Multisegnalazioni #11

Una serie di segnalazioni tra le ultime novità editoriali, tra romanzi working class e saggi sulla black history

 

Storia di Shuggie Bain : Stuart, Douglas, Prosperi, Carlo: Amazon.it: Libri

Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain, Milano, Mondadori, 2021, pp. 521, euro 21, traduzione di Carlo Prosperi

Da tempo il romanzo working class non è più il romanzo da rissa fuori dal pub. A togliere testosterone e ad aggiungere lacrime, sentimenti e punti interrogativi arriva la storia di Shuggie Bain e della splendida Agnes Bain. Sullo sfondo la Glasgow proletaria degli anni in cui Margareth Thatcher impone la sua ricetta neoliberista, producendo tossine, veleni, dipendenze, ferite psicologiche. Difficile rialzarsi. E infatti Agnes non ce la fa. Ma quel bambino che si prendeva cura di lei e dei suoi demoni scriverà la sua storia. Una storia che assomiglia a quella di tante donne del nord della Gran Bretagna distrutte da abusi e traumi. Mi vengono in mente le pagine dedicate alla madre abusata di Chav. Solidarietà coatta di D. Hunter, oppure quelle sulla madre di Darren McGarvey in Poverty Safari: donne working class con vite brevi, che hanno patito nel corpo e nell’anima la durezza di una vita priva di diritti e di privilegi. Ed è fantastico che i loro figli siano almeno riusciti a restituire quelle vite nella scrittura, a prendersi cura di quelle vite con la scrittura. Questo libro di Douglas Stuart, vincitore del Booker Prize, conferma l’eccezionale vitalità della scena letteraria working class scozzese, che ha prodotto – tra tanti – nomi di rilievo come Ali Smith e Irvine Welsh. Il romanzo andrebbe riletto poi in originale, domandandosi se si poteva fare un tentativo, in una traduzione comunque sempre corretta qual è quella data alle stampe da Mondadori, per far sentire di più il peso dello slang di Glasgow. Quello della traduzione della lingua/dialetto/gergo working class non è un problema solo di questo romanzo, ma di tantissimi altri romanzi, soprattutto quelli ambientati in contesti in cui la lingua non è mai il fottuto standard: problema non facile da risolversi, ma bisogna tradurre l’intraducibile, se vogliamo far sentire alle delicate orecchie dei lettori di classe media il ruggito dei palazzi di calcestruzzo in cui vive la classe operaia del grande nord.

F. X. Toole, Million Dollar Baby e altri racconti, Milano, Mondadori, 2021, pp. 288, euro 13, traduzione di Giuseppe Culicchia.

Un tipo bianco a quarant’anni suonati si chiude in una palestra dove sono quasi tutti neri, si infila i guantoni e comincia a picchiare contro il sacco. Un po’ ne prende, un po’ ne dà, diventa quasi un professionista, poi si va venire un infarto, poi ricomincia, poi si mette a scrivere storie di pugilato. Una di queste storie diventa un film famoso, molto bello, diretto da Clint. Un gioco di gambe, una finta, abbassi la guardia, ti scende una lacrima e i racconti di Toole ti arrivano duri al fegato e ti lasciano a terra a scrivere questa recensione.

 

Mark Fisher, Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K-Punk /2, Roma, Minimumfax, 2021, pp. 266, euro 17, traduzione di Vincenzo Perna.

Continua la pubblicazione degli scritti più estemporanei di Mark Fisher. Frammenti che contribuiscono a gettare luce sul processo di formazione di quello che è considerato il suo capolavoro, ossia Realismo capitalista. Dopo gli scritti politici (che ho trovato davvero illuminanti) stavolta è il turno degli scritti dedicati a cinema e musica. Sono fondamentali per comprendere l’approccio dell’autore, che si muove a partire dalla testualità e dalla cultura, considerate quasi sullo stesso piano di quella che i marxisti d’antan chiamerebbero la struttura. L’ultimo tomo, che immagino Minimum Fax darà alle stampe il prossimo anno, sarà dedicato agli scritti letterari e immagino che tutti i devoti lettori di Fisher, come me, non stiano nella pelle. Fucking looking forward to it.

Eric Gobetti, E allora le foibe, Roma-Bari, Laterza, 2021, pp. 136, euro 13

Nel corso degli anni – almeno dal discorso di Violante sui “ragazzi di Salò” la destra ha tentato un’operazione, abbastanza riuscita, di istituzionalizzare un discorso revisionista sulle foibe, trasformandolo in un olocausto di italianità. Con quest’opera Gobetti ricostruisce il contesto delle foibe sulla base dei dati, del metodo storico e delle fonti e sgonfia le farneticanti pretese di chi vede una foiba in ogni atto di resistenza al nazifascismo.

Nadeesha Uyangoda, L’unica persona nera nella stanza, Milano, 66thand2nd, 2021, pp. 176, euro 15.

