimenti aziendali. A quel punto la scelta è tra morire o sopravvivere a qualsiasi costo: in soli cinque anni gli introiti di Google crescono del 3.590%. Brin e Page avevano scelto la seconda strada.

Il salto di qualità è consistito nell’associare la pubblicità non alle query, ma agli utenti (targeted advertising), arrivando a quella pratica di pubblicità individualizzata e onnipervasiva cui ormai abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che è nuovo non è naturalmente l’idea della pubblicità orientata al consumatore, che è da sempre l’ambizione di ogni pubblicitario, quanto la potenza e l’intrusività degli strumenti a disposizione per la profilazione degli utenti, che è premessa necessaria alla targetizzazione. La pubblicità, dice Zuboff, da arte è diventata scienza.

Questa pratica di profilazione è però molto diversa da come intuitivamente ce la raffiguriamo: agisce sempre a lato e obliquamente, in sottofondo e oltre la superficie delle informazioni esplicitamente cercate e fornite. A interessare non sono tanto «gli argomenti dei quali scriviamo, ma […] come ne scriviamo. Non […] che cosa c’è nelle nostre frasi, ma la loro lunghezza e complessità; non che cosa elenchiamo, ma il fatto che facciamo un elenco; non la foto che postiamo, ma il filtro o la saturazione che abbiamo scelto […] I punti esclamativi e gli avverbi che usiamo rivelano molto di noi» (p. 290).

Queste tracce lasciate a nostra insaputa sono chiamate, con cauto e scaltro eufemismo, «scarti digitali» o «briciole digitali», qualcosa di cui non riteniamo di doverci curare e che invece hanno rappresentato la scoperta di una vena aurifera inesauribile, che è bastato mettere a profitto. È il «surplus comportamentale». L’altro grande protagonista del capitalismo della sorveglianza, Facebook, ricorre a un algoritmo – totalmente segreto – che analizza qualcosa come 100mila elementi di questo “surplus”.

Estensione del dominio della cattura

Ma il surplus e il profitto ricavati dalle interazioni con due sole pagine, quella di un motore di ricerca e di un social network, sarebbero stati poca cosa. Il dominio della cattura è stato perciò esteso, attraverso l’acquisizione di asset strategici (i casi più noti: Youtube per Google, Whatsapp per Facebook) e la moltiplicazione monopolistica dei servizi offerti all’utente: video musicali, motore di ricerca, mail, mappe, … Peraltro, fornendo gratuitamente la tecnologia Android, Google è diventata il terminale ultimo dei dati ricavabili dalle app di molte altre aziende. Ma la stessa distinzione tra pagine proprietarie e rete è ormai obsoleta: quale che sia il luogo virtuale di internet che visitiamo, l’«infrastruttura di tracking» di Google e di Facebook – e di Amazon ed Apple e di centinaia di altre aziende di «vendita al dettaglio, finanza, fitness, assicurazioni, trasporti, viaggi, alberghi, salute, educazione» (p. 184) – è onnipresente.

Attualmente la frontiera della cattura è l’internet delle cose: la domotica (Echo di Amazon e Google Home), gli assistenti personali (Cortana di Windows 10, Alexa di Amazon), il cruscotto della nostra auto, i giocattoli interattivi della Mattel… I comandi vocali che impartiamo ad Alexa vengono registrati, trascritti con programmi di sintesi vocale, archiviati; l’aspirapolvere Roomba è in grado di mappare la nostra casa; l’auto di Street view, oltre a fornire a Google una cattura dello spazio geografico in scala approssimata all’1:1, è servita anche per carpire tutti i dati delle reti wifi domestiche non protette («scandalo Spy-fi»). Oltre questa prima linea di frontiera, brevetti avveniristici come Google Now o M di Facebook promettono un futuro di cosiddetto «life crawling», di ingresso nella vita reale.

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Il sogno di ogni tecnologo è quello di rendere i propri strumenti tanto ovvi e incorporati nella nostra vita da far sì che essi non siano più percepiti come “tecnologia”: domani, sensori indossabili e minicomputer pieghevoli e adattabili al corpo come braccialetti potrebbero essere perennemente connessi con lo spazio intorno a noi (domestico, ma non solo: le «smart city» vanno in questa direzione), uno spazio anch’esso disseminato di sensori, in una perfetta simbiosi tra uomo, ambiente e macchine («computazione ubiqua» o «ambientale»). Sono quelle che Zuboff chiama «forme indossabili di cattura del surplus» (p. 167).

