Disalienare la scuola: bell hooks, l’istruzione e la libertà

Una recensione all’opera della femminista e docente statunitense bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà edito in Italia da Meltemi.

bell hooks

Sul muro di fronte alla scuola media dietro a casa mia campeggia una scritta dalla chiarezza quasi matematica: DAD = ALIENAZIONE. Quale formula potrebbe riassumere più efficacemente i problemi attuali della scuola? Certo, ci voleva una pandemia per scoperchiare le difficoltà già presenti e ora ingigantite, in primis, dalla chiusura delle scuole e dal ripiegarsi della didattica nelle lezioni davanti al computer, con tutte le implicazioni nefaste dal punto di vista pedagogico e relazionale. Si è detto che finalmente appare evidente e innegabile l’importanza ineludibile della scuola per un progetto di crescita di un intero paese, per la vita in senso pieno di bambini, bambine, ragazzi e ragazze, e anche chi fino a due giorni prima mai si era pronunciato sull’argomento non esita a sostenere che le scuole aperte sono una necessità assoluta, fosse anche solo per gli impedimenti che la DAD genera nelle famiglie (per le madri soprattutto).

A fronte di voci che gridano da diverse parti, è sicuramente presto per fare un bilancio che sancisca se questo dibattito è davvero linfa vitale per la scuola o è solo il riflesso di interessi egoistici e parziali. Tuttavia sarebbe senza dubbio sbagliato non tirare l’acqua al proprio mulino provando a trasformarlo in una buona occasione per riflettere su quei problemi che, esistenti da tempi che ben precedono la DAD, non hanno fatto altro che amplificarsi con le casse di risonanza pandemiche.

Così hanno fatto la casa editrice Meltemi e le curatrici dell’edizione italiana dell’opera di bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, originariamente pubblicata negli Stati Uniti nel 1994, tradotta da feminoska in un momento particolarmente propizio per pensare la scuola e l’educazione, liberarle dall’alienazione – termine che non a caso ricorre spesso nell’opera – anche alla luce del netto inasprimento dei conflitti di genere, razza e di classe generati dalla pandemia globale.

All’anagrafe Gloria Jean Watkins, bell hooks (pseudonimo che vuole la lettera minuscola proprio per sfidare la solidità massiccia dell’identità) è un’attivista, scrittrice e docente statunitense nera, una delle pensatrici più interessanti all’interno del panorama di studi che unisce le lotte di classe, femministe e antirazziste e che costituisce il cuore pulsante della sua attività intellettuale e di insegnamento. Già presente in Italia con l’opera Elogio del margine pubblicata da Feltrinelli alla fine degli anni ‘90, il nome di bell hooks riappare ora con questa raccolta di scritti che seguono il filo della «pedagogia impegnata» o «pedagogia radicale», frutto delle riflessioni sulla sua pratica di insegnante donna e nera in un mondo accademico prevalentemente maschile e bianco.

Il testo può essere letto a diversi livelli, ma sicuramente non può non colpire, soprattutto se chi legge opera nel mondo dell’insegnamento, quel senso di liberazione dai tecnicismi che si respira sin dalle prime righe, anzi, sin dall’esergo che, riprendendo le parole del pedagogista brasiliano Paulo Freire, invita a «rifiutarsi di burocratizzare la mente». In effetti, ogni pensiero sulla scuola dovrebbe inaugurarsi sotto questo auspicio, a maggior ragione se mettiamo al centro dell’interesse la scuola multiculturale o, più in generale, la didattica inclusiva, termine che nelle pagine dell’opera riacquista quella pienezza di senso persa dopo anni di appiattimento a uno sterile imperativo, accompagnato da anonime pratiche burocratiche, sigle scioglilingua (PEI, PAI, PIA, PDP, PFP. Etc.) e corrispondenti moduli in cui incasellare il “diverso”.

Ad alimentare la forza dell’opera di bell hooks è l’intreccio con la prospettiva del black feminism, attraverso cui emerge chiaramente come la classe, e in generale i luoghi dell’istruzione, siano il teatro degli antagonismi di razza, sesso e classe. La «pedagogia impegnata», l’insegnamento come «pratica della libertà» consistono infatti nel liberare l’amore per il sapere a partire da queste esperienze e dando voce a tali antagonismi, spezzando il mito del docente disincarnato, pura mente separata dal corpo, che – presente anche dietro gli intenti più progressisti e probabilmente oggi ancora più accentuato dall’insegnamento online dematerializzato – di fatto riproduce e conferma le dinamiche di potere attraverso il suo ruolo istituzionale. Può riuscire tutto ciò? Non è detto, anzi l’autrice presenta a più riprese i propri “fallimenti”, molte volte dettati da ragioni indipendenti dagli sforzi individuali, quali ad esempio – tema più che mai attuale – il sovraffollamento delle classi («Le classi sovraffollate sono come edifici sovraffollati: la struttura può crollare», p. 194). Proprio per questo bell hooks prende molto seriamente la paura dell’insegnante nell’adottare pratiche pedagogiche innovative, impegnate, che danno voce agli studenti e alle studentesse: il timore di non svolgere tutti gli argomenti del programma, di perdere il controllo della classe o di indebolire la propria autorevolezza sono aspetti reali della pratica dell’insegnamento in quanto atto politico radicato nell’esperienza di individui incarnati. Seguendo la lezione femminista, bell hooks parte da sé, dal proprio posizionamento e dal proprio desiderio, articolandolo alla necessità costante del pensiero critico: solo così la scuola, o l’accademia, possono diventare reali comunità di apprendimento, luoghi di solidarietà educativa e professionale.

bell hooks

C’era bisogno, ora, di una riflessione femminista sulla scuola? Decisamente sì, e ancora di più nel momento in cui la pandemia ha messo in luce come a pagare il prezzo del lockdown e della chiusura delle scuole siano state soprattutto le donne, giacché principalmente su di esse è gravato il compito di conciliare la propria professione con il lavoro di cura, in molti, troppi, casi dovendo sacrificare la prima. Ma non solo: in Italia il mondo della scuola è composto per grandissima parte da lavoratrici donne, eppure, come ricorda la storica Vanessa Roghi in un recente articolo apparso su Internazionale, «Malgrado quello dell’insegnare sia un mestiere che nel secolo scorso è diventato sempre più femminile, non è cambiata affatto la struttura piramidale del mondo dell’istruzione, che fa leva su una base di donne che educano bambini ma che a loro volta studiano teorie elaborate (e spesso insegnate) da uomini». Questo fatto è tanto palese quanto poco oggetto di una riflessione articolata, che sappia leggere e contrastare gli effetti che le discriminazioni di genere –  che pure sono oggetto di insegnamento all’interno della scuola, nell’obiettivo di contrastare la diffusione degli stereotipi e della violenza attraverso l’educazione –   hanno comportato sullo svilimento della professione docente (si veda a tal proposito il rapporto OCSE pubblicato nel febbraio del 2017, Gender imbalances in the teaching profession).  

Se è vero che nessuno ora può negare l’importanza della scuola, e proprio nel momento in cui è necessario cambiarne le pratiche, si rivela dunque quanto mai urgente «un intervento capace di contrastare la svalutazione dell’insegnamento» (p. 40) liberandolo da standard predefiniti e restituendogli le sue emozioni e le sue paure, la passione e la dimensione dialettica della relazione incarnata docente-studente, annullata dagli imperativi burocratici e prestazionali che, paradossalmente, sono ancora più pressanti nella didattica dei tempi pandemici. Solo così la scuola sarà un mondo meno alieno per tutte e tutti.

Print Friendly, PDF & Email
Close