Alcune riflessioni sulla figura di Angelo Del Boca e la complessa eredità che ci ha lasciato.
Ricordo bene il mio primo, vero, incontro con Angelo Del Boca. Avvenne all’incirca nel 2010 nei corridoi di una magnifica biblioteca costruita alla fine degli anni 20, la Brotherton Library, a Leeds, fondata grazie ad una ingente donazione di Edward Brotherton, che nel 1927 diede all’università 100,000 di sterline (più di 7 milioni e mezzo di attuali euro), per costruirvi la prima biblioteca.
I libri di Del Boca li scoprii lì, nel main ground floor 1 della biblioteca, e in quella sezione un po’ buia e senza finestre, ho trascorso mesi che sono diventati anni, a leggere e a studiare il colonialismo italiano. Il primo anno di lettura non è stato facile, e sono stati i libri di Del Boca in particolare, insieme a quelli di altri, a creare i maggiori disagi. Il suo stile di scrittura accessibile, la sua voce quasi udibile nel testo, mi poneva davanti a fatti gravissimi. Le fonti consultate e minuziosamente analizzate dallo storico, mi venivano riproposte in tutta la loro brutalità.
Leggere Del Boca, inoltre, suscitava in me anche un senso di vergogna, causato dal non aver avuto prima l’opportunità di conoscere di quella Storia, così importante per la comprensione del tessuto culturale italiano moderno. Com’era possibile che di colonialismo italiano, nei miei anni scolastici, ne avessi sentito parlare a mala pena? Perché non avevo mai avuto modo di studiare figure come Angelo Del Boca e la sua immensa opera di ricerca? Perché il colonialismo è ancora considerato una breve parentesi, un passaggio del curriculum scolastico su cui è possibile sorvolare invece che un tassello fondamentale di storia italiana?
Forse queste domande rientrano all’interno di un quesito più grande che Del Boca si pone, e ci pone. Una domanda apparentemente semplice ma incredibilmente scomoda: gli Italiani sono brava gente? Riflettere seriamente rispetto a una domanda simile significa ammettere che ci sia, da qualche parte, un nervo scoperto particolarmente sensibile, che necessiti cura. Significa mettere in discussione un mito assolutorio, celebrativo e fittiziamente innocente in grado di coprire memorie difficili da rispolverare e che non si vogliono ricordare. Un (finto) mito, un artificio fragile e ipocrita, scriveva Del Boca, che non dovrebbe avere alcun diritto di cittadinanza.
Eppure un mito, questo, che per alcuni ancora definisce l’italianità. Perché tutto sommato come si può essere brava gente e aver creato campi di concentramento e sterminio in Somalia, e in Eritrea? Come si può aver torturato e deportato in massa parte della popolazione della Cirenaica e aver causato la morte di 100,000 persone per stenti? Come ci si può definire innocenti ed aver usato gas quali iprite, fosgene e arsina contro truppe di resistenza e civili in Etiopia? Ha ragione del Boca a definirlo un mito duro a morire perché la messa in discussione di questo mito obbligherebbe, inevitabilmente, una riflessione seria e certamente non facile di un passato che aleggia tra noi.
La figura di Angelo Del Boca però mi ha anche insegnato a riconoscere ed accettare, con difficolta lo ammetto, le complessità sociali di cui siamo intrisi come parti integranti del nostro vissuto e, dunque, presenti nel nostro lavoro di ricerca. Non si può pensare di essere soggetti invisibili, o ancora peggio soggetti neutri, rispetto al sapere che produciamo e Del Boca ce lo ha dimostrato. In una delle sue ultimissime interviste, infatti, riguardo la vicenda di Montanelli e la “sposa” bambina Desta’, Del Boca difende l’amico/nemico da accuse di razzismo e pedofilia, definendo l’atto un elemento di fraternizzazione e integrazione verso gli “indigeni”.
E proprio in queste affermazioni capiamo come il grande storico sia anche un uomo bianco, di grande sapere e potere intellettuale, immerso in logiche di produzione del sapere, maschili eurocentriche ed eteropatriarcali. Il razzismo e l’idea di razza, anche se spesso nominati nel lavoro di Del Boca, non riescono ad essere presenti in maniera sostanziale. I personaggi dinamici e complessi del suo mondo sono maschi, eroi o criminali che siano, mentre le donne come Desta’, cosi come le statue “stupidamente” abbattute, sembrano essere collocate in una dimensione fissa e immutabile, legate al “loro tempo”. Ed è forse questo l’insegnamento maggiore che si può trarre dal lavoro inestimabile ma situato di Del Boca: imparare a risignificare il sapere.