Memoriali sul caso Tuena

“Memoriali sul caso Schumann”, l’ultimo libro di Filippo Tuena, conclude un ciclo narrativo composto da “Michelangelo. La grande ombra”, “Le variazioni Reinach” e “Ultimo parallelo”, più i racconti di “Stranieri alla terra”. Ecco un percorso fra queste opere, che fanno di Tuena uno dei più interessanti fra gli scrittori italiani, e non solo. 

27 febbraio 1854, Düsseldorf. Robert Schumann, il grande compositore, all’improvviso esce di casa e si getta nel fiume Reno.

Se ci chiedessero di indicare l’evento scatenante di Memoriali sul caso Schumann (il Saggiatore), il nuovo libro di Filippo Tuena, dovremmo probabilmente scegliere questo. La buona notizia è che poi Schumann venne salvato, la cattiva è che non venne salvato: appena riportato a casa, chiese di essere internato nella casa di cura per malati psichiatrici di Endenich. Non ne uscì più.

Poco tempo prima di quel tentato suicidio, Schumann cominciò ad avere allucinazioni auditive, a sentire musica e voci, a vedere fantasmi. Uno di quei fantasmi, diceva il compositore, era quello di Schubert, che gli comunicò una melodia che lui, appena prima di essere internato, trascrisse: le Variazioni del fantasma. La moglie e pianista Clara Schumann e altri, fra cui Johannes Brahms, all’inizio fecero di tutto per nascondere quella musica, data la sua origine oscura. Ma oggi possiamo ascoltarla, e il libro di Tuena ci permette di farlo come se potessimo sentire anche noi quelle voci e vedere quei fantasmi.

Memoriali sul caso Schumann conclude un ciclo narrativo cominciato nel 2001 con Michelangelo. La grande ombra, proseguito nel 2005 con Le variazioni Reinach e nel 2007 con Ultimo parallelo. Possiamo includervi anche i racconti di Stranieri alla terra, del 2012. Questo ciclo di opere, con la sua coerenza di visione e allo stesso tempo le sue modulazioni, è uno dei frutti più interessanti che la letteratura italiana ci abbia dato negli ultimi decenni, ed è per questo che vale la pena osservare Memoriali del caso Schumann ripartendo dalle opere che lo hanno preceduto e, in un certo modo, plasmato.

La grande ombra

Filippo Tuena è nato nel 1953 e ha una formazione di storico dell’arte. Ha esordito nel 1991 con Lo sguardo della paura, in cui un antiquario – lo stesso vecchio mestiere dell’autore – si trova fra le mani delle vecchie lettere che lo condurranno alla scoperta del segreto di un disegno di Michelangelo. Una ventina di anni dopo, Tuena è tornato sulla stessa figura con Michelangelo. La grande ombra, che si è nutrito anche del lavoro di cura di un volume di lettere dell’artista, La passion dell’error mio.

La grande ombra racconta Michelangelo attraverso le voci di una quarantina di personaggi. Quella dell’artista non la sentiamo mai, almeno non direttamente. Parlano dei suoi ultimi anni vita persone che hanno avuto a che fare con lui a diverso titolo: Cosimo I de’ Medici, il nipote, colleghi artisti, garzoni e così via. Molti di loro lo fanno dall’al di là, «in assenza di tempo», o addirittura da ossari comuni: «Io ho piccola esperienza di quell’oltretomba e poco so dei morti. Quanto ai vivi, non saranno mai sinceri. Metteranno sempre davanti la loro storia, perché la credono più importante».

L’aria del libro tiene decisamente fede al titolo: Michelangelo emerge come un’ombra, e insieme a questa emerge in noi il dubbio che, per cogliere le profondità di una persona, la sola possibile strada passi per, appunto, la sua ombra. In questa prospettiva è interessante notare come la tendenza di Michelangelo a lasciare non finite le sue opere rispecchiasse in qualche modo l’idea secondo cui il solo modo per conoscere e rappresentare qualcosa è interessarsi ai suoi margini sfuggenti, nebbiosi, indefiniti e indefinibili: come quelli di un’ombra, o di un fantasma. Dice il pittore Daniele da Volterra: «Gli anni che io sono stato con lui, a imparare la difficile arte dell’apprendere, sempre su questo mi sono affaticato a capire, a comprendere: perché abbandonare la perfezione raggiunta con così tanto studio e, poco alla volta, nascondersi dietro gesti complessi, difficili, ostili, e quasi sempre incompiuti?». A leggere di Michelangelo e ripensare all’insieme dei libri di Tuena, si ha l’impressione che da lui questi abbia imparato a rompere le cose che si amano: spingerle al limite, costi quel che costi. Vale anche per le storie che si sceglie di raccontare.