I primi esperimenti in questo senso sono stati Google glass, gli occhiali indossabili per la realtà potenziata, e Pokémon Go, che lungi dall’essere un semplice videogioco più ardito degli altri, è stato l’episodio pilota di una precisa strategia, nella quale realtà e virtualità vengono perfettamente sovrapposte per mezzo di una mappatura dello spazio a livelli di altissima granularità. Mentre folle di persone andavano a caccia di paffuti mostriciattoli, per le strade e persino dentro le case e i cortili altrui, i dati dei loro telefoni venivano catturati e i loro proprietari venivano indirizzati presso bar, ristoranti, negozi di inserzionisti, che avevano pagato perché un Pokémon virtuale fosse collocato nel loro realissimo esercizio commerciale.

Conquistadores “cyberlibertari”

Il nostro attuale mondo è nato quindi da una pervicace volontà delle aziende high-tech di perseguire i propri scopi («là fuori è pieno di stupidi immobili che dobbiamo trasformare in soldi», confessano alla studiosa, «la morale della storia è che la Valley ha deciso che deve succedere per poter consentire la crescita delle aziende», p. 238).

La gestione di quantità enormi di informazioni personali tradotte in dati rappresenta un vero e proprio Nuovo mondo, privo di tutele legali o di capacità di resistenza, che diventa di proprietà del primo conquistador che è in grado di accaparrarselo. I capitalisti della sorveglianza hanno trasformato in merce ciò che non lo era, nell’ennesima iterazione dell’accumulazione originaria: è bastato loro dichiarare che ciò che era nostro era diventato loro.

Ma l’«innovazione senza permesso» dei capitalisti della sorveglianza si è naturalmente giovata di un clima ideologico favorevole: l’«ideologia cyberlibertaria» che dagli anni Novanta prospetta il sogno di un mondo digitale senza confini e barriere fisiche, simulatamente orizzontale e democratico; l’indecifrabilità dei processi informatici, tanto incorporati nelle macchine, automatici e autoriproduttivi, da sfuggire al controllo degli stessi detentori della tecnologia, che possono dichiararsi in questo modo non responsabili; le politiche di deregulation dei mercati e di dismissione dello Stato; il mito dell’«inevitabilismo tecnologico» e l’incapacità delle «vecchie istituzioni, come le leggi e compagnia bella» (Brin e Page) di tener dietro ai ritmi vertiginosi delle economia digitale.

Da questo punto di vista, la spregiudicatezza giuridica e lobbistica di queste grandi aziende è, ed è stata, impressionante. Attraverso «un’umiliazione morale della legge e dell’istituzione del contratto» siamo stati abituati ad accettare che la presunzione del nostro consenso fosse il consenso stesso: oggi il semplice atto di cliccare su un contenuto o di navigare su una pagina implica di per sé l’accettazione dei termini di servizio («click wrap» e «browse wrap»). È con la nostra approvazione che cediamo enormi quantità di informazioni nient’affatto essenziali al funzionamento dei prodotti, ma utili semplicemente alla nostra profilazione. Esemplare a questo riguardo è un passaggio delle policy di privacy della smart tv Samsung [sic], che registra tutto quello che viene detto in sua prossimità: «sappiate che se le vostre parole includono informazioni personali o altri dati sensibili, faranno parte dei dati raccolti e trasmessi a una parte terza quando userete il riconoscimento vocale […] comportarsi con cautela e […] leggere le dichiarazioni sulla privacy» (p. 278).

Quasi tutte queste operazioni sono state condotte con intenzionale dissimulazione: «Come disse Schmidt [Eric, ceo di Google] al New York Times, “l’importante è vincere, ma è meglio farlo senza dare nell’occhio”» (p. 99).

Oltre il mercato: la predicibilità dei comportamenti

Certamente Zuboff non sottovaluta le implicazioni politiche del capitalismo della sorveglianza e dedica loro molte pagine: la multimilionaria attività di lobbying delle imprese della Silicon Valley, con l’opposizione costante a leggi sulla privacy; i flussi di finanziamenti dal Pentagono verso Google; l’alleanza spregiudicata tra Obama e l’azienda di Cupertino per una campagna elettorale basata su una propaganda politica individualmente mirata, lo scandalo Cambridge Analytica, …  Ma quella della studiosa non è solo e tanto l’interpretazione politologica di una possibile distopia benthamiano-orwelliana; anzi, Zuboff invita a non abusare di questo mito politico novecentesco e a concentrarsi piuttosto su quello che chiama «potere strumentalizzante».

