Dalle 18 di domani, presso il Circolo Arci Lavoro e Sport di Siena, Chiara Cruciati, giornalista de «il manifesto» e redattrice di Nena NewsAgency, interverrà a “Oggi in Palestina.La questione palestinese nell’attuale crisi mediorientale”.

Il Medio Oriente è attraversato da anni da un nuovo, “moderno”, Sykes-Picot. Ad un secolo di distanza è in corso una ridefinizione delle zone di influenza e, concretamente, dei confini dei paesi creati a tavolino dalle potenze coloniali europee nell’obiettivo di spezzare l’unità del mondo arabo, seria minaccia agli interessi strategici, politici e economici europei del secolo scorso.
Un processo inaugurato esattamente 25 anni fa, con la prima guerra del Golfo, strumento statunitense dell’epoca per imporre al mondo una nuova era di monopolio militare dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Con le prime bombe sulla Baghdad di Saddam Hussein, Washington testò in Medio Oriente una forma di mono-imperialismo che ha trovato la sua naturale continuazione con le politiche intraprese dopo l’11 settembre 2001.
Se 100 anni fa si operò, con Sykes-Picot, tracciando linee e imponendo mandati coloniali, dopo l’11 settembre il mezzo è diventato la cosiddetta “guerra globale al terrore”. Una guerra che ha prodotto nella realtà un incremento innaturale e repentino dell’estremismo islamico di matrice sunnita e che oggi viene giustificata con la necessità di frenare l’avanzata dello Stato Islamico. Eppure l’Isis non è nato nel 2014 quando i media internazionali cominciarono a seguire l’avanzata islamista a Mosul. È nato tra Siria e Iraq, dalla madre poi tradita Al Qaeda, a metà degli anni 2000, foraggiato da subito da paesi interessati alla destabilizzazione del cuore del Medio Oriente e dell’asse sciita guidato dall’Iran.
Un percorso ben preciso a cui hanno preso parte i più stretti alleati occidentali, dal Golfo alla Turchia, che ha trovato il suo apice nel tentativo di distruzione di uno degli Stati leader – dal punto di vista politico e culturale – del Medio Oriente: la Siria. Da questo punto di vista l’obiettivo è stato realizzato: scoperchiato il vaso di Pandora dei settarismi interni, il futuro della regione – al di là di una vittoria finale sull’Isis – è un futuro di estrema frammentazione. È palese in Iraq dove gruppi religiosi ed etnici stanno già sollevando le armi uno contro l’altro nel tentativo di imporre confini e zone di influenza, di ampliare i propri territori e di assumere (o riassumere) il controllo del governo centrale di Baghdad. È palese in Yemen dove la guerra scatenata dall’Arabia Saudita contro il movimento ribelle Houthi ha annullato ogni possibilità di dialogo (quello ripetutamente chiesto dalla minoranza sciita, che anelava ad una maggiore partecipazione al processo politico e economico del paese) e prospetta un ritorno al passato, alla divisione territoriale tra nord e sud a cui in parallelo si affiancheranno le autorità ufficiose di gruppi estremisti, tribù, movimenti secessionisti.
Divide et impera. Un motto ancora valido, che rende ancora più attuale – nonostante l’isolamento che oggi vive a livello mediatico – la causa palestinese. La stampa mondiale sta trattando la questione israelo-palestinese come evento sconnesso da quanto si sta verificando in Siria e in Iraq, dalla guerra saudita contro lo Yemen, da quanto viene deciso dalle diplomazie mondiali, dalle due super potenze Usa e Russia. In realtà la questione palestinese resta centrale e strettamente connessa al resto: l’instabilità mediorientale è figlia dell’occupazione perché quell’occupazione e la creazione stessa dello Stato di Israele sono stati i primi strumenti individuati un secolo fa per dividere il mondo arabo. Un mondo che spaventa perché la nazione araba è la terza per grandezza al mondo, 360 milioni di persone, i luoghi in cui è nata la civilizzazione mondiale.
Israele non è nato nel 1948 e non è stato il mero prodotto del movimento sionista. Nel 1905 le più grandi potenze europee si ritrovarono in una conferenza lunga due anni durante la quale definirono gli strumenti di controllo, colonizzazione e sfruttamento dei popoli mediorientali: tra i punti da realizzare c’era la creazione di uno Stato cuscinetto di matrice europea ed occidentale, al centro della regione, che ne spezzasse l’unità e garantisse un bastione da usare per portare avanti i propri interessi economici e politici.
