Il dibattito sul matrimonio coloniale di Montanelli rivela la nostra incapacità di capire la violenza razziale.
Si chiamava Desta o forse Fatima, il suo primo marito sembra non ricordarlo. Ed aveva dodici anni o forse quattordici – anche questo è poco chiaro – quando sposò un giovane italiano che si era arruolato volontario per andare in Eritrea in cerca di avventura. Il marito smemorato, tornato nel suo paese dopo aver abbandonato la consorte, sarebbe poi divenuto il giornalista più acclamato nella storia d’Italia; anche dopo la morte, però, quel matrimonio avrebbe continuato a procurargli problemi.
Sull’onda delle proteste per l’omicidio di George Floyd, infatti, associazioni e singoli cittadini italiani hanno chiesto che la statua di Indro Montanelli venisse rimossa dal parco milanese che porta il suo nome, e che il parco fosse altrimenti denominato. Secondo i suoi accusatori, Montanelli è stato un razzista ed uno stupratore di bambine. Le richieste di rimozione, così come il recente deturpamento della statua, non rappresentano soltanto l’ennesimo tentativo di rimettere in discussione la figura del giornalista, ma rimandano alla crescente e diffusa (ancorché tardiva) necessità di confrontarsi con uno scomodo e poco noto passato coloniale. Diversi intellettuali italiani si sono prontamente eretti a difensori della memoria storica di Montanelli e del monumento a lui intitolato, minimizzando la gravità delle sue azioni tramite il ricorso ad un grezzo relativismo storico-culturale, o etichettando le critiche a lui mosse come tentativi maldestri di moralizzazione della storia.
In questa sede non intendiamo discutere del destino materiale dei monumenti (altri, come Igiaba Scego e Maaza Mengiste, lo hanno già fatto); vogliamo invece sottolineare come la difesa di Montanelli e della legittimità della sua unione con Desta appaia sintomatica dei limiti che segmenti non marginali del panorama intellettuale italiano incontrano nel concettualizzare natura e scala della violenza razziale.
Una delle narrazioni più dettagliate della relazione con la dodicenne Desta (che in altre versioni della storia diventa la quattordicenne Fatima) è contenuta in un’intervista televisiva del 1969. La ricomparsa di questo documento sui social media ha contribuito ad inasprire le controversie circa il primo matrimonio del giornalista. Ciò che distingue questo video da testimonianze simili è l’intervento critico, inusuale per quegli anni, di una femminista eritreo-Italiana: Elvira Banotti.
A Montanelli, che racconta sornione di come egli abbia sposato Desta avendola regolarmente acquistata dal padre secondo le consuetudini vigenti, Banotti risponde focalizzando l’incapacità del giornalista di cogliere la violenza intrinseca a questa relazione. Montanelli la rassicura sull’assenza di qualsiasi elemento coercitivo e precisa che per la ragazza il fatto di sposarsi ad un’età tanto giovane si allineava pienamente con la norma culturale. Banotti lo incalza, chiedendo prima se una condotta analoga agita sul suolo italiano sarebbe da considerarsi un caso di stupro, e poi domandando quali distinzioni biologiche o psicologiche sussistano tra una ragazza africana ed una sua coetanea europea. Montanelli ripete che le ragazze locali si sposano a quell’età, ma Banotti replica decisa: “Il vostro era veramente il rapporto violento del colonialista che veniva lì e si impossessava della ragazza di dodici anni… senza assolutamente tener conto di questo rapporto sul piano umano”. Montanelli sembra non capire o finge di non capire ciò che a noi sembra l’elemento più significativo di questa critica, cioè il suo porre l’enfasi sul fatto che alla violenza va attribuito un valore costitutivo nell’ambito delle complicate relazioni intime intessute all’ombra delle gerarchie coloniali.
La legittimazione di una relazione sessuale con una dodicenne si realizza, in questo video così come in simili documenti, ricorrendo a precise pratiche discorsive il cui comune denominatore è la deumanizzazione del soggetto coloniale. Desta è ridotta a tutti gli effetti al rango di merce: viene letteralmente comprata dal padre e, quando il giovane Montanelli ritorna in Italia, viene ceduta ad un altro soldato. Nella descrizione del giornalista, i sentimenti, i bisogni e la voce della ragazza sono totalmente obliterati; la sua individualità è rappresentata soltanto in termini strumentali: Desta lava la biancheria del giovane Montanelli e, ovviamente, fornisce indispensabili servizi sessuali. Su quest’ultima funzione Montanelli non ci risparmia particolari scabrosi, alludendo all’infibulazione della ragazza, agli sforzi virili dispiegati per superare questo ostacolo, ed al “brutale intervento della madre” grazie al quale egli è riuscito a consumare un rapporto sessuale nel quale, precisa, la ragazza non provò mai piacere a causa degli interventi subiti. Desta, infine, è posta in marcata continuità con la sfera del naturale: Montanelli la descrive impietosamente come un “animaletto docile”, aggiungendo che gli ci volle del tempo per abituarsi all’odore caprino della ragazza.
