Ideologici o ecumenici. Il problema John Lennon

Imagine, Ceccardi e una strana idea di ideologia

Lennon Ceccardi Imagine
John Lennon Wall, Praga

Chi l’avrebbe mai detto! Mi tocca apprezzare le parole di Susanna Ceccardi su John Lennon. Rispondendo a una provocazione di Luca Telese, la candidata leghista alla presidenza della Toscana parla di Lennon come di un autore ideologico e non ecumenico, rinnovando, a distanza di anni, la polemica contro coloro che proponevano di sostituire con Imagine i tradizionali canti di Natale. Certo, non condivido l’interpretazione che Ceccardi ha dato di quel classico della musica in diretta televisiva su La7, né tantomeno sono d’accordo sul giudizio di valore che ne consegue.

Eppure, in tempi che si vogliono post-ideologici, in cui sembra interminabile la rincorsa a definirsi né di destra né di sinistra, il modo in cui Ceccardi imposta il suo discorso mi pare condivisibile. Universalmente riconosciuta come una delle più grandi canzoni di tutti i tempi, Imagine è un manifesto, carico di prese di posizioni ideologiche, nel senso migliore del termine. E francamente non comprendo la levata di scudi – da Marco Revelli in diretta a Luca Telese che ci torna ancora su – in difesa del presunto valore ecumenico di quelle parole. Che cosa c’è di male se ai leghisti non piace Lennon? A loro non piace la musica di John Lennon, a noi non piace il giornalismo di Montanelli. L’universo è in equilibrio. Quello di Lennon fu, indubbiamente, un colpo di genio: un manifesto pacifista perfetto per la sua epoca che è anche un capolavoro musicale immortale;  ciò ha fatto di Imagine un pezzo adatto per molte stagioni, anche le più improbabili: immagina un papa reazionario applaudire un inno agnostico!

Il fatto è che quell’«Imagine all the people living life in peace» è così perfetta da lasciare in ombra tutto il resto. Ma davvero non importa che nella stessa canzone si parli di un mondo ideale, senza religioni, né stati, né proprietà privata? Qui Ceccardi la spara grossa – tutt’altro che innocentemente – definendola una canzone marxista o addirittura un inno all’Unione Sovietica.

Lennon Ceccardi Imagine
Central Park, New York, foto dell’autore

Ma Imagine non è il Manifesto del Partito Comunista; manifesto, forse, ma di nessun partito, tantomeno quello comunista. Si tratta piuttosto di una provocazione anarcoindividualista, relativista, financo nichilista. Un anno prima di Imagine, Lennon incide God, in cui dio è definito come un concetto attraverso il quale «misuriamo il nostro dolore» e si lancia in  un elenco di “entità” in cui l’artista non crede: magic, I-Ching, Bible, tarot, Hitler, Jesus, Kennedy, Buddha, mantra, Gita, yoga, kings, Elvis, Zimmerman – cioè Dylan –, Beatles; fa un po’ i conti con il passato e confessa di credere solo in se stesso, e semmai in Yoko Ono. Altro che URSS: «I just believe in me / Yoko and me / And that’s reality». Così capiamo meglio uno dei versi più problematici di Imagine, in cui l’individualismo radicale ed edonista fa sperare Lennon in un mondo in cui non ci sia «nulla per cui uccidere o morire». Quando mi è capitato di discutere con gli studenti questa affermazione, questi rimanevano spiazzati. È davvero desiderabile un mondo in cui non ci sia nulla per cui valga la pena morire? Certo, possiamo azzardare un’interpretazione caritatevole e sostenere che tale sogno si avvererà solo quando la rivoluzione sarà compiuta; nel mondo nuovo non ci sarà più nulla per cui sacrificarsi: Mourir pour des idées non sarà più un’idea così eccitante. Tanto per citare Georges Brassens, un altro cantante anarchico.

Ma, a mio parere, Lennon non parla del futuro, bensì del presente, e con quel verso vuol proprio dire che dobbiamo smettere di uccidere subito ma dobbiamo anche farla finita di giustificare con nobili ideali altri tipi di violenza e sopraffazione. Nel fatidico 1968, all’apice del successo dei Beatles, Lennon aveva scritto la sua canzone sulla rivoluzione ribadendo, senza rischio di essere frainteso che «we all want to change the world» ma anche che «when you talk about destruction / Don’t you know that you can count me out»; del resto, da buon anarchico, Lennon si rivolge al rivoluzionario incitandolo, prima di cambiare il mondo, a pensare con la propria testa: «You better free you mind instead».

