Riflessioni sull’economia e sul vivente. Traduzione a cura di Nicola Perugini, Gabriele Proglio e Francesco Zucconi.
Che sia il risultato di un atto intenzionale o che sia del tutto casuale, il Covid-19 ha confermato una serie di intuizioni che in molti avevano ripetuto nell’ultimo mezzo secolo, spesso senza essere ascoltati.
La prima riguarda lo statuto e la posizione della specie umana. In effetti, non siamo gli unici abitanti della Terra, né ci troviamo al di sopra degli altri esseri. Siamo attraversati orizzontalmente da interazioni fondamentali con microbi, virus, forze vegetali, minerali e organiche. Meglio ancora, siamo in parte composti da questi altri esseri. Essi ci decompongono e ci ricostituiscono. Ci fanno e ci disfano, a partire dal nostro corpo, dai nostri habitat e dai nostri modi di esistere.
Così facendo, non solo rivelano in quale misura la struttura e il contenuto delle civiltà umane poggi su fondamenta complesse ed eminentemente fragili. È la vita stessa, nella sua anarchia e in tutte le sue forme, a essere vulnerabile, a cominciare dai corpi che la ospitano, dal respiro che la diffonde e da tutte le forme di nutrimento senza i quali finisce per appassire. Questa vulnerabilità di principio è la caratteristica della specie umana. Ma essa è anche condivisa, in diversa misura, da tutti coloro che popolano questo pianeta e che una serie di poteri minacciano di rendere, se non inabitabile, almeno inospitale per buona parte di essi.
Una catena planetaria
Per chi ha la tendenza a dimenticare, l’epidemia ha ricordato il disordine, la violenza e le ingiustizie che strutturano il mondo.
Nonostante i progressi fatti in diverse occasioni, la “pace perpetua” invocata da Immanuel Kant rimane ancora un miraggio per molti popoli. Oggi, come in passato, la sovranità e l’indipendenza di molte nazioni sono protette e garantite dal meccanismo della guerra, cioè dalla possibilità di spargere sangue in modo sproporzionato. Questo è ciò che si intende con l’espressione eufemistica “equilibrio tra le potenze”. Siamo lontani dall’aver stabilito un ordine internazionale di solidarietà, con un potere organizzato che trascenderebbe la sovranità nazionale. Allo stesso tempo, il ritorno agli imperi autarchici non è nient’altro che un’illusione.
D’altra parte, la tecnologia, i media, la finanza – in breve, una costellazione di forze fisiche, naturali, organiche e meccaniche – stanno tessendo punti e marcando fratture tra tutte le regioni del mondo.
Ignorando i confini dello Stato o, paradossalmente, facendo affidamento su di essi, sta emergendo e consolidandosi una catena planetaria molto diversa dalle cartografie ufficiali. È fatta di intersezioni e interdipendenze e non coincide con la “globalizzazione”, almeno nel senso in cui il termine è stato usato a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica. Si tratta piuttosto di un Tutto frammentato, che intreccia reti, flussi e circuiti che vengono costantemente ricomposti a velocità variabili e su più scale. Questo Tutto è il risultato di vari intrecci, a partire da quello tra la sfera dell’umano e della natura e dai loro rispettivi confini. Disegna una griglia del mondo fatta di estremità multiple e di una moltitudine di nuclei grandi e piccoli. Nessuno è a parte. Tutti servono, in un momento o nell’altro, come relè per la circolazione rapida di vari tipi di flussi.
Certo, non tutto si muove allo stesso ritmo. Ma oggi la mobilità e la velocità governano l’esistenza planetaria nelle sue molteplici varianti: terrestre, marittima, aerea, satellitare o via cavo. In movimento non sono soltanto i flussi di capitale. Anche gli esseri umani, gli animali, gli agenti patogeni e gli oggetti si muovono. La mobilità riguarda anche tutti i tipi di beni, di dati o informazioni. Le materie prime sono estratte qui per subire una prima emendazione poco più in là. Ancora più avanti avviene l’assemblaggio delle componenti. Ma per quanto discontinui possano sembrare, i processi sono spesso gli stessi, dal cemento più grezzo all’astrazione più eterea. Insomma, a poco a poco emergono complessi planetari la cui caratteristica è quella di variare le scale e di operare in reti più o meno spazialmente discontinue.