La giustificazione delle inclinazioni sessuali del maschio italiano nelle colonie persiste nei dibattiti giornalistici attuali. Marco Travaglio, che da molti è considerato allievo ed erede di Montanelli, si è schierato dalla parte del maestro mutuandone, nell’articolazione della sua linea difensiva, l’impianto relativistico: Montanelli era un uomo del suo tempo, non uno stinco di santo, ma certamente non un razzista né tantomeno uno stupratore.
Ciò che troviamo maggiormente preoccupante è il fatto che, allo scopo di corroborare questa sua posizione, Travaglio citi una recente intervista ad Angelo Del Boca il quale, come è noto, ha scritto alcune delle pagine più importanti sulle atrocità compiute dall’esercito occupante nelle colonie, contribuendo alla demistificazione dello stereotipo “Italiani brava gente”. In questa intervista, Del Boca scagiona Montanelli da qualsiasi accusa di razzismo suggerendo che sposare una ragazza così giovane fosse non solo “normale”, ma rappresentasse una tipologia di relazioni strategicamente funzionali alla “fraternizzazione” tra Italiani e popolazioni locali. Per Del Boca, chi è razzista non sposerebbe mai una donna delle colonie; in una fase successiva del colonialismo, infatti, i razzisti veri proibiranno le relazioni tra uomini italiani e donne africane al fine di preservare la purezza della razza.

Interpretare il comportamento di Montanelli come un tassello di un grande progetto di integrazione basato sulle politiche matrimoniali, però, ha senso soltanto in una visione strettamente legalistica della violenza di stato. Per Del Boca, infatti, tale violenza si manifesta quasi esclusivamente nella cornice dell’aggressione militare ed in riferimento alla violazione di trattati come la Convenzione di Ginevra della quale il fascismo s’è reso responsabile. In questo schema interpretativo non vi è spazio per l’identificazione delle forme più intime, pedestri e meno visibili che la violenza razziale può assumere negli spazi domestici – spazi comunemente, ma erroneamente, concepiti come estranei alle logiche statali.
Per Del Boca esiste un “prima” – parentesi temporale nel corso della quale i matrimoni misti promuovevano l’integrazione tra i popoli – ed un “dopo” – dove la loro proibizione segnava inequivocabilmente la drammatica transizione verso il razzismo istituzionalizzato. Un rapido esame della storia delle unioni miste note come madamato o concubinaggio, però, complica questa cronologia e rivela continuità storiche all’insegna del razzismo tra le varie fasi del colonialismo. Tale esame rivela inoltre importanti legami tra stato, parentela ed ideologie razziali, spesso assenti, o soltanto marginalmente considerati, tanto nel dibattito su Montanelli quanto in altre discussioni mainstream sul razzismo italiano.
Durante le prime fasi del colonialismo, i governi liberali tolleravano vari tipi di unioni miste, più o meno formalizzate, che prevedevano diritti limitati per prole e coniuge locale. In linea di massima, però, gli stessi governi dimostravano un atteggiamento assai meno incoraggiante nei confronti dei matrimoni civili, che, ai soggetti già citati avrebbero consentito la fruizione di garanzie legali ben più ampie. Le politiche liberali in materia di unioni miste presero forma in un contesto in cui le donne italiane, la cui presenza fu limitata specie nelle prime fasi del colonialismo, non potevano soddisfare i bisogni sessuali dei coloni né la pressante richiesta di lavoro domestico. Ad un livello più pratico, inoltre, lo stato incoraggiava una tipologia monogamica di concubinaggio allo scopo di prevenire quelle epidemie di malattie veneree che presentavano un problema particolarmente allarmante per un’ampia popolazione di uomini single o senza partner a seguito. In sintesi, piuttosto che dai fantomatici piani di métissage illuminato ai quali Del Boca sembra alludere, le pratiche relazionali che abbiamo discusso scaturivano da esigenze ed urgenze prettamente pragmatiche e concrete.
Nonostante le ideologie razziali di questo periodo fossero meno rigide di quelle successivamente partorite negli anni del fascismo, esse già collocavano le donne africane su un gradino più basso rispetto alla loro controparte europea. Per alcuni studiosi dell’epoca, le genti del Corno d’Africa costituivano una popolazione distinta dagli abitanti dell’Africa Sub-Sahariana e più simile alle popolazioni di estrazione mediterranea rispetto alle quali, tuttavia, restavano segnatamente inferiori. L’istituzione del concubinaggio, diversamente da quanto Del Boca lascia intendere, era dunque basata su una concezione delle donne Africane come razzialmente e sessualmente subordinate, surrogati infelici delle superiori, ma non fruibili, donne bianche italiane.
