Intervista a Milo Rau. Una trilogia teatrale sull’Europa

Il regista svizzero Milo Rau è il fondatore dell’International Institute of Political Murder. La sua ricerca teatrale è caratterizzata da un interesse per il teatro politico e da un’indagine basata su testimonianze storiche dirette. Spesso nei suoi lavori Milo Rau opera una particolare forma di reenactment: una ricostituzione di eventi, estremamente mediatizzati, appartenenti alla memoria collettiva, nel tentativo di ricercare una rappresentazione storica più vicina alla verità, grazie a degli elementi documentari.

Negli ultimi anni ha lavorato su RTLM, una radio che ha fomentato il genocidio dei Tutsi in Ruanda, il processo di Breivik, le ultime ore di Elena e Nicolae Ceauşescu e altri eventi che hanno segnato la nostra storia più recente. In quest’intervista Milo Rau ci parla della sua trilogia sull’Europa, costituita da tre spettacoli teatrali: The Civil Wars, The Dark Ages ed Empire. Un lavoro sui conflitti intestini e le incoerenze europee dove Milo Rau, partendo dalle storie personali dei suoi attori (scelti accuratamente in base alla loro biografia), ha cercato di mettere in rilievo il valore allegorico e collettivo di ciascuna di queste vite.

Camilla Pizzichillo: Quando ha cominciato a riflettere sulla trilogia sull’Europa?

Milo Rau: Nel 2013 ho iniziato questo lavoro. Fin dall’inizio ho capito che sarebbe stato necessario moltiplicare i punti di vista. Il primo capitolo della trilogia, The Civil Wars, rievoca una scena di Cechov e utilizza una prospettiva psicologica, psicanalitica e politica per raccontare la biografia degli attori. Le loro storie personali sono confrontate all’estremismo, alla follia e al neoliberismo. Nella seconda parte, The Dark Ages, la prospettiva diventa più politica. Le biografie degli attori sono segnate dalla guerra in ex-Jugoslavia, dalla seconda guerra mondiale, dalla fine dell’Unione Sovietica, ma la forma resta la stessa: ci sono degli attori che parlano della loro vita, delle loro opinioni, della loro carriera artistica. Tutto è costruito come una partizione musicale: più voci discutono cercando insieme di abbordare gli stessi soggetti. In questa seconda parte è il teatro di Shakespeare ad accompagnare lo spettacolo. Nell’ultima parte della trilogia, Empire, inviteremo degli attori siriani, iracheni, greci e ci baseremo sui classici greci rispettando la stessa forma: raccontare la storia dell’Europa attraverso la memoria degli attori sul palco.

C.P.: Ha già cominciato a lavorare sull’ultima parte della trilogia, Empire?

M.R.: Sì abbiamo iniziato. Stiamo finendo il casting e per ora mi sembra molto interessante: abbiamo un attore siriano che abita a Parigi, un attore greco, un attore iracheno che vive in Germania e la sola donna del casting è l’attrice Maia Morgenstern.

C.P.: Ho letto che prima di fare The Dark Ages ha fatto un lungo viaggio in Bosnia, Croazia e Serbia. Può raccontarmi qualcosa di questo viaggio?

M.R.: È stato per noi un viaggio di ricerca che ci ha permesso di filmare alcuni passaggi per lo spettacolo e di incontrare due degli attori di The Dark Ages: uno durante un casting e il secondo per caso, Sudbin Musić, che è poi diventato la figura principale dello spettacolo. Sudbin è un sopravvissuto dei massacri del 1991 in Bosnia. L’ho incontrato come guida, mi avevano consigliato di fare una parte del viaggio con lui, ma ascoltandolo ho capito che era lui a interessarmi più di tutti gli altri…

C.P.: Durante The Dark Ages ascoltiamo i ricordi personali degli attori. Può parlarmi del lavoro di scrittura per questo spettacolo?