Le variazioni Reinach

Un giorno, mentre si aggirava nella casa-museo Nissim de Camondo di Parigi, Tuena vide una piccola e vecchia foto di due ragazzi. Rapito da quell’immagine, si scoprì improvvisamente attratto dalle storie di due famiglie ebraiche francesi, i Camondo e i Reinach, distrutte dall’Olocausto. Decise, con Le variazioni Reinach, di ricostruirne la vicenda attraverso due strade: i pochi documenti storici rimasti e un approccio stilistico che traduceva con chiarezza la convinzione dell’autore secondo cui ogni storia ha un solo stile con cui può essere davvero raccontata, e perché ogni realtà, se si vuole evocarla davvero, richiede un suo abito stilistico.

«Ha bisogno di scriverle le storie che trova, ha bisogno di sentirle sue, come tutti del resto, perché ogni storia è la nostra storia; è quella parte della nostra storia che credevamo dimenticata, quella parte della nostra storia che pensavamo così ininfluente e marginale da poter essere accantonata fin quando qualcuno o qualcosa non ci viene a dire, questa è la storia che hai dimenticato da qualche parte, questa è la storia che hai scordato di aver vissuto, questa è la storia che t’innamora, se ci fosse qualcuno a raccontartela, perché questa è la storia».

Proprio come una composizione musicale, Le variazioni Reinach è strutturato appunto come un insieme di variazioni sul tema della storia delle due famiglie. La frammentazione del testo e l’alternanza fra tipi di materiali – notizie storiche, riflessioni dell’autore, scambi epistolari e così via – sono proprio ciò che ci permette di orientarci nella nebbia storica in cui Tuena ci immerge, guidandoci attraverso un rigore letterario che pare allo stesso tempo tradire e onorare il rigore storico. La ricerca, che era iniziata in quella casa-museo di Parigi, finì dov’era finita la vita dei protagonisti del libro: in un campo di sterminio.

Léon Reinach era un musicista, che peraltro compose una suonata per pianoforte e violino che Tuena stesso, durante le sue ricerche per il libro, ha ritrovato, permettendone l’esecuzione di qua e di là. Osservando il percorso di Tuena, la melodia di quella sonata si lega idealmente alle Variazioni del fantasma di Schumann.

Ultimo parallelo

La lettura di Ultimo parallelo ha costituito per molti lettori italiani (sottoscritto compreso) uno shock letterario, e non solo letterario. Fino a Le variazioni Reinach, che potremmo ora spingerci a considerare un libro di passaggio, a molti Tuena appariva un ottimo scrittore, raffinato e da tenere decisamente d’occhio, ma forse poco più di questo. Poi Ultimo parallelo ha segnato un passaggio, e quel libro ha cominciato a circolare quasi con reverenza fra lettori “militanti” che se lo passavano come sussurrandone il titolo.

In Ultimo parallelo Tuena ricostruisce la storia della spedizione verso il Polo Sud di Robert F. Scott e dei suoi compagni esploratori. Vi arrivarono il 17 gennaio 1912, ovvero cinque settimane dopo la spedizione del norvegese Amundsen. E con una differenza: Amundsen e i suoi uomini tornarono a casa sani e salvi, Scott e il suo gruppo no. L’Antartide li seppellì tutti, conservandoli intatti. «Erano gentlemen che avevano qualcosa da dimenticare piuttosto che da conquistare e che andavano a consumare i loro desideri ai confini del mondo».

Eliot scrisse in The Waste Land: «Chi è quel terzo uomo che cammina sempre al tuo fianco? / Quando conto, ci siamo soltanto tu e io, insieme / Ma quando guardo avanti verso il sentiero bianco / C’è sempre un altro a camminarti al fianco». Eliot disse di essersi ispirato, per questi versi, alle relazioni delle spedizioni antartiche, in cui in effetti si legge più volte di questa impressione di una presenza in più nel gruppo. Tuena ha scelto di affidare la narrazione della storia della spedizione di Scott proprio alla voce di quella persona in più: «Li ho visti sbarcare in una giornata di gennaio assolutamente inattesi e imprevisti».

L’incedere stilistico sembra seguire la dilatazione del tempo e della percezione in un contesto come quello dell’Antartide. Il racconto in prosa si lascia andare spesso a un andamento propriamente poetico, come se parlare della rarefazione di quel paesaggio potesse essere possibile solo attraverso la rarefazione della parola. La ricostruzione è rigorosa. La narrazione procede in un crescendo di tragicità: la spedizione poco a poco si sfalda, le provviste finiscono, i pony e i cani che li accompagnano soccombono e vengono mangiati, si scatenano tempeste, ci sono allucinazioni, errori di valutazione, il vento gelido che soffia fra tutte le pagine, interminabili ore d’immobilità forzata nelle tende, passi faticosi, lo sfaldamento del corpo, quello dello spirito, la fine. «Our dead bodies must tell the tale», scrisse Scott nei suoi diari.