Le politiche che regolavano il madamato subirono una drammatica svolta durante il fascismo che introdusse significativi mutamenti nelle ideologie razziali. Anche per giustificare l’invasione dell’Etiopia, il governo fascista si propose di ridefinire gli abitanti del Corno d’Africa come portatori di una forma di alterità assoluta ed incommensurabile. Conseguentemente, le leggi razziali del 1937 proibirono le relazioni sessuali tra razze diverse e, pure se dal punto di vista pratico fu difficoltoso far rispettare questo divieto, appena un anno dopo fu decretata la proibizione dei matrimoni misti. Nel 1940, infine, le leggi razziali vennero ulteriormente estese privando i figli delle unioni miste della possibilità di acquisire la cittadinanza italiana e spogliandoli definitivamente dei diritti che, pur se provvisori e parziali, erano già stati loro riconosciuti in epoca liberale. Oggi simili ansie legali animano i dibattiti sclerotici sullo ius soli, sebbene nel discorso pubblico sul razzismo Italiano contemporaneo si tenda ad ignorarne le continuità genealogiche con le ideologie razziali di stampo coloniale.
È innegabile che vi furono unioni miste basate sull’affetto reciproco. Tuttavia, da un punto di vista più ampio, leggi e politiche razziali di tutte le fasi del colonialismo istituzionalizzarono ipso facto la subordinazione delle donne colonizzate – donne che, a seconda del periodo storico, potevano essere acquistate, cedute ed usate, ma alle quali non era generalmente riconosciuta la possibilità di pretendere compenso e giustizia per i maltrattamenti ed i crimini sessuali di portata sistemica che esse subivano. Il ragionamento di Montanelli è sotteso proprio da questa forma di oggettivazione.
Dalle interviste e dagli scritti di Montanelli che abbiamo preso in considerazione non emerge alcun cenno al fatto che la sua relazione con Desta fosse romanticamente connotata o fondata sul reciproco affetto. Altrettanto difficile risulta enucleare dalle citate fonti un qualche segnale di rimorso. Vogliamo però concludere ampliando le nostre considerazioni al di là dei sentimenti e delle inclinazioni individuali. Infatti, concentrandosi sulla dimensione più personale del soggetto Montanelli, molti recenti dibattiti rischiano di oscurare il fatto più significativo che la generalità degli italiani non ha ancora iniziato a confrontarsi, in modo rigoroso e profondo, con il retaggio razzista del paese e, fatto ancora più preoccupante, con i riflessi e con i sedimenti di quel recente passato coloniale che ancora gravano sul tempo presente. Consideriamo, per esempio, il destino della moltitudine di figli nati da unioni analoghe a quella di Montanelli e Desta. Molti di loro furono abbandonati dalla brava gente italiana negli orfanotrofi delle ex-colonie, senza possibilità di accedere ai diritti sanciti dall’ordinamento normativo italiano; di tali diritti furono ampiamente privati anche coloro che rimasero a vivere con le loro madri. I figli formalmente riconosciuti furono un’esigua minoranza e, in molti casi, per usufruire appieno dei privilegi legali garantiti dalla discendenza, essi dovettero migrare, amputarsi delle proprie radici, e separarsi dalle loro madri africane.
Equiparare dunque l’etica con la legalità, come alcuni difensori di Montanelli hanno fatto, rivela l’incapacità di cogliere le varie forme della violenza razziale nel contesto coloniale. Un’etica che ignora le responsabilità degli uomini italiani e silenzia la voce dei colonizzati si configura come una copertura dell’abuso di potere esercitato che, di fatto, contribuisce ad impedire ancora oggi che riflessioni mature ed organiche su razzismo ed antirazzismo comincino a far parte di un discorso comune.

Elvira Banotti, che ha prestato la sua voce a Desta quando questa risultava assente nella narrazione di Montanelli, era ella stessa il prodotto di una di quelle unioni che abbiamo descritto. Riflettendo sulla scomoda eredità coloniale Italiana, Banotti pone domande semplici ma tuttavia cruciali, obbligandoci a considerare che, col beneplacito della legge, dello Stato e della società, come molti altri militari italiani in terra d’Africa Montanelli comprò ed ebbe rapporti sessuali con una bambina, azioni che, se realizzate sul suolo Italiano, anche la legge e la morale di quel tempo avrebbero giudicato e sanzionato con grande severità. Per Banotti solo il colore della pelle di Desta spiega come Montanelli abbia potuto raccontare queste vicende senza mostrare rimorso, pubblicamente ed impunemente.