L’opera di Uyangoda è un perfetto ibrido tra memoir narrativo e pamhplet e segna uno scarto (anche generazionale) tra i primi tentativi di elaborare una narrativa italiana postcoloniale (Ghermandi, Scego, ad esempio) e una più recente presa di parola nell’editoria da parte degli italiani neri. A proposito, italiani neri… afrodiscendenti… italiani senza cittadinanza… persone nere… persone di colore…. ognuna di queste etichette è di per sé, come ogni etichetta, limitante e problematica, tanto che proprio a questo tema l’autrice dedicata pagine molto forti. Tutto il libro ha il vantaggio di spingere in avanti con una lucidità che manca alla maggior parte dei commentatori giornalistici (che non vivono “sulla propria pelle” queste problematiche) la questione della razza, eternamente rimossa in Italia. Al punto che neanche la “bianchezza” degli italiani viene mai problematizzata, anzi, è percepita come un neutro. L’opera di Uyangoda diventa davvero perturbante quando fa esempi spiccioli sul razzismo più o meno involontario dei progressisti. Lì colpisce di fioretto, e colpisce bene. Come fa del resto quando si spinge, alla maniera di David Foster Wallace, nel terreno del gonzo reportage, coprendo alcuni concorsi di bellezze “non caucasiche” (ad esempio, Miss Srilanka) con leggerezza e profondità, riuscendo a destreggiarsi in un universo di creme sbiancanti, neocolonialismo e colorismo. Bravissima.

Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, Roma, Alegre, 2021, pp. 592, euro 20.

Un libro che non si può recensire, né riassumere. Costruito in maniera apparentemente poco centripeta, sembra lanciarsi in mille vie di fuga. E poi lo chiudi e ti rendi conto che è una delle più efficaci stroricizzazioni di quello che abbiamo vissuto tra l’Europa e gli Stati Uniti negli ultimi anni. Dentro c’è il trapassato prossimo e l’imperfetto, Nanni Balestrini e il pendolo di Foucault, Luther Blisset e i satanisti, Charles Manson e Paul is Dead e tante, troppe altre cose per elencarle tutte. Non è debunking. Anzi, il libro nasce proprio dal disagio dell’autore per l’inutilità del debunking (e dall’eterogenesi degli oax, direi), dal fastidio verso l’atteggiamento saccente dei “bucatori” professionali dei palloncini, ossia delle bufale. Piuttosto quest’ultimo libro solista di Wu Ming 1 è un catalogo ragionato del mondo alla rovescia, che reclama a viva voce la forza della scrittura per tornare a incantare il mondo.  E che nelle fantasie di complotto — descritte come strutturalmente funzionali al sistema che pretendono di denunciare — cerca di leggere il sintomo della vita vera nella falsa vita. A margine, è incredibile in quest’opera come la dimensione espositiva del saggio si intrecci con quella poetica e ludica della narrativa (che poi è il fulcro del tema degli UNO, gli Unidentified Narrative Objects, così come enunciato dallo stesso Wu Mung 1). Così, vai avanti per pagine e pagine e ti aggrappi alla carta come in un romanzo ben costruito. Così arrivi alla seconda parte, pensi sia una postfazione, e invece tiene in maniera formidabile, come e anche più della prima parte. E il pendolo della récit continua ad oscillare. Eco ne sarebbe entusiasta.

 

The Care Collective. Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Roma, Alegre, 2021, pp. 124, euro 12, traduzione di Gaia Benzi e Marie Moise

Diceva David Graeber che la working class è sempre stata una caring class: una classe che lavorando doveva prendersi cura degli altri. Giù ai tempi dell’inchiesta di Engels, il proletariato londinese era composto più da domestiche, pulitrici, sarte e lavoratrici che si facevano carico di mansioni produttive negli sweatshops, ossia nel lavoro informale domestico, piuttosto che da operai maschi che lavoravano in fabbrica. Lavoravano in casa e la stanza talvolta era una stanza in uno slum dove le stoffe da cucire si ammucchiavano sui corpi di mariti tubercolotici… di cui bisognava prendersi cura. Oggi la nuova caring and working class è composta sempre di più da donne proletarie razzializzate che si occupano di corpi che non sono i loro, che puliscono case che non sono le loro, che si fanno parlare da parole che non sono le loro. Dobbiamo ricominciare a camminare con questa working and caring class. Che deve diventare protagonista. Non per fare terapia, ma per distruggere le relazioni sociali che ci opprimono. E questo manifesto è un buon punto di partenza.

Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi - Saidiya  Hartman - Libro - Tamu - | IBS

 

Saidiya Hartman, Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi, Napoli, Tamu Edizioni, pp. 332, euro 18, traduzione di Valeria Gennari

Tamu Edizioni è una piccola firma editoriale che sta traducendo in italiano libri importantissimi. Il tema della black history anche in Italia si sta consolidando lentamente e le grandi editrici hanno i soldi per navigare l’onda in prima fila, ma il lavoro migliore lo fanno per ora piccole etichette indipendenti come questa splendida libreria/case editrice napoletana. Dopo un saggio meraviglioso di bell hooks (che ci ricorda che l’unico pensiero intersezionale deve essere anche working class, altrimenti non è davvero intersezionale) stavolta Tamu manda in tipografia un perturbante saggio/memoir sul tema della genealogia e della memoria della donna schiava. Un libro che attraverso la rotta atlantica con pagine di lacerante bellezza.

Marco Romito, First-generation students. Essere i primi in famiglia a frequentare l’università, Roma, Carocci, 2021, pp. 211, euro 22. 

In ambito anglosassone da tempo ci si interroga sui percorsi di accesso e di successo universitario degli studenti provenienti da un background working class. Finalmente Marco Romito riesce a introdurre questo tema anche nel dibattito italiano. Un tema fondamentale, visto quanto spesso si solleva il tema della meritocrazia e quanto poco quello, più consistente, del capitale culturale, di cui non tutti gli studenti godono alla stessa maniera.

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