E qui l’altro snodo problematico di Imagine: «Imagine all the people living for today». Questo ne fa il più importante e radicale esempio ideologo di edonismo rivoluzionario – ripeto – relativista e perfino nichilista. Chi su quel testo ci ha ragionato, finisce per criticarlo duramente proprio per queste ragioni; nel suo I destini generali (Laterza, 2015), Guido Mazzoni ne parla in questi termini: «questo passaggio storico crea un mondo del tutto immanente, soggetto a un tempo che passa senza tendere a uno scopo superiore, circondato dalla morte e dai suoi avatar: il vuoto, la noia, la transitorietà, il bisogno di rinnovare il piacere per rimuovere il vuoto, la noia, la transitorietà» (p. 60).

«Un figlio dei fiori non pensa al domani» come cantavano i Nomadi in una cover dei Kinks, resa un po’ meno inquietante dell’originale da Francesco Guccini. Cinquant’anni dopo, però, un mondo schiacciato sul presente ci spaventa e ci interroga sull’oggi, in cui proliferano le riflessioni, più o meno moraliste, sui giovani sospesi nell’eterno attimo presente reso possibile dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione dei consumi. Non è colpa di Lennon, certo, ma resta affasciante l’analisi di Luc Boltanski secondo la quale le critiche d’artista di matrice libertaria degli anni ’60 siano in qualche modo state rimasticate e digerite dalle forme contemporanee del capitalismo, legittimandone il “nuovo spirito”. Secondo Leonard Mazzone: «il capitalismo colonizza con sconcertante flessibilità la dimensione individuale racchiusa nelle promesse di emancipazione universale che costellano l’immaginario della critica: il suo nuovo spirito trasforma istanze critiche orientate all’emancipazione collettiva – fondate sul binomio “giustizia sociale e autonomia” – in promesse di liberazione individuale (autonomia senza giustizia)».

La rivoluzione sognata da Lennon non si muove verso nessun Sol dell’Avvenire, ma pretende un po’ di pace e divertimento per tutti, qui e adesso. Se appare facile comprendere il nesso tra l’edonismo radicale e la critica all’autorità, sia essa paterna, statale, religiosa, resta da chiedersi come si concilia tutto questo divertimento – il Fun Fun Fun dei Beach Boys, amici e rivali d’oltreoceano – con l’abolizione delle proprietà privata. Potremmo trovare la traccia di una spiegazione in un coretto, inserito di straforo in un classico di McCartney di qualche anno prima (ci è tornato di recente Leonardo Tondelli nel suo nuovo sforzo enciclopedico). I filologi beatlesiani sono piuttosto concordi nel ritenere che, pur quando inseriti in pezzi inequivocabilmente attribuiti alla penna di Paul, i controcanti di John siano farina del suo sacco. Gli struggenti cori dei genitori della ragazza scappata di casa di She’s leaving home culminano in un criptico «fun is the one thing that money can’t buy». Questo è l’incredibile riassunto della filosofia di Lennon: l’unica cosa che il denaro non può comprare è, udite udite, il divertimento. Ciò che è davvero importante – l’amore, l’amicizia, la pace, il divertimento e poco altro – non ha a che fare con la dimensione materiale dell’esistenza e acquista senso solo in termini assoluti: «Limitless undying love / Which shines around me like a million suns / It calls me on and on and on». Ma questo afflato mistico ripiomba sempre nella materialità della vita in cui ciò che importa non è trovare se stessi – come si illusero tutti partendo per l’India – ma difendersi da dei, patrie e famiglie, magari divertendosi anche un po’.

Insomma, Ceccardi ci ha visto lungo, John Lennon è il contrario dell’ecumenismo: la sua produzione artistica è una continua geniale polemica contro il reale, in cui l’artista se la prende con i suoi nemici, ma anche con i suoi amici, i propri miti e, ovviamente, persino con se stesso: «I was the Walrus / But now I’m John». In ciò paragonabile solo all’altra grande icona della beat generation che, per tutta la sua lunga vita, ha cercato di ribaltare il santino che era diventato; tra l’altro, in un incessante dialogo – a volte a tinte forti – proprio con Lennon. E la porta della nuova epoca, nel recente capolavoro dell’ottuagenario Dylan, la spalancano proprio loro: «Hush, little children, you’ll understand / The Beatles are comin’, they’re gonna hold your hand».

Sarebbe allora il caso di disquisire dottamente se il mondo immaginato da Lennon sia davvero desiderabile e fino che punto, oppure, più sommessamente potremmo canticchiare quel capolavoro ogni volta che assistiamo alle ennesime svolte moraliste, nazionaliste, mistiche, identitarie, paternaliste tanto delle destre – che, come Ceccardi, fanno il proprio mestiere – quanto delle sinistre, e affidarci ad un altro intarsio lennoniano su capolavoro di McCartney, quello sì davvero ecumenico, ma forse non meno ideologico: «Life is very short, and there’s no time / For fussing and fighting, my friend».

John Lennon è ideologico! Evviva John Lennon!

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