Un estratto da “Materialismo radicale”, la recente raccolta di saggi di Rosi Braidotti tradotta in italiano da Angela Balzano e edita da Meltemi nella collana Culture radicali diretta dal Gruppo Ippolita, che ringraziamo.
L’esempio visivo
Il politico
In un sistema che, a dispetto dell’evidente contro-prova rappresentata dalle sue ingiustizie strutturali, dall’opportunismo spietato e dalla brutale violenza, insiste ad autodefinirsi capitalismo “avanzato”, la politica femminista ha offerto un contributo fondamentale alla nostra comprensione collettiva di ciò che si intende esattamente per momento e azione politica. Mentre “la solita politica” continua a ripetere protocolli di antagonismo coreografico e pratiche istituzionali prevedibili, la nuova ondata di movimenti femministi opera attraverso la resistenza diffusa ai regimi dispotici, l’occupazione di spazi pubblici e la ricerca di modalità alternative per divenire soggetto politico. Un nuovo movimento di donne si diffonde oggi in tutto il globo, questa è una fonte di gioia per la generazione più adulta alla quale appartengo, ma al contempo di preoccupazione data la risposta repressiva che suscita. La politica femminista esprime il desiderio di trasformazione, sceglie come punto di partenza i rapporti sociali incarnati e interrelati, affettivi e relazionali, la commistione tra personale e collettivo, privato e pubblico. Essa rimette al centro dell’agenda politica questioni scomode e provocatorie, eppure vitali.
Questa prospettiva si traduce in un impegno attivo nella politica della vita quotidiana, dove “vita” non significa banalità, bensì prassi etico-politica di lotta, di confronto, dove critica e creatività viaggiano di pari passo. La politica femminista opera tramite esperimenti trasformativi con le tecnologie del sé, produce nuovi stili di vita e relazioni etiche. È fatta di progressivi passaggi di emancipazione ma anche di esperimenti radicali d’autogestione o prassi critica.
Il femminismo ha inaugurato la pratica detta politica del posizionamento e della collocazione (Rich 1985), come valido espediente per radicare l’attivismo. Una collocazione è un sito spaziale/temporale incarnato e interrelato: è una memoria o meglio è un insieme di contro-memorie, che vengono attivate contro la rappresentazione sociale dominante della soggettività. Questi sono i mezzi indispensabili alla presa di coscienza, che è centrale nella politica trasformativa femminista.
Come femministe siamo state apertamente critiche di ogni orientamento universalizzante, compreso il marxismo. All’opposto, abbiamo espresso il bisogno di un cambiamento di scala, per denunciare i rapporti di potere proprio laddove essi si rivelano più efficaci e invisibili: nell’esistenza psichica, sociale e materiale di ognuno di noi, nelle pratiche intellettuali e relazionali a noi immanenti. Occorre cominciare dalle micro-istanze del sé incarnato e interrelato, dalla complessa rete di relazioni sociali che lo informa. Pratica situata. L’enfasi per la natura incarnata e interrelata del sé si traduce nell’uso dell’esperienza vissuta, e in un rinnovato interesse per il presente. Occorre pensare globalmente ma agire localmente: qui e ora.
Per affrontare il presente e al contempo resistergli, per divenire opposizione senza essere negative/i: questa è la sfida per le soggettività relazionali e politicizzate. Naturalmente, occorre sviluppare una profonda consapevolezza della vulnerabilità dei soggetti incarnati, come nelle più acute ed efficaci analisi di come funziona il potere in e attraverso il corpo (Butler 2004). Il doppio interesse da un lato per la fragilità, dall’altro per la resistenza ai rapporti di potere dispotici e alla violenza maschile, risulta indispensabile per un approccio femminista alla politica. “La differenza” non è mai una categoria neutrale, ma un termine che indicizza l’esclusione dai diritti delle soggettività.
La differenza può essere funzionale alla creazione di una vera e propria categoria di esseri viventi svalutati in quanto corpi marginalizzati, usa e getta: tali sono i corpi delle altre/i sessualizzate/i, razzializzate/i e naturalizzate/i, per cui essere differenti significa sempre essere diversi-da e valere meno di. Siamo tutti esseri umani, è solo che alcuni sembrano essere più mortali di altri.
Il contesto
Oggi vorrei nuovamente rendere omaggio a tale tradizione di politica femminista radicale, in un momento storico in cui la tendenza generale è quella di abbandonarla o deriderla, come si trattasse di un esperimento trascorso e obsoleto. Il femminismo rifiuta il tono moralista e dogmatico delle ideologie dominanti, siano esse di sinistra o destra, a favore della gioiosa creazione di atti di insurrezione. La politica femminista è critica e al contempo affermativa, mira alla contro-produzione di un presente alternativo e alla metamorfosi della soggettività. Gli aspetti spontanei e creativi della pratica femminista viaggiano di pari passo con una profonda forma di generosità, che si esprime nell’etica del no-profit, fondata sulle istanze dell’attivismo micro-politico. Questo approccio umile e ancora sperimentale tenta di cambiare le nostre comuni modalità di relazione all’ambiente, le nostre norme, i nostri valori culturali e sociali, i nostri immaginari e i nostri corpi. Questo approccio punta a cambiare noi stessi, e in questo tentativo di trasformazione del sé risiede la manifestazione più pragmatica dell’immanenza radicale della politica femminista, uno dei nostri contributi più importanti alla costituzione della democrazia radicale. Il femminismo, inoltre, rompe con la tradizionale interpretazione marxista della violenza rivoluzionaria, non considerandola rimedio efficace per i processi e le pratiche sociali di sfruttamento, marginalità ed esclusione. Questa politica femminista immanente e radicalmente materialista non dà nulla per scontato, prende sul serio affetti, sessualità, pacifismo, diritti, questioni ambientali e futuro sostenibile.