Israele è figlio del colonialismo europeo e lo è ancora oggi. Le ragioni dell’impunità di cui Israele gode non è dovuta alla debolezza statunitense e europea nel costringere Tel Aviv a rispettare gli obblighi previsti dal diritto internazionale. Al contrario, è dovuta all’autorità che queste potenze neocoloniali ancora hanno, nonostante l’attuale ridefinezione degli equilibri di potere mondiali. Il ritorno in campo della Russia, l’ascesa di Cina, Giappone, Brasile nelle stanze del potere della diplomazia mondiale sono destinati a modificare anche l’approccio internazionale a Israele. Tale ridefinezione degli equilibri è ovviamente strettamente legata alla soluzione della crisi siriana e di quella irachena. Per questo è fondamentale guardare alla questione israelo-palestinese nel più ampio contesto regionale e globale.
Qui a tenere il popolo palestinese all’interno del più vasto processo neocoloniale in corso è il mantenimento dello status quo, la realtà nata dopo il 1994, oltre 20 anni di cosiddetto “processo di pace”, fittizio e fasullo, mai concreto ma meramente volto a garantire a Israele spazio di movimento, impunità, espansione coloniale. Israele sa che prima o poi sarà costretto a sedere ad un vero tavolo del negoziato, dove a dettare il suo futuro saranno i punti segnati in precedenza. Ogni metro in più guadagnato, ogni colonia in più costruita saranno strumento di imposizione dei propri interessi.
Ed ecco che lo status quo diventa strategia militare e politica. In tale contesto il sostegno finanziario da parte europea e statunitense al governo palestinese di Ramallah, l’Anp, ha identico fine. I fondi donati al popolo palestinese non sono certo diretti allo sviluppo di un’economia interna, uno sviluppo economico sotto occupazione è nella pratica impossibile. Quel denaro, quella pioggia di denaro, serve a mantenere in piedi gli attuali rapporti di forza per mantenere un’élite economica che coincide con quella politica e allo stesso tempo a fornire palliativi alla società palestinese. Denaro sufficiente a garantire stipendi pubblici (il numero di dipendenti pubblici è oggi pari a 155mila unità, quando per le reali necessità di Ramallah ne basterebbero un terzo) e a foraggiare progetti di emergenza e assistenza che mantengono a galla un popolo in crisi economica.

Cosa può mettere in pericolo lo status quo? Una sollevazione popolare. In condizioni socio-economiche così sfavorevoli, lo scoppio di una nuova Intifada è stato a lungo ritenuto impossibile. La Prima esplose in un periodo fiorente, con un’occupazione pari al 90%, libertà di movimento dentro lo Stato di Israele. Eppure l’Intifada esplose perché la negazione di diritti basilari, a partire da quelli nazionali, spinse la popolazione palestinese in strada. Al contrario, oggi la situazione economica è pessima: il tasso di disoccupazione è pari al 25% in Cisgiordania e va oltre il 40% a Gaza, il muro e i checkpoint hanno diviso il territorio e la sua popolazione, non esiste più libertà di movimento e le terre agricole vengono perse quotidianamente. Allo stesso tempo le politiche neoliberiste applicate dall’Anp e imposte dai finanziatori esterni (Banca Mondiale e FMI) hanno cancellato l’economia di produzione a favore di quella dei servizi e annichilito la popolazione, costringendola ad accendere mutui come mai prima nella storia.
Una sollevazione, nonostante ciò, è esplosa. Ma non è un’Intifada, o almeno non lo è se si ha come modello il 1987: in piazza non scendono le masse ma i giovani, ragazzi sotto i 25 anni che erano bambini o addirittura neonati durante la Seconda Intifada. La cosiddetta “generazione Oslo”, come viene negativamente appellata da chi ritiene si tratti di giovani e adolescenti non politicizzati, interessati a condurre una vita all’occidentale più che alla lotta di liberazione. Una realtà che viene smentita da quanto sta accadendo in questi giorni: in piazza sono i giovani a partecipare alle manifestazioni e agli scontri come sono anche i responsabili di attacchi e accoltellamenti nello Stato di Israele. Ma sono pochi, isolati e senza una guida politica. Privi di una strategia di lungo periodo, facili prede della repressione israeliana.