M.R.: Il testo è il risultato di un lungo processo di andata e ritorno. Abbiamo passato delle settimane insieme a dialogare e a discutere. Lavoriamo con diversi assistenti drammaturgi che ritrascrivono tutto, in seguito faccio delle scelte, riscrivo e propongo una prima versione sintetica dello spettacolo, poi ne discutiamo insieme e faccio una seconda, terza e una quarta versione con la quale iniziamo le ripetizioni. Alla fine di tutto questo processo il testo diventa estremamente vero e allo stesso tempo artificiale. Come se gli attori raccontassero e recitassero la loro propria storia. È per questa ragione che scelgo spesso degli attori che sono anche registi.

C.P.: Come ha lavorato con Sudbin Musić, il solo “non attore”?

M.R.: All’inizio temevo che non potesse ripetere certe cose, che non riuscisse a dosare le sue emozioni. È stato difficile, per esempio, tagliare certe parti che riguardavano suo fratello, per le quali non avevo trovato uno spazio adeguato nello spettacolo. Ci sono stati dei momenti di conflitto perché non capiva come potessi fare una cosa simile. È diverso con un attore… Un attore capisce più facilmente che si tratta di un testo teatrale e che anche se stiamo parlando dei suoi ricordi a volte è necessario sopprimerli. Sudbin Musić è un attivista e con la sua Ong di sopravvissuti ha l’abitudine di raccontare la sua storia e di ascoltare le storie di altri ma a teatro è diverso… è stato strano per lui raccontare queste cose su un palco. Nonostante ciò lavorare con Musić ci ha permesso di arricchire il nostro progetto: ha reintrodotto delle domande che normalmente, i professionisti del teatro non si fanno più. Anche Sania Mitrović, malgrado il fatto che sia una regista, ha avuto diversi problemi perché aveva difficoltà ad accettare questo modo di recitare estremamente diretto. Per lei, come regista e artista, essere serba è difficile. Le ferite della guerra non sono ancora rimarginate, e dividere il palco con dei bosniaci è stato complicato per lei. È impressionante come a distanza di venti, venticinque anni dalla guerra ci sono delle questioni che non sono ancora state risolte. Il traumatismo è ancora recente.

C.P.: In The Dark Ages, raccontando la ferocia sulla quale l’Europa si è costruita, mi sembra evocare la violenza con la quale l’Europa protegge le sue frontiere. La questione dei flussi migratori è estremamente presente nel vostro spettacolo…

M.R.: Ho fatto un altro spettacolo, Compassion. L’histoire de la mitraillette, dove parlavo di questi problemi. Abbiamo fatto un viaggio attraverso la Siria, la Turchia, la Grecia e la Macedonia per seguire il cammino dei rifugiati. Mi sono interessato a questa questione ma non ho voluto parlarne in The Dark Ages. Nella terza parte della trilogia sull’Europa, Empire, questa tematica sarà presente. Ma ci tengo a differenziare uno spettacolo prettamente politico come Compassion, dove ho cercato di reagire all’attualità, e la trilogia dell’Europa che cerca di dare una visione più storica e distaccata. Tutto cambia molto velocemente. Io credo nella condensazione operata dal tempo. Dopo vent’anni c’è ancora un punto di vista ma cambia il nostro modo di guardare attraverso il tempo… In Empire parlerò delle frontiere dell’Europa, di quello che è al centro e allo stesso tempo alla frontiera dell’Europa, come la Grecia. Ho voluto di scavare nel passato, nelle tragedie antiche. Abbiamo cercato degli attori che avessero già recitato quelle tragedie e che fossero implicati personalmente nella questione dei rifugiati. È una formula costante di questa trilogia: abbiamo cercato in primo luogo degli attori e in secondo luogo degli attori coinvolti nella nostra storia collettiva. Il fatto che l’Europa si sia costruita grazie a delle guerre e che ora cerca di allontanarsi da queste stesse guerre è al centro di tutta la trilogia, questa stessa trilogia che tenta di allontanarsi sempre un po’ di più dalla “piccola storia” dell’ovest dell’Europa. Questo processo di allontanamento è iniziato con The Civil Wars e terminerà con Empire, dove cercheremo di rimontare fino all’antichità.

Print Friendly, PDF & Email
Close