Ciononostante, i guru teorici di ciò che resta della sinistra lamentano la loro impotenza politica, per citare Alain Badiou (2013), o perfezionano l’arte istrionica dello smascheramento fine a se stesso, come Žižek, lanciandosi in pericolosi giochi di prestigio: essi hanno cancellato virtualmente il patrimonio intellettuale e politico rappresentato dalla teoria e dalla pratica femminista degli ultimi trent’anni – come se noi non avessimo sviluppato schemi, metodi, pratiche e tattiche che potrebbero essere di rilevanza generale. La sinistra ha molte domande cui rispondere circa la violenza epistemica che ha esercitato contro la teoria e la pratica femminista, non dovrebbe aggiungere al danno la beffa, prima eliminando il femminismo dai suoi orizzonti e poi lamentando l’assenza di politiche alternative a sinistra della sinistra. Ciò che resta della sinistra non comprende la politica femminista dell’esperienza; essa non riconosce l’importanza della politica del desiderio e dell’affermazione di strade alternative per i divenire delle soggettività. Il femminismo esprime una radicale aspirazione alla libertà, il suo obiettivo è affrontare e demolire le forme stabilite e istituzionalizzate di identità di genere e le relazioni di potere in cui prendono concretezza. Questa politica di gioiosa affermazione di contro-discorsi, lungi dal rappresentare un ritorno al narcisismo culturale – come i critici bisbigliano – è un intervento incisivo sulla brutalità e la banalità del potere. Incoraggia la contro-produzione di affetti e desideri politici alternativi. Il perseguimento della felicità politica è collettivo, non individualista e non è orientato al profitto. Si tratta di un progetto politico che guarda a orizzonti sociali di metamorfosi, ovvero alla ricerca e alla diffusione di alternative sostenibili all’economia politica schizoide del capitalismo avanzato, alla sua brutale materialità e alla sua violenza omicida.
Siamo qui e non agonizziamo, noi ci organizziamo!
Volti pubblici e regimi di potere
Non è perché si autodefinisce “avanzato” che il potere capitalista può essere ritenuto sofisticato. In realtà è un sistema primitivo, maliziosamente semplice. Per questo alcuni conservatori si mostrano orgogliosi nel definire il capitalismo come istintivo, parte del genoma umano (Dawkins 1976) e suo capitale evolutivo. Io rifiuto fermamente queste posizioni narcisiste e autocompiacenti, per concentrare il mio lavoro intellettuale sul disvelamento delle forze che sostengono i movimenti schizoidi e le deterritorializzazioni di tale rapido sistema centrifugo, che avanza a tutta velocità sulla strada verso il nulla. Le analisi femministe sul potere non si limitano a sfatare ogni nozione di radice naturale del capitalismo, inteso quale parte di quel concetto astratto che è la natura umana. Ma cos’è, mi chiedo, la natura, e perché essa dovrebbe avere a che fare con l’umano?
Il femminismo, movimento dal basso e attività molecolare, ha tra i suoi obiettivi la critica dei nostri desideri singolari e collettivi, perché solo analizzando le condizioni del nostro assoggettamento possiamo modificarle. Se continuiamo a credere nella inevitabilità di ogni sorta di oppressione, nella naturalizzazione dei rapporti di potere capitalistici, ci inganniamo collettivamente. Il fascino che il potere esercita sul collettivo è stato spiegato anche nei termini della micro-politica del dominio, che inizia proprio dalla costruzione dei nostri desideri. In altre parole il capitale non è una nozione trascendente, bensì un flusso di forze radicalmente immanente: esso ha a che fare con l’iscrizione dei corpi nelle relazioni di potere, attraverso una modalità trasversale che sussume affetti e desideri inconsci. Il capitale mira a saturare lo spazio sociale, i suoi sistemi di significazione e le forme di interazione. Componenti fondamentali della sua efficienza sono i poteri di visualizzazione, di ricognizione e di rappresentazione, che mobilita e controlla. Lasciatemi spiegare meglio questo punto. Le femministe sono state tra le prime a denunciare e criticare la seduzione esercitata dall’immagine del potere incarnato dal soggetto dominante, che rappresenta le norme, i valori e le aspirazioni del popolo. Le politiche femministe sono caratterizzate da un forte background libertario, che implica la critica del volto pubblico come emblema egemone del potere sovrano. Deleuze e Guattari (1975; 2006) ci hanno insegnato che la viseità – la visualizzazione del potere circoscritta in un volto riconoscibile – adempie alla funzione della riterritorializzazione del soggetto. I volti pubblici diffondono gli stili del sé, delimitano la proprietà privata degli individui assoggettati, in modo da renderli identificabili, commerciabili e valorizzabili. Un volto distribuisce potere nel territorio che produce e controlla; genera identità singolari e collettive sotto forma di marche, tanto più riconoscibili quanto più simili all’immagine del potere.
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