Due mondi e due spazi. Spazio borghese e deserto arcaico nel cinema di Pasolini.

ll saggio di Paolo Lago, Lo spazio e il deserto nel cinema di Pasolini (Mimesis, 2020), affronta l’analisi del movimento spaziale in quattro film di Pasolini quasi coevi: Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e Medea (1970). Il punto di vista di Lago è che gli spazi che si alternano in tutti questi film appartengono a due dimensioni conflittuali. La prima è costituita da geometrie rettilinee e fredde, racchiudenti in spazi oppressivi, cunicolari, e, ove sia presente la campagna, questa è cerea e sbiadita: a queste immagini corrispondono dialoghi precisi, netti, in un italiano senza sbavature, che crea un indifferenziato suono monotono, quasi non udibile, oppure un silenzio di incomunicabilità. La seconda è la dimensione sacra rappresentata come campagna dai colori accesi o come deserto, come luogo aperto e sconfinato, come vulcano o come case di pietra battute dal vento: qui l’esistenza è selvaggia, libera, magica, arcaica e contadina, ed è caratterizzata dal silenzio dei personaggi o dall’uso poetico e dialettale della parola, dalla comunicazione attraverso lo sguardo e l’ascolto, oppure da una sonorità popolare irruente. Come nota Lago, per definire questi spazi in opposizione possiamo utilizzare la terminologia offerta da Deleuze e Guattari in Mille Piani: se il deserto può rimandare al concetto di “spazio liscio” coniato dai due studiosi, uno spazio che sfugge alle griglie del controllo, le ambientazioni borghesi si situano entro la definizione di “spazio striato”, sottoposto alla logica del controllo e del dominio dell’apparato di stato 1.
Come lo stesso autore afferma in un’intervista a Hollywood party su Radio 3 lo scorso 22 giugno, questa opposizione è assai rilevante in Porcile. Il film è infatti costituito da due episodi che mostrano una significativa contrapposizione di spazi: da una parte il deserto arcaico e barbarico, ricostruito sulle pendici dell’Etna, in cui liberamente si muovono il cannibale (Pierre Clementi) e la sua banda; dall’altra gli interni cunicolari della villa di Godesberg (villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia), nei quali la borghesia industriale tedesca degli anni Sessanta, legata agli orrori nazisti, percorre una spazialità geometrica e preordinata che assume le parvenze di un tunnel.
Gli spazi fanno da eco ai personaggi che si muovono nel contesto che la natura o la società assegna loro, e sono anche e soprattutto spazi sociali. Abbiamo in tutti i film lo scontro tra queste due civiltà, il borghese – teppista, colonizzatore, feroce nazista o più semplicemente industriale padre di famiglia – e il ribelle straniero, venuto da un mondo altro, barbaro o contadino, che si affrontano, e uno dei due perisce. Muore Medea (Maria Callas) e muore Julian (Jean-Pierre Léaud), il figlio non ubbidiente dell’industriale tedesco dal passato nazista in Porcile; muore simbolicamente l’industriale di Teorema (anche se questa morte potrebbe prefigurare una rinascita); muore Edipo (Franco Citti), rifiutato dalla borghese Tebe, rappresentata a inizio film come Casarsa, luogo di nascita e infanzia di Pasolini (Edipo re è infatti un film dichiaratamente autobiografico).
L’insinuarsi del deserto spaziale in una civiltà borghese, o viceversa l’avanzamento di una civiltà borghese in una arcaica, provocherà la morte di uno dei rappresentanti di quei mondi senza soluzione di continuità. I due spazi, anche quando sono contigui e vicini, non si fondono mai, anzi si contrastano creando una visione non armonica e stridente dell’ambiente ritratto. Il conflitto di ambientazioni diviene quindi un conflitto di natura sociale e politica: il deserto rappresenta una società arcaica e barbarica, legata all’universo del Terzo Mondo, mentre gli interni borghesi e i colori cerei e freddi delle loro ambientazioni sono la rappresentazione iconica della civiltà del consumismo e del boom economico che Pasolini, negli ultimi anni, attaccava dalle colonne del “Corriere della Sera” con gli Scritti corsari.
Se il deserto africano in cui Pasolini, in Edipo re, riambienta la tragedia di Sofocle, assume dei rimandi alla pittura corporea di El Greco e Delacroix, lo spazio borghese in cui Casarsa e il Friuli vengono ricostruiti in Lombardia possiede in sé dei riferimenti alla pittura metafisica di De Chirico e Sironi. Inoltre, i personaggi che pagano la loro estraneità al mondo borghese sono metaforicamente o realmente stranieri: straniero Edipo a Tebe, straniera Medea in Grecia, straniero al padre il figlio Julian, straniero l’Ospite di Teorema (Terence Stamp) che però, unica eccezione in questi film, come un dio, non subirà la morte, causando invece uno sconvolgimento nelle vite degli altri. Lo straniero viene allontanato o, se dio, sceglierà di andarsene. Un’espulsione forzata o una momentanea presenza che fa tremare il mondo, ma in tutti i casi una incompatibilità originaria.

Medea è il prototipo dello straniero, del barbaro. Il mondo teme le sue arti magiche. Pasolini stesso in una intervista paragona la civiltà di Medea a quella che allora e anche oggi può essere l’Africa. Medea si corrompe, in un primo momento, innamorandosi di Giasone; Julian è corrotto da istinti che – pur non essendo borghesi – sono psicopatici, e il suo mondo di istinti non riesce a essere davvero naturale ma solo mostruosamente bestiale, essendo affetto da zooerastia (ama accoppiarsi con i maiali), così come il cannibale alle pendici dell’Etna. E Edipo si corrompe ascoltando una voce che gli dice di non essere il vero figlio di Polibo; ha creduto alla diceria, non gli basta essere felice a Corinto insieme a Polibo e Merope, ha infranto le certezze dell’amore familiare, è caduto nel dubbio di una colpevolezza a venire, come prima di lui il padre che lo allontanò, come se il futuro appartenesse a questi individui, concezione estranea a quella arcaica. Allora certamente la forza vitale e sacra dell’innocenza di un mondo primitivo, quando non ha possibilità di espandersi, diventa malattia o follia, follia in Medea che uccide i figli, cecità in Edipo, zooerastia in Julian.
Come far convivere i due mondi senza che uno distrugga l’altro oppure si autodistrugga? Dove sono i confini invisibili e come sono diventati gli spazi borghesi oggi?
Forse Pasolini ci invita ad essere come l’Ospite di Teorema, probabilmente il più ottimistico di questi film, dove se si muore si muore per scelta o si rimane borghesi per scelta, o, incontrando oppure no la pace, si continua a vivere. Rispetto agli altri film, Teorema si apre alla possibilità di agire attraverso il linguaggio del corpo, con la poesia (l’ospite legge Rimbaud) e, rimanendo di passaggio in spazi borghesi, ad ascoltare in silenzio, perché questo silenzio da solo scardina le certezze. La dimensione performativa e corporea è infatti assai presente (basti ricordare il postumo Petrolio) nell’opera di Pasolini. E quando ci sdraieremo sull’erba di una campagna industriale, porteremo su questa terra un riflesso più ricco, segnato dal germe del deserto e di arcaici spazi, come fa Edipo alla fine del film o l’Ospite di Teorema.