L’interesse convergente di politica ed economia intorno al surplus comportamentale è legato alla possibilità di fare previsioni sempre più accurate delle nostre scelte e di governare la società in forma non più centralizzata, ma integrata, olistica, dinamica, responsiva. Non a caso presso studiosi che di volta in volta si autobattezzano esperti di «people analytics», «affective computing», «reality mining» assistiamo a un vigoroso ritorno in auge del comportamentismo (la stessa Zuboff è stata a suo tempo allieva di B. F. Skinner). Non solo perché i suoi assunti gnoseologici (ridurre la psicologia umana a “comportamento”, a un complesso misurabile di dati) collimino con la necessità del capitalismo della sorveglianza di operare accurate valutazioni della personalità, tramite la raccolta di tracce digitali, ma perché gli strumenti tecnologici oggi a disposizione consentirebbero di inverare alcune delle più profonde ambizioni del comportamentismo.

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Skinner era frustrato dall’irriducibilità metodologica dello studio della psicologia umana; in particolare perché l’“oggetto” della rilevazione, consapevole di essere sottoposto a esperimento, retroagisce sulla rilevazione stessa. I social network hanno aumentato a dismisura la precisione e la capacità di penetrazione analitica degli strumenti, garantendo contemporaneamente la totale inconsapevolezza dei soggetti.

Ma dal momento che ogni previsione sulle nostre scelte che resti disattesa è una perdita di profitto, le grandi corporation del digitale hanno da tempo capito che «la fonte più predittiva di tutte è un comportamento che sia già stato modificato per orientarlo verso esiti sicuri» (p. 313). Qui, per Zuboff, corre la vera differenza tra potere strumentalizzante del futuro e totalitarismo del passato: «lo scopo non è imporre norme comportamentali come l’obbedienza o il conformismo, ma produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo, conduca ai risultati commerciali desiderati» (p. 217): quando, fra breve, i nostri “assistenti personali digitali” ci suggeriranno non soltanto, come già fanno, il ristorante che fa al caso nostro nella città che stiamo visitando, ma la meta stessa del viaggio, senza che sia necessario per noi ricercarla, non ci staranno imponendo una decisione eteronoma, ma prevenendo nella scelta di ciò che effettivamente vogliamo (o crediamo di volere, giacché le opzioni possibili sono preordinate).

Nei libri di Skinner, Oltre la libertà e la dignità e Walden due, si tratteggiava un’utopia nella quale la subordinazione della libertà individuale alla conoscenza di sistema avrebbe garantito una società complessivamente più ordinata e felice. Per i suoi eredi odierni questa utopia diventa reale grazie a un’interazione uomo-macchina nella quale la responsività è reciproca: le macchine conoscono i comportamenti umani, sanno prevederli e indirizzarli; gli uomini si adattano spontaneamente alle architetture di scelta configurate dalle macchine. «Lo scopo è una società mediata dai computer, nella quale la visibilità reciproca diviene l’habitat dentro cui ci conformiamo a vicenda, producendo pattern sociali basati sull’imitazione che possono essere manipolati per ottenere una confluenza, secondo la logica della macchina alveare», 445. Naturalmente questo impone di rinunciare, come già pretendeva Skinner, a “miti politici” come quello della libertà individuale e della privacy: non perché non esista una sfera intima di autonomia personale, ma perché questa è scientificamente irrilevante e politicamente controproducente. Se le società umane, anche quelle che si pretendono libere e democratiche, funzionano male – scriveva Skinner in Walden due – è perché si tollerano comportamenti socialmente non costruttivi: intervenendo non sull’individuo, ma sui contesti sociali, sarebbe possibile portare dolcemente gli uomini ad apprendere i pattern di comportamento adatti, suggerendo “gentilmente” la scelta migliore per il benessere collettivo (la recente fortuna della teoria del nudging, con le sue radicali implicazioni comportamentiste, non è casuale).

Il sistema di «credito sociale» cinese, che correla profilazione di cittadini “buoni” e “cattivi” alla maggiore o minore facilità nel noleggiare un’auto, ottenere prestiti e credito, essere più visibile sui siti di dating, assumere ruoli dentro l’esercito o nel partito comunista, iscrivere i figli a una scuola privata, è già una compiuta incarnazione di questa logica. Vero, precisa Zuboff, nel mondo orientale non esiste nemmeno il concetto di privacy, che da noi pone qualche ostacolo in più all’assorbimento delle soggettività in una società organicisticamente concepita. Eppure anche in Occidente stiamo già correndo il serio rischio che un’automatizzazione condotta secondo questa logica ci imponga un «non contratto sociale», ben mascherato dall’ideologia di una società perfettamente ordinata e integrata, ma fondato in verità su una inedita «asimmetria del sapere»: quest’ultimo è ormai detenuto da aziende private sottratte ad ogni controllo democratico e disponibili a perverse alleanze con le funzioni di sorveglianza più inquietanti del potere politico. Anche se il loro scopo è “solo” quello di riprodurre se stesse e i propri profitti.

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