Il modo in cui si manifestano queste catene si caratterizza per una certa quantità di caos. Se non sono controllate, il loro sviluppo e la loro espansione rischiano di accelerare la brutalità e di condurre a una crisi irrimediabile nei rapporti tra l’umanità, i suoi strumenti e il resto del vivente.
Il sangue proibito
Il Covid-19 ha di fatto messo in luce uno dei tragici fondamenti di qualsiasi ordine politico e, senza dubbio, quello che siamo più inclini a dimenticare. Per garantire la continuità della comunità politica, quali vite possono essere sacrificate? Da chi, quando, perché e a quali condizioni?
Non c’è comunità di esseri umani che non si basi su una qualche concezione del “sangue proibito”, che può essere versato solo a certe condizioni. Al di là di categorie come origine, religione e razza, ogni comunità è infatti costituita non da simili, ma da differenze. La funzione del divieto di sangue è quella di prevenire la divisione interna. Impedisce ai membri della stessa comunità di uccidersi l’un l’altro.
Inoltre, le comunità umane si differenziano l’una dall’altra per il modo in cui, minacciate nella loro esistenza, rispondono a questo dilemma: di chi ci è permesso di liberarci affinché il corso della vita non si fermi e il maggior numero di vite sia risparmiato? È possibile compiere un simile sacrificio senza un inasprimento delle lotte interne, senza la dissoluzione del legame sociale e la distruzione dell’unità politica?
Nel passato prossimo, le epidemie e carestie hanno, a intervalli più o meno regolari, portato questo dilemma in primo piano nelle decisioni sovrane. Le guerre, in particolare, erano il tipo di evento storico che richiedeva il sacrificio di alcune vite per proteggerne altre e persino per farle prosperare. Si tratta di conflitti devastanti che richiedevano l’uso spietato della forza. Si trattava di uccidere nemici accusati di mettere in pericolo l’esistenza della comunità e la sua continuità nel tempo. Ma la guerra è quello che è – uno scambio generalizzato di morte – e chiunque andava all’inseguimento di un nemico si esponeva, così facendo, alla possibilità di cadere sotto le braccia degli altri.
Dal XIX secolo in poi è stato soprattutto attraverso l’economia che si è proceduto al conteggio, all’enumerazione e poi alla pesatura delle vite, e alla conseguente ridistribuzione dei potenziali sacrifici. Karl Polanyi ci ricorda che l’economia e, in particolare, il commercio non sono sempre stati legati alla pace. In passato, dice, “l’organizzazione del commercio era stata militare e bellica. Era un ausiliario del pirata, del corsaro, della carovana armata, del cacciatore e del viaggiatore, dei mercanti di spade, della borghesia urbana armata, degli avventurieri e degli esploratori, dei piantatori e dei conquistadores, dei cacciatori di uomini e dei mercanti di schiavi, degli eserciti coloniali” (Grande Transformation. Aux origines politiques et économiques de notre temps, 52).
Al giorno d’oggi, la vita non è soppesata in relazione alla parte di debito, di giustizia e di obblighi morali che definiscono l’appartenenza di ogni persona alla società. Essa viene pesata sulla base di una serie di calcoli. Questi calcoli derivano da una stessa fede e da una stessa convinzione. La società non ha più autonomia in quanto tale. È diventata una mera appendice del mercato. È questo il grande dogma e la grande scommessa del nostro tempo. Secondo questa scommessa, il guadagno e il profitto del commercio (o talvolta della conquista) prevale in ogni circostanza su tutti gli altri motivi umani. Qualsiasi guadagno è il risultato della vendita di una cosa o di un’altra. I prezzi di mercato regolano l’esistenza.
Inoltre, ogni vita umana è una probabilità e il calcolo delle vite è simile al calcolo delle probabilità. In questo calcolo si tiene conto solo del requisito di efficacia. Inoltre, la vita esiste solo se può essere spesa, ed è accettando di perdere qualche vita che la vita dei molti può essere assicurata. Nella misura in cui l’Antropocene segnala il nostro ingresso in una nuova era virale e patogena, la questione di quali corpi possono contaminare la comunità e quali vite possono essere deposte per assicurare la vita dei molti, rischia, così facendo, di diventare l’oggetto privilegiato della politica nel prossimo futuro.
Il neomalthusianesimo e il diritto al futuro
La cosa più grave è la velocità con cui l’umanità sta distruggendo lo strato di ozono. È la concentrazione di anidride carbonica, protossido di azoto e metano presente nell’atmosfera. E che dire delle polveri estremamente pesanti, delle emissioni di gas tossici, delle sostanze invisibili, dei microgranuli e delle particelle di ogni tipo? Presto ci sarà più anidride carbonica nell’aria che ossigeno. Per l’Africa, in particolare, si può parlare dell’esaurimento degli stock ittici, il degrado delle mangrovie, l’aumento dei flussi di nitrati e l’alterazione delle zone costiere. È anche della svendita delle foreste, della diffusione dell’agricoltura, dell’artificializzazione dei suoli, della perdita di specie rare. In breve, si tratta della distruzione della biosfera.
Niente di tutto questo è casuale. Al contrario, è l’inevitabile risultato di un modello di estrazione e di spreco della ricchezza della Terra, portati avanti mediante la costante e ininterrotta combustione dei carburanti fossili, in un sistema tecnico e industriale planetario fatto di interconnessioni globalizzate. L’umanità non sopravvivrà se continuerà a funzionare sulla base di una combustione continua di masse gigantesche di energia che devono essere attinte sempre più in profondità, fin dalle viscere della Terra.
Dato lo stato della Terra, è quindi probabile che eventi paragonabili al Covid-19 si ripetano in un futuro relativamente prossimo. Con l’espansione della monocoltura, l’industrializzazione dei mercati della carne, l’intensificazione del rapporto tra la specie umana e le altre specie e la catastrofe climatica, presto appariranno nuove generazioni di pandemie. Poiché ognuno di questi eventi contemplerà in ultima analisi la possibilità della nostra distruzione, susciterà grandi paure accompagnate da esplosioni irrazionali. Ancora di più, solleverà, in modo acuto, la questione del diritto di esistere, del diritto di respirare e del diritto a un futuro.
Sempre più spesso, però, il diritto di esistere sarà inseparabile dal suo rovescio, per individuare chi porta i germi della contaminazione o anche chi può essere eliminato in modo che i molti possano sopravvivere. Il grande rischio che stiamo affrontando in questo momento è che decisioni apparentemente sane possano finire per minacciare la sopravvivenza di persone indesiderabili. Questo rischio è alla base sia delle forme che l’economia sta assumendo, sia delle nuove tecniche di governo rese possibili dall’epidemia.
Si sa che nei luoghi più poveri della terra, l’assenza di sicurezza e di presa di responsabilità quando si finisce temporaneamente o per lunghi periodi in miseria è un elemento fondamentale che struttura le lotte quotidiane per la sopravvivenza. Qui, in tempi ordinari, l’uguaglianza davanti alla morte è un mito. Il diritto all’esistenza è senza contenuto tanto che non è associato al suo corollario, il diritto alla sussistenza. Occorre andarsene e spesso andare a cercale lontano, le sussistenze, a dei costi ogni volta elevanti (trasporti incerti, interminabili marcie a piedi durante la giornata, permessi e autorizzazioni di ogni sorta). Bisogna camminare, cercare, negoziare e contrattare senza sosta, a volte migrare, e strapparle, se necessario, con mezzi illegali.
Approvvigionamento e accesso alle sussistenze dipendono dalla capacità di movimento, di potersi spostare, dalla circolazione. Dipendono anche dalla capacità di integrarsi nelle reti sociali di solidarietà, di moltiplicare le alleanze e le appartenenze, di convertire il provvisorio in una risorsa necessaria per la permanenza. Senza l’incontro dei corpi, la loro accumulazione, la loro prossimità, il contatto diretto con altri umani, anche l’affollamento, la lotta quotidiana per la sopravvivenza è persa in anticipo. Non si vince in isolamento psichico, ma in un combattimento corpo a corpo. In queste condizioni, l’immobilizzazione forzata non è solamente una condanna. È anche un modo per esporre una parte importante della popolazione a enormi rischi. Nelle sue componenti più povere, questa fetta di popolazione si trova senza una rete in una posizione tale da non essere supportata da nessuno e allo stesso tempo non è più capace di prendersi cura di sé stessa. Sotto il regime di confinamento, le categorie più vulnerabili della popolazione dovranno confrontarsi con una alternativa ancora più drammatica: obbedire all’ordine di immobilizzazione, rispettare la legge e morire di fame, oppure ignorare la legge, uscire e correre il rischio della contaminazione.