La spedizione che poi sarebbe andata alla ricerca del gruppo guidato da Scott costruì un memoriale in onore di quegli esploratori scomparsi. Una croce. Vi scrissero sopra un verso dalla poesia Ulysses di Tennyson: «To strive, to seek, to find, and not to yeld». Lottare, cercare, trovare, e non cedere.

Stranieri alla terra

Stranieri alla terra, uscito nel 2012, è composto da sette racconti. Mentre metà di questi è di tipo direttamente autobiografico, gli altri invece sono incentrati su figure che per certi versi appaiono come degli studi per possibili altre opere del ciclo di cui stiamo parlando. Leggiamo di Hemingway che sta perdendo la memoria e che cerca di ricordarsi della propria esistenza, oppure del generale americano “Stonewall” Jackson, mortalmente ferito in guerra nel 1863. Notevole e decisamente “tueniana” la storia della Zattera della Medusa, nel suo intrecciarsi con la solitudine del pittore che la dipinse nel celebre quadro, Géricault: una comunione nella deriva. L’episodio forse più felice del libro è La traversata notturna di Manhattan (Call Me Bix), sulla vita del cornettista jazz bianco Bix Beiderbecke. Il racconto esplora l’intreccio fra il genio, il desiderio e la spinta verso l’autodistruzione: una linea comune a buona parte delle opere di Tuena. Stranieri alla terra era apparso ad alcuni una summa finale del percorso dello scrittore, invece era come un punto della situazione prima di addentrarsi nella preparazione dell’ultimo volume della serie: Memoriali sul caso Schumann, da pochi giorni in libreria.

Memoriali sul caso Schumann

Dopo questo excursus, viene da pensare che una delle domande che si fa in apertura uno dei personaggi sia una domanda che si dev’essere fatto anche Tuena, e con lui certi suoi lettori più attenti: «Mi domando, lo spettatore di una catastrofe è veramente immune da responsabilità?».

La struttura dei Memoriali ricalca quella de La grande ombra: una struttura polifonica in cui – attraverso memoriali, lettere, diari, dialoghi e monologhi – sei personaggi raccontano la figura centrale, di cui non sentiamo mai direttamente la voce. Di voci invece Schumann ne sentiva molte, compresa quella di Schubert, che, a suo dire, gli ha suonato il tema su cui poi avrebbe costruito le Variazioni del fantasma. Non sentiamo neanche la voce della moglie Clara Schumann, ma quella del figlio Ludwig sì. Terminò anch’egli i suoi giorni in manicomio. Nella sua postilla di contestualizzazione storica, Tuena riferisce che, negli ultimi suoi ventiquattro anni di vita, non ricevette neanche una visita dai familiari.

Tuena si era interessato ai fantasmi del compositore già nel 2004, con Fantasmi di Schumann a Manhattan, testo in versi scritto per la pianista Maria Pia Carola. Poi quell’attrazione verso il caso Schumann dev’essere riaffiorata perché, vista a posteriori, racchiudeva quel tipo di crepe del destino al centro della poetica di Tuena. Da questo punto di vista, Memoriali sul caso Schumann è un’opera più emotivamente tagliente, stilisticamente ruvida e opportunamente imperfetta di quelle che l’hanno preceduta. Sulla croce posta sul tumulo di Scott al Polo Sud, descritta alla fine di Ultimo parallelo, arriveranno per sempre i raggi del sole polare, facendola splendere; sugli anni di follia di Schumann invece pare poter scendere solo ulteriore oscurità. Il passo successivo è il buio completo, un nero assoluto in cui probabilmente neanche il lumino della letteratura potrebbe farci strada. Del resto, libri come questi ci aiutano a guardare in faccia la paura di quel grado zero del buio e a imparare, nei limiti delle nostre irrisorie possibilità, a farci i conti e a ridimensionarla.

Nella sua lettera mai spedita a Rosalie Leser, Johannes Brahms, allievo prediletto di Schumann e custode di alcuni suoi segreti e segni oscuri del passato, scrive: «Adesso che sono quasi alla fine, che quasi tutto quel che avevo da dire l’ho detto, ho l’impressione di non esser stato io a vivere la mia vita; d’esser stato nient’altro che un’immagine riflessa». È un pensiero che si potrebbe indovinare in molte delle figure che attraversano le pagine di Tuena, e anche in noi suoi lettori, e in Tuena stesso. Lui, come Schumann, le voci le ha sempre sentite: quelle delle persone del passato che a un certo punto gli hanno chiesto di raccontarne la storia. Non si è mai tirato indietro.

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