Al momento del deconfinamento, l’alternativa non è più tra il virus e la fame, ma i dilemmi non sono meno acuti. Se prendiamo come punto di partenza la prospettiva delle forze del mercato, il calcolo è il seguente. Bisogna, ad ogni costo, rilanciare l’economia, se necessario a discapito di certe vite. A conti fatti, solo una percentuale piccola dell’intera popolazione morirà a causa dell’epidemia. Presto o tardi, questa frazione di popolazione, altrimenti inattiva o non-occupabile, sarebbe stata inevitabilmente colpita, uccisa a breve termine dal virus o da altri fattori di co-morbidità. Cercare di mantenerla a ogni costo in vita a tutti i costi non è solamente costoso per la società. La sopravvivenza di questa frazione di popolazione sarebbe pagata – si sostiene – in un numero ben più elevato di vite umane. Siccome la rovina dell’economia porterebbe alla dissoluzione della società, un tale costo è insopportabile. Conviene quindi lasciarla morire immediatamente.
In effetti, dal punto di vista del libero mercato, il diritto di esistere o il diritto di sussistere fanno semplicemente parte della speculazione e, di conseguenza, delle fluttuazioni del mercato. Esattamente come le sussistenze, la vita si guadagna, e nessuno la ottiene senza fare nulla. Uno dei modi per ottenerla è di lavorare per un salario. Hanno concretamente il diritto di vivere coloro che ci riescono grazie al loro salario, al loro impiego o al loro lavoro. Il fatto, tuttavia, è che molti di coloro che oggi vorrebbero un lavoro potrebbero non trovare degli impieghi salariati. I mezzi di sostentamento, bisogna determinarli nel pericolo e nell’incertezza.
Il tempo della decisione
Il Covid ha dunque messo in evidenza diversi tipi di degradazione umana e sociale e diversi tipi di assoggettamenti economici. Nell’era del capitalismo digitale, non è più sufficiente immettere sul mercato forza lavoro perché sia acquistata. Il lavoro ha ancora un valore di mercato. Ma di lavoro salariato ce n’è sempre meno per tutti.
Questo è notoriamente il caso in quelle regioni del globo dove il virus sta colpendo le società già vulnerabili, in fase di dissoluzione o ancora sotto il giogo della tirannia. Qui, il governo attraverso la negligenza e l’abbandono è la regola. È qui che si svolgono gli esperimenti (compresi quelli medici) più brutali, al crocevia tra vivente e non-vivente. Qui, d’altra parte, l’economia di mercato ha la tendenza a funzionare come spesa, come spreco e come decluttering. Il sacrificio, in questo contesto, non significa necessariamente un omicidio gratuito. Ma non c’è, alla radice, quasi nulla di sacro. Il sacrificio non mira ad attirare le grazie di nessuna divinità. Esige che ci si faccia contare, che si proceda a degli sconti, che si misuri, che si pesino le vite e che ci si sbarazzi di quelle che, apparentemente, non contano.
Oggi, si suppone che queste politiche di decluttering si inscrivano nell’ordine normale delle cose, e non ci si interroga più su di esse. Piuttosto ci si interroga, oggi, su arriverà il momento della decisione. Quando riusciremo finalmente a capire che un tale sacrificio è socialmente insopportabile? Quando torneremo all’idea che il vivente non ha prezzo? E “senza prezzo” significa che è al di là di ogni misura, significa che non si può essere contati né pesati. Siamo semplicemente incalcolabili.
Che fare?
Dobbiamo quindi fare una pausa, aprire gli occhi, lasciarci andare e prendere la distanza. Domani non può essere solamente una ripetizione di ieri. Ciò di cui l’Africa ha bisogno è una “grande transizione”.
Dobbiamo attaccare radicalmente la logica sociale, politica ed economica dell’estrazione e della predazione. La prosperità non è sinonimo di estrazione indefinita dai corpi umani e dalle ricchezze materiali. Riguarda la qualità dei legami sociali, la sobrietà e la semplicità. L’imperativo oggi è la decelerazione e la liberazione dalla dipendenza. Un tale programma presuppone che lavoriamo insieme, su piccola scala, con delle azioni di riorientamento dell’economia. Questa nuova economia deve essere orientata verso i bisogni locali, quelli di prima necessità. Perché è attraverso la soddisfazione dei bisogni di prima necessità che noi restituiremo a tutti la dignità perduta. La riabilitazione del locale esige, da parte sua, il sostegno delle pratiche di resilienza territorializzate di cui è zeppo il territorio.
L’Africa ha sviluppato, in particolare dal XIX secolo, forme ibride di organizzazione, che si tratti di produzione o di scambi economici. Questa non è una debolezza, ma piuttosto una forza. In larga misura è sfuggita alla dominazione totale sia del capitale sia dello Stato, due forme moderne e potenti che non ha mai smesso di combattere. Dobbiamo, quindi, ritornare alle comunità e alle loro istituzioni, alle loro memorie e ai loro saperi, all’intelligenza collettiva. In particolare, è necessario imparare dal modo in cui una volta esse distribuivano e ancora oggi distribuiscono le risorse necessarie alla auto-riproduzione umana.
Perché, accanto alla società ufficiale, fatta di gerarchie interne, ci sono sempre state società di pari. In questi spazi del comune e del in-comune, le risorse sono generate in modo partecipativo, attraverso sistemi contributivi aperti, che non si limitano alle tasse. Queste società tra pari sono regolate dal doppio principio di mutualismo e di negoziazione sociale. Cosa si può dire, ad esempio, delle molte associazioni di volontariato? La cosiddetta economia informale mostra che molti attori sociali sono guidati dal desiderio di creare qualcosa che sia direttamente utile a coloro che contribuiscono. Guadagnano così da vivere producendo valore aggiunto per il mercato. Lo scambio si traduce nello sviluppo delle comunità che si vogliono far crescere.
L’Africa deve entrare, di sua spontanea volontà, in una “grande transizione”. L’obiettivo di questa transizione sarebbe quello di creare le condizioni per rafforzare gli investimenti sociali. Dobbiamo riconfigurare l’equilibrio tra il mercato e lo stato, quindi tra lo stato e la società, in una prospettiva mutalistica. Per molto tempo, lo stato è stato ed è ancora dominato da una classe di predatori che usano le loro posizioni di potere nella burocrazia per massimizzare i profitti personali. Nella sua formula attuale, lo stato difficilmente reinveste nel mantenimento e nel rafforzamento delle capacità generative della comunità. Dobbiamo uscire da una relazione esclusivamente estrattiva e predatoria con lo stato e immaginare una relazione generativa, che arricchisca il sociale. Questo riequilibrio deve essere fatto in favore di tutti gli strati produttivi della società, a scapito delle burocrazie e delle forze armate formali e informali. Al fine di invertire i rapporti di forza a beneficio degli strati produttivi della società e alle spese di chi vive di rendita, si deve fare affidamento sulle capacità generalizzate di comunicazione che le nuove tecnologie offrono e sul medium universale digitale, a condizione che questo strumento serva ad accrescere le facoltà critiche e le capacità di autorganizzazione, nonché la capacità di creare e ridistribuire la ricchezza.
Infine, non sarà sufficiente reinventare l’economia. Si tratta di re-immaginare la democrazia. Governare non è solamente assicurare la copertura sociale delle popolazioni dinnanzi a crisi e rischi di ogni tipo. È garantire, nei nostri ambienti ecologici, l’interazione più armoniosa possibile tra tutti gli esseri viventi. Questa deve essere la base per rifondare un nuovo contratto che non solo sarebbe sociale, ma che coinvolgerebbe anche gli altri abitanti non umani del pianeta, sia gli individui sia le altre specie. In larga misura, è proprio l’idea della sovranità che dovrebbe essere reinventata. Il biotipo (se non l’ecosistema) dovrebbe diventare il nuovo sovrano, come nelle società africane precoloniali. Il governo degli umani consisteva nel garantire costantemente l’equilibrio del biotopo. Le società umane erano quelle che sapevano accogliere al loro interno tutti gli altri ambienti e tutte